L’attirò a sé.

- No - pregò essa - qui accanto dorme mio padre ch’è indisposto.

- So baciare senza far rumore, - dichiarò lui e le premette lungamente le labbra sulla bocca mentre essa continuava a protestare, ne risultò così un bacio frazionato in mille, adagiato in un alito tiepido.

Stanca, ella si svincolò e corse ad aprire la porta. - Ora s’accomodi qui e sia saggio perché dalla cucina ci vedono. - Sempre ancora rideva ed egli, poi, la rammentò spesso così lieta d’avergli giuocato quel tiro da bambina maliziosa che fa dispetti a chi la ama. Sulle tempie i capelli le erano stati arruffati dal suo braccio, ch’egli, come sempre, aveva posto intorno alla bionda testa; con l’occhio egli accarezzò le tracce della propria carezza.

Appena più tardi vide la stanza in cui si trovavano. La tappezzeria non era troppo nuova, ma i mobili, date quelle scale, quel corridoio e i vestiti della madre e della sorella, sorprendentemente ricchi, tutti dello stesso legno, noce, il letto coperto di un drappo con larga frangia, in un canto un vaso enorme con alti fiori artificiali e di sopra, sulla parete, aggruppate con grande accuratezza, molte fotografie. Del lusso insomma.

Egli guardò le fotografie. Un vecchio che s’era fatto fotografare in posa di grand’uomo, appoggiato a un fascio di carte. Emilio sorrise. - Il mio santolo - presentò Angiolina. Un giovanotto vestito bene ma come un operaio in festa, una faccia energica, uno sguardo ardito. - Il santolo di mia sorella, -

disse Angiolina, - e questo è il santolo del più giovane dei miei fratelli, - e fece vedere il ritratto di un altro giovanotto più mite e più fine dell’altro.

- Ce ne sono degli altri? - domandò Emilio, ma lo scherzo gli morì sulle labbra perché tra le fotografie ne aveva scoperte due unite, di uomini ch’egli conosceva: Leardi e Sorniani! Il Sorniani, giallo anche in fotografia, lo sguardo torvo , pareva continuasse anche di là a dir male d’Angiolina.

La fotografia del Leardi era la più bella: la macchina aveva fatto questa volta il proprio dovere riproducendo tutte le gradazioni del chiaroscuro, e il bel Leardi pareva ritratto a colori. Stava là, disinvolto, non appoggiato a tavoli, libere le mani inguantate, proprio in atto di presentarsi in un salotto ove forse lo attendeva una donna sola. Guardava Emilio con una cert’aria di protezione, naturale alla sua bella faccia d’adolescente, ed Emilio dovette torcere lo sguardo, pieno di rancore e d’invidia.

Angiolina non comprese subito perché la fronte di Emilio si fosse tanto oscurata. Per la prima volta, brutalmente, egli tradì la sua gelosia: - Non mi piace mica di trovare tanti uomini in questa stanza da letto. - Poi, vedendo ch’ella si sentiva tanto innocente da essere stupefatta del rimprovero, addolcì la frase: - E quello che io ti diceva sere or sono; non è bello di vederti circondata da cotesti figuri e può danneggiarti. Già il fatto che li conosci è compromettente.

Improvvisamente ella ebbe dipinta sulla faccia una grande ilarità, e dichiarò ch’era ben lieta di vederlo geloso. - Geloso di questa gente! - disse poi rifacendosi seria e con aria di rimprovero, - ma quale stima hai dunque di me? - Ma quando egli stava già per chetarsi, ella commise un errore. - A te, vedi, darò non una ma due delle mie fotografie - e corse all’armadio a prenderle. Dunque tutti gli altri possedevano una fotografia di Angiolina; ella glielo aveva raccontato, però con un’ingenuità tale che egli non osò di fargliene un rimprovero. Ma venne ancora di peggio.

Costringendosi ad un sorriso, egli guardava le due fotografie ch’ella gli aveva consegnate con un inchino scherzoso.