Di che cosa avrebbe potuto parlare per interessarla? Improvvisamente gli venne in mente la storia dei pantaloni di Gabel che aveva sentito da Tomas Weber, e già dopo il primo bicchiere di Bordeaux gliel’aveva raccontata. Per di più Grothusen era seduto lì vicino, dall’altra parte del tavolo e un po’ di sbieco, e poteva servire da materiale visivo. Questa storia mise la vivace signora in uno stato d’animo così allegro che Mortimer quasi si preoccupò.
«Sul serio?» domandò lei, cercando Grothusen con gli innocenti occhi azzurri dall’espressione languida.
Il barone Grothusen non aveva fiori all’occhiello, era infatti per la prima volta ospite a casa del console Arvidson. Stava conversando con la signorina Mary, la figlia del console, riguardo a certe riforme in ambito militare. Cercava di interessarla soprattutto all’introduzione dei bottoni scuri, dello stesso colore dell’uniforme; i lucidi bottoni metallici erano antiquati.
«In tempi siffatti non danno lustro al nostro stato, piuttosto lo ridicolizzano, e in guerra sono semplicemente pericolosi. Inoltre la cosa farebbe una buona impressione in Parlamento…».
La signorina Arvidson lo osservava interessata con i suoi occhi bruni e seri che sembravano voler ricercare l’autenticità in ogni cosa. C’era indubbiamente qualcosa di virile nel barone Grothusen; qualcosa di virile e di fidato. E lei capì dalla rispettosa cortesia del colonnello Vellingk mentre beveva con lui, che l’uomo godeva di alta stima presso i suoi superiori.
Il professor Weber aveva accanto la signora Brehm. Era impossibile immaginarsi che quella rosea, infantile testolina rococò già spruzzata di bianco appartenesse a una donna provata ed esperta, la cui forte natura le aveva permesso di superare crisi difficili con saggezza e senza danni. Era cresciuta in condizioni misere e il suo non era stato un matrimonio felice. Da otto anni era separata dal marito, un commerciante andato in fallimento che, dopo una serie di transazioni scorrette, si era trasferito in America. Ora riceveva annualmente gli alimenti per sé e per i figli dal suocero, un uomo assai agiato che per di più l’adorava; lei stessa inoltre aveva dei non trascurabili guadagni grazie alle traduzioni. Circondata dai tre figli e da una parente, la signorina Berger, trascorreva ora il periodo più felice della sua vita in un piccolo appartamento in Döbelnsgatan. Oltre al suocero, vedovo, erano i Weber e gli Arvidson le persone che frequentava con più assiduità, praticamente le uniche; lei era una vecchia amica di gioventù della signora Weber.
Il professore le riempiva ogni tanto il bicchiere, ma la sua conversazione non era particolarmente vivace; stava pensando a un breve discorso che intendeva tenere. Gabriel Mortimer, il suo vicino di destra, la intratteneva invece assiduamente sulla letteratura, un argomento che la interessava oltremodo.
La signora Mortimer cercava invano di avviare un’istruttiva conversazione con il pastore Caldén, un uomo di mezza età con testa pelata e sguardo aguzzo, la cui tonaca scura era in stridente contrasto con gli sparati bianchi e le tolette chiare degli altri. Il pastore rispondeva in modo cortese ma evasivo a tutte le domande riguardanti le questioni vitali dell’umanità che la loquace signora Mortimer gli faceva piovere nelle orecchie con allegra confusione. Non era propenso a introdurre in una superficiale conversazione da tavola le cose che lui considerava più alte; e delle cose indifferenti non era assolutamente in grado di parlare. Si limitava pertanto a risposte succinte e un po’ asciutte, dietro le quali la signora Mortimer non sapeva se supporre la profondità di un uomo d’ingegno o la scarsa abitudine alla vita di società che è tipica dello studioso riservato. La garbata ironia che tali risposte in realtà celavano le sfuggì del tutto, fortunatamente. Il pastore Caldén non era un genio, ma con i geni aveva in comune il fatto che qualunque sfera di pensiero diversa dalla propria fosse per lui ombra vuota e illusione, perché la sua visione era stata il risultato e la sostanza della sua vita. Non aveva mai provato altro dubbio al di fuori di quello che l’uomo scrupoloso nutre verso sé stesso, la propria forza e la propria adeguatezza nel rappresentare una grande causa. Il suo fervente zelo, di fronte al quale tutte le considerazioni non essenziali si dissolvevano come nebbia al sole, lo stava appunto strappando alla sua modesta attività di insegnante presso una scuola per fare di lui una potenza spirituale, un fattore da tener presente e un tremendo avversario dell’indirizzo modernista nel mondo religioso della capitale e del suo principale portavoce, un prelato liberale, molto popolare, che, come un novello Assalonne, era rimasto sospeso per i capelli fra il cielo della fede infantile e la terra del buon senso comune. Dietro la granitica sicurezza con cui il pastore Caldén sosteneva la causa che aveva fatto propria, si celavano conflitti interiori più profondi di quelli che il mondo conosceva. La sua donna delle pulizie era rimasta più di una volta interdetta, quasi impaurita, sentendolo pregare attraverso la porta chiusa del suo studio: una preghiera sommessa, ma così intensa da far scricchiolare la casa di legno.
«Come è cambiato Lei da quando si è sposato!», sussurrò la signora Wenschen a Gabriel Mortimer con un lungo sguardo malinconicamente pensieroso da dietro il ventaglio.
Mortimer era sposato da quasi dieci anni, ma agli occhi della signora Wenschen era ancora sposo novello.
«Eh, sì», rispose Mortimer, «specialmente dal Suo punto, di vista…».
Lei gli diede un calcio di mite rimprovero sullo stinco: con il suo piedino tondo, avvolto dalla scarpa scamosciata. Il suo volto aveva assunto un’espressione tirata, severa, quasi offesa.
«Ahi», disse Mortimer.
La signora Wenschen aveva la fronte corrugata.
«Non mi piace avere il signor Hammer seduto di fronte», riprese lei con il ventaglio davanti alla bocca. «Sembra la nostra cattiva coscienza».
Mortimer non la sentiva. Era assorto, con lo sguardo nel vuoto, come gli capitava di tanto in tanto. Aveva l’espressione di uno che si sforza di ascoltare un aneddoto di cui ognuno ride e del quale lui comprende tutto, tranne che cosa ci sia da ridere.
Hammer faceva una certa fatica a intrattenere la sua dama, la signorina Dorff, una giovane cantante. Era totalmente negato per la musica, e dunque non poteva discorrere di quell’argomento. Karl Hammer era impiegato nell’ufficio del console Arvidson, con cui, inoltre, era imparentato alla lontana.
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