Egli, che come tutti coloro che non vivono, s’era creduto più forte dello spirito più alto, più indifferente del pessimista più convinto, guardò intorno a sé le cose che avevano assistito al grande fatto.
Non c’era male. La luna non era sorta ancora, ma là, fuori, nel mare, c’era uno scintillìo iridescente che pareva il sole fosse passato da poco e tutto brillasse ancora della luce ricevuta. Alle due parti, invece, l’azzurro dei promontorii lontani era offuscato dalla notte più tetra. Tutto era enorme, sconfinato e in tutte quelle cose l’unico moto era il colore del mare. Egli ebbe il sentimento che nell’immensa natura, in quell’istante, egli solo agisse e amasse.
Le parlò di quanto a lui era stato raccontato dal Sorniani, interrogandola finalmente sul suo passato.
Ella si fece molto seria e parlò in tono drammatico della sua avventura col Merighi. Abbandonata?
Non era la vera espressione perché era stata lei a pronunziare la parola decisiva che aveva sciolto i Merighi dal loro impegno. Vero è che l’avevano seccata in tutti i modi, lasciando intendere che la consideravano quale un peso nella famiglia. La madre del Merighi (oh, quella vecchia brontolona, cattiva, malata di troppa bile) glielo aveva spiattellato chiaro e tondo: - Tu sei la disgrazia nostra perché senza di te mio figlio potrebbe trovare chissà che dote. - Allora di propria volontà, ella abbandonò quella casa, ritornò dalla madre - disse dolcemente questa dolce parola - e, dal dolore, poco appresso, ammalò. La malattia fu un sollievo perché nella febbre si dimenticano tutti gli affanni.
Poi ella volle sapere da chi egli avesse appreso quel fatto. - Dal Sorniani.
Non ricordò subito quel nome, ma poi esclamò ridendo: - Quel brutto coso giallo che va sempre in compagnia del Leardi.
Anche il Leardi ella conosceva, un giovinotto che incominciava allora allora a vivere, ma con una foga che lo aveva posto subito in prima linea fra i gaudenti della città. Il Merighi gliel’aveva presentato molti anni prima, quando tutt’e tre erano quasi bambini; avevano giocato assieme. - Gli voglio molto bene - conchiuse essa con una franchezza che faceva credere nella sincerità di tutte le altre sue parole. E anche il Brentani il quale incominciava a inquietarsi per quel giovine, temibile Leardi che gli si cacciava accanto, a quelle ultime parole si tranquillò: - Povera fanciulla! Onesta e non astuta
Non sarebbe stato meglio di renderla meno onesta e più astuta? Fattasi questa domanda, gli venne la magnifica idea d’educare quella fanciulla. In compenso dell’amore che ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: la conoscenza della vita, l’arte di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perché con quella bellezza e quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella lotta per la vita. Così, per merito suo, ella si sarebbe conquistata da sé la fortuna ch’egli non poteva darle. Subito le volle dire una parte delle idee che gli passavano per il capo. Cessò di baciarla e d’adularla e, per insegnarle il vizio, assunse l’aspetto austero di un maestro di virtù.
Con un’ironia di se stesso in cui spesso si compiaceva, si mise a compiangerla d’essere caduta fra le mani di un uomo come lui, povero di denaro e anche di qualche cosa d’altro, energia e coraggio.
Perché se egli avesse avuto del coraggio, - e facendole per la prima volta una dichiarazione d’amore più seria di tutte le precedenti, la sua voce si alterò in una grande commozione, - egli si sarebbe presa la sua bionda fra le braccia, se la sarebbe stretta al petto e l’avrebbe portata attraverso alla vita.
Ma invece egli non si sentiva da tanto. Oh, la miseria in due era una cosa orribile; era la schiavitù, la più dolorosa di tutte. La temeva per sé e per lei.
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