Perciò, in realtà, non ero molto in collera con lui. Ma d’altro canto non avevo nessuna voglia di sottopormi a ciò che Voltaire trovava tanto spiacevole: l’essere impiccato in silenzio. Credevo fosse il caso di dimostrare che avevo artigli.

La sua replica giunse con il numero successivo, ed era redatta in mezzo francese: la lingua madre non era sufficiente a esprimere i suoi sentimenti. Vi erano delle ingiurie che dovetti andare a cercare nel mio dizionario di francese per sapere quello che valevo. E allora divenni triste. Anche Harald Molander, difatti, aveva artigli, ed erano meglio affilati dei miei.

Ad ogni modo il libro non corse più il rischio di diventare ciò che, con il vecchio termine francese da libraio, si definisce un «usignolo»: uno che canta solo nella notte e nel silenzio, tra gli scaffali del magazzino dell’editore. A quei muti concerti ho evitato di partecipare, allora come poi, e non ho mai potuto dimenticare il debito di riconoscenza che, da questo punto di vista, ho verso Harald Molander. Le circostanze lo portarono quella volta a prendere una posizione che, specialmente per lui, era un po’ complicato difendere; ma si comportò con coraggio. Era un buon guerriero: avrebbe avuto bisogno di miglior guerra. E non era vendicativo. Lo incontrai un paio di anni più tardi a una di quelle feste stoccolmesi nelle quali amici e nemici si raccolgono in un unico guazzabuglio, credo fosse al settantesimo compleanno di Frans Hedberg. Venne verso di me e mi porse la mano con un pallido sorrisino diplomatico. Presi la mano e la strinsi, cercando di rifare il sorrisino. Già allora era prostrato dalla sua malattia, e presto sarebbe andato tra le ombre, ove noi tutti siamo destinati.

Ottobre 1905

Hjalmar Söderberg

SMARRIMENTI

1

Un giovane signore in soprabito blu scuro e guanti rossi stava uscendo da una bottega sull’Arsenalgatan. I guanti erano nuovissimi, li aveva appena acquistati in quel negozio.

Era molto giovane, vent’anni, forse neanche.

Era uno degli ultimi giorni di aprile, un giorno irrequieto con un cielo azzurro-mare solcato da branchi di nuvoloni; un giorno dal sorriso capriccioso, con avvicendamenti repentini di sole e di nuvolosità, e con folate di vento pungente da est, dall’arcipelago, dal mare. Le campane della chiesa di Jakob suonavano e rimbombavano: si stava seppellendo un vecchio scrittore.

«Guarda chi c’è, buon giorno Tomas, con dei nuovi guanti rossi, vedo… Congratulazioni per il baccalaureato, l’ho letto ieri sul giornale. Che cosa hai combinato ultimamente? Non ti vedo da parecchi giorni…».

Era Johannes Hall, un giovane bruno, alto, di sei o sette anni più anziano di Tomas Weber. Non aveva una vera e propria occupazione, ma neppure gli serviva; tempo addietro, infatti, aveva del tutto inaspettatamente ricevuto un’eredità piuttosto cospicua.

«Be’, ti ho cercato sia ieri sia l’altro ieri, ma tu non eri in casa, come al solito… Dai, andiamo all’Oriental a festeggiare il mio esame con una bottiglia di vino del Reno».

«Già, perché no…».

Le strade brulicavano di gente. Era uno dei primi giorni di una tardiva primavera. Ogni due passi ci si imbatteva in un venditore di palloncini, moro e dal sorriso affabile, con il suo sgargiante fascio colorato di involucri di gomma gonfiati con gas. In mezzo al marciapiede di piazza Carlo XII un gruppo di bambini e ragazzetti fissava a bocca aperta e con il naso all’insù un puntino rosso nel cielo azzurro – un palloncino scioltosi che navigava via, sopra i tetti.

Tomas camminava sorridendo tra sé e sé.

«Hai l’aria allegra oggi», rilevò Hall, «ti è capitato qualcosa?».

«No, cioè… ho visto una ragazza poco fa, nel negozio di guanti là in fondo… Aveva degli occhi così impauriti, castano rossiccio».

«Ah, lei, sì, gran bella ragazza. Anch’io ho comprato i guanti lì in un paio di occasioni. Tutte e due le volte mi sono innamorato di lei e mi sono proposto di farne qualcosa, ma poi me ne sono dimenticato».

Erano giunti al molo di Blasieholmen. I battelli dell’arcipelago, presso la banchina, avevano delle macchie di colore rosso che luccicavano al sole. Le acque dello Strömmen 1 si stendevano ampie, azzurre e deserte; la navigazione non aveva ancora ripreso a pieno ritmo quell’anno.

«Quanti anni avrà, secondo te?».

«Non so. Ventuno, ventidue anni».

Il caffè Oriental era deserto. Come pallide ombre, i camerieri sfilavano avanti e indietro nell’oscurità dei corridoi.

Hall si gettò, quasi coricandovisi, su uno dei divani ampi e bassi che, con i loro tessuti orientali a tinte vivaci, davano alle sale la loro impronta di camere di un harem. Tomas Weber prese posto su una sedia di vimini a braccioli.

La luce del sole inondava la stanza penetrando come un fiume dorato attraverso le variopinte vetrate della finestra con i suoi gigli gialli e i suoi tulipani rossi.

Sotto gli arabeschi delle cornici regnava un silenzio sognante.

«Hai da fumare?», domandò Tomas.

Hall tirò fuori il suo portasigarette.

Arrivò il vino. Da come il cameriere scodinzolava le falde del suo frac si capì che si trattava di qualcosa di assai caro. Tomas aveva avuto dei soldi da suo padre in occasione dell’esame, e non desiderava altro che finirli al più presto.

Tomas Weber aveva un viso aperto, con occhi azzurri e capelli castano chiaro pettinati all’indietro.