SMARRIMENTI

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Già con questo suo primo romanzo Hjalmar Söderberg suscitò scandalo, guadagnandosi la fama di scrittore cinico e in qualche modo sovversivo. A distanza di più di un secolo dalla pubblicazione, rileggendo queste pagine che restano tra le più belle della letteratura a cavallo del secolo, riesce però difficile credere che una storia di giovanili sviamenti − raccontati senza indulgere a facili moralismi, ma anche senz’ombra di compiacimento − potesse suscitare reazioni tanto violente. Non si fatica invece a pensare che l’accanimento dei critici fosse piuttosto sollecitato da un altro aspetto dell’opera, che ancora oggi provoca, se non scandalo, certo disagio e forse sgomento. Ed è l’acuta e netta percezione del grande vuoto che circonda l’uomo, della sua solitudine senza possibile redenzione di fronte all’esistenza e agli interrogativi che essa pone; come se fosse in viaggio, in una terra incognita, senza mappe e strumenti di orientamento, e neppure mete che valga la pena di raggiungere.

Hjalmar Söderberg nacque a Stoccolma nel 1869. Dopo aver abbandonato l’università per dedicarsi esclusivamente alla letteratura, debuttò nel 1895 con il romanzo Smarrimenti, cui seguirono una raccolta di novelle (1898; Il disegno a inchiostro), il romanzo autobiografico La giovinezza di Martin Birck (1901), Il Dottor Glas (1905) e Il gioco serio (1912). Del 1906 è il dramma Gertrud, da cui C. Th. Dreyer trasse un suo celebre film. Nel 1917 si trasferì a Copenaghen dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1941.

Senza frontiere

In copertina: Herbert von Reyl-Hanisch, Selbstporträt in blauer Jacke (1927), Bregenz, Vorarlberger Landesmuseum (inv. nr. 1515).

Titolo originale: Förvillelser, 1895.

© 1993 Lindau

Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 - 10128 Torino

Nuova edizione: maggio 2015
ISBN 978-88-6708-417-3

Hjalmar Söderberg

SMARRIMENTI

Traduzione e note di Massimo Ciaravolo

Lindau

Ai lettori indulgenti

(Prefazione alla seconda edizione, 1905)

I nostri libri fanno a gara a invecchiare con noi, e a volte sono loro i più veloci. Proprio in questi giorni d’ottobre di dieci anni fa il libro qui presentato in una nuova edizione si affacciava al mondo per la prima volta, imbattendosi in avventure inattese. Allora c’era sui giorni una luce diversa da adesso, un altro cielo sopra i tetti a primavera. Ritengo che, come dice il francese, «un pezzo di luna sia caduto da allora» e non mi illudo che questo mio libro giovanile abbia resistito al tempo meglio di tanti altri. Penso tuttavia che il lettore non possa non percepire magari anche solo un pallido riflesso della gioia che ho provato io nello scriverlo. In verità non mi sono mai divertito tanto, né prima né dopo. Ero immerso in una febbrile ebbrezza di felicità mentre lo scrivevo; e, una volta completatolo, giudicai che fosse proprio così che un libro doveva essere.

Naturalmente era per me chiaro come il sole che tutti gli altri la dovessero pensare allo stesso modo. Lascio dunque a voi di giudicare la mia dolorosa sorpresa quando un pomeriggio, all’Anglais, presi in mano un «Aftonbladet» appena uscito e vidi che Harald Molander, in una recensione di poche righe, liquidava il mio capolavoro come vera e propria letteratura da porcile! Il mio amico Bo Bergman era con me e mi aiutò a reggere il colpo. Naturalmente eravamo entrambi dei pessimisti, ma questo andava oltre ogni nostra immaginazione. Il mondo era ancora peggiore di quanto avessimo pensato. Fissammo silenziosi il fumo delle sigarette, senza riuscire a trovar parole. E ci separammo come due ombre.

Però mi ripresi! Il signor Erik Tyselius dirigeva a quel tempo un’eccellente rivista su cui si poteva scrivere di tutto: la «Nordisk Revy». Era proprio ciò di cui avevo bisogno. Scrissi una risposta ad Harald Molander in cui lo definivo un vecchio gaudente e, con una similitudine appena velata, lasciavo intendere che lo consideravo un maiale. In questo vi era certamente un pizzico di ipocrisia. Poco prima che la sua recensione apparisse sull’«Aftonbladet» avevo avuto il piacere di trascorrere alcune serate in sua compagnia, gradevole come sempre, ed ero letteralmente invaghito di lui. La sua chiacchiera era la più scabrosa e simpatica che avessi sentito fino ad allora. Io stesso inoltre mi ero occupato di critica, e sapevo che non è sempre facile preservare immune il proprio giudizio da motivi di opportunità e dall’atmosfera del giornale su cui si scrive. Non mi venne nemmeno in mente, difatti, l’eventualità che sul serio giudicasse brutto il libro; non glielo avrei mai perdonato. Pensai che aveva avuto le sue ragioni per scrivere quel che aveva scritto, e che quelle ragioni erano assai umane.