Via, sciamate lesti,

“una qui a vegliarla resti”.

(Escono tutte le fate)

OBERON compare, s’accosta a Titania che dorme e le spreme il fiore sulle palpebre

OBERON -

Pel primo che vedrai, aprendo gli occhi,

insano amor ti tocchi.

Sia pur mostro tutto orrore,

languirai per lui d’amore.

Sia pur orso, o pardo, o cervo,

o cinghial dal pelo acerbo

che al tuo occhio primo appare,

quello tu dovrai amare.

Perciò sol ti sveglierai

quando quello accanto avrai.

(Sparisce)

Entra LISANDRO con ERMIA appoggiata al suo braccio

LISANDRO -

Amore mio, tu svieni;

questo lungo vagare per il bosco

t’ha stancata, e, a dir la verità,

ho smarrito il cammino.

Riposiamoci qui, Ermia, se credi,

a attendere il conforto del mattino.

ERMIA -

Sì, Lisandro.

Tròvati tu un giaciglio come puoi;

io mi distendo qui,

poggiata il capo sopra questo greppo.

LISANDRO -

Questo ciuffetto d’erba, mia diletta,

può servir da cuscino a tutti e due:

un sol cuore, un sol letto,

due anime, ed una stessa fede.

ERMIA -

No, buon Lisandro, no; se mi vuoi bene,

stattene più discosto,

non ti giacer così vicino a me.

LISANDRO -

Oh, dolcezza, non devi fraintendere

l’innocenza di questa mia proposta!

Amore coglie da se stesso il senso

del parlare amoroso:(44) voglio intendere

che il mio cuore è così legato al tuo

che d’entrambi se ne può fare un solo;

due cuori incatenati con voto,

due anime congiunte in un sol nodo.

Non negarmi perciò, Ermia, un giaciglio

accanto a te, perché così giacendo

non ti voglio ingannare, mia diletta.(45)

ERMIA -

Lisandro sa giocare molto bene

con le parole. Che siano dannate

le mie brusche maniere e il mio orgoglio,

se Ermia abbia mai potuto intendere

che Lisandro volesse abbindolarla

Ma se ti chiedo, gentile compagno,

per un atto d’amore e cortesia,

di metterti a dormire un po’ lontano,

è per pudore: una separazione,

com’essa può ben essere chiamata,

qual si conviene a un giovane virtuoso

e a una fanciulla vergine.

Sta’ discosto, perciò, dolce compagno

e buona notte. E mai l’amore tuo

si guasti fino al fine di tua vita!

LISANDRO -

Amen, amen, a questa tua preghiera

io dico; e che finisca la mia vita

se mai finisca la mia fedeltà!

Qui è il mio letto; a te conceda il sonno

il suo pieno ristoro.

ERMIA -

Questo augurio riposi per metà

sugli occhi di colui che me l’ha detto.

(Si distendono e s’addormentano)

Appare PUCK

PUCK -

“Tutto il bosco, fino in fondo,

“sono andato perlustrando,

“l’ateniese invan cercando

“sulle cui ciglia saggiare

“il potere del mio fiore

“a far nascere l’amore.

“Notte… non uno stormire…

(Vede Lisandro addormentato)

“Ma chi vedo qui dormire?

“Sembra, all’abito, il garzone

“che, a sentire il mio padrone,

“tiene a sdegno la pulzella,

“l’ateniese damigella”.

“Ecco, infatti, che distesa

“vedo ch’ella pur riposa

“sopra queste umide zolle.

“Pover’anima! Ella volle

“certamente star lontano

“da un tal fior di disumano

“schiva-amore e gran villano”.

(S’avvicina a Lisandro che dorme, e gli spreme il succo sulle palpebre)

“Sui tuoi occhi, sciagurato,

“verso il filtro mio fatato.

“Quando ti sarai destato

“sui tuoi occhi già insediato

“sarà Amore, e da gran donno,

“a impedirti e pace e sonno.

“Or ti lascio, devo andare,

“da Oberon devo tornare”.

(Sparisce)

Entrano DEMETRIO ed ELENA, correndo

ELENA -

Demetrio caro, fèrmati un momento,

fosse pur solamente per uccidermi.

DEMETRIO -

Va’ via di qui, te l’ordino,

Elena! E smetti perseguitarmi!

ELENA -

Vuoi dunque abbandonarmi qui nel buio?

Ah, non farlo, Demetrio!

DEMETRIO -

Rimani qui, se vuoi,

ma a tuo rischio e pericolo. Io vado.

(Esce)

ELENA -

Ahimè, sono rimasta senza fiato

per questa folle corsa dietro a lui.

E più l’imploro, e meno lui m’ascolta!

Ermia felice, ovunque ella si trovi,

per gli occhi suoi così belli e maliosi!

Come avran fatto ad esser sì lucenti

quegli occhi?… Non col salso delle lacrime,

perché se così fosse gli occhi miei

sarebbero splendenti più dei suoi.

No, io son brutta, brutta come un orso,

perché le stesse fiere che m’incontrano

fuggono spaventate. Che stupirsi

allora se mi fugge anche Demetrio

come se fossi un mostro?

Quale specchio malvagio e deformante

poté farmi paragonare ad Ermia,

i cui occhi son due lucenti stelle?

(Scorge Lisandro addormentato)

Ma chi c’è qui?… Lisandro?…

E qui, per terra?… Morto?… Addormentato?…

Non vedo sangue… non vedo ferita…

(Scotendolo)

Lisandro, caro, se sei vivo, svègliati!

LISANDRO -

(Svegliandosi)

Sul fuoco passerò per amor tuo,

Elena trasparente!

Che artista sopraffino è la natura

a fare ch’io ti scopra il cuore in petto

attraverso il tuo seno!

Dov’è Demetrio? Oh, questo vile nome

ben s’adatta a perir per la mia spada!

ELENA -

Non dir così, Lisandro, non lo dire!

Che t’importa s’egli ama la tua Ermia?

Che t’importa, Lisandro?

Ermia ama te, e dunque stai contento.

LISANDRO -

Contento io, con Ermia? No, mi pento

dei tediosi minuti che ho trascorsi

insieme a lei! Non è Ermia ch’io amo,

ma Elena! E chi non cambierebbe

una cornacchia per una colomba?

La volontà dell’uomo è governata

dalla ragione, e la ragione mia

mi proclama che tu sei la più degna.

Le cose crescono e non son mature

finché non giunga la loro stagione;

e così io, essendo troppo giovane,

non ero ancor maturo di ragione.

Ed avendo raggiunto ora il punto

dell’esperienza umana, la ragione

si fa guida della mia volontà

e m’induce a mirar gli occhi tuoi

dov’io contemplo le storie d’amore

più preziose che mai furono scritte

nel libro dell’amore.

ELENA -

Perché dovevo io essere nata

per sì sottile beffa? Che ho mai fatto

per meritare da te questo scherno?

Non ti basta, Lisandro, non ti basta

ch’io mai abbia potuto, e mai potrò

meritarmi soltanto un dolce sguardo

dall’occhio di Demetrio, che anche tu

ti debba divertire a farti scherno

della mia insufficienza? Mi fai torto,

in fede mia, mi fai davvero torto

a corteggiarmi così per dileggio.

Ma statti bene; devo confessarti

che ti consideravo un gentiluomo

di maggior correttezza e cortesia.

Ah, che una donna, dopo che da un uomo

è stata rifiutata, perciò stesso

debba sentirsi insultare da un altro!

(Esce)

LISANDRO -

Non s’è accorta di Ermia…

Ermia, tu sèguita a dormire qui,

e Lisandro non t’abbia più vicina.

È proprio vero che la sazietà

delle cose più dolci porta l’uomo

a provare più forte ripugnanza

per quelle; e così come le eresie,

se abiurate, son tanto più aborrite

da quelli ch’esse trassero in inganno,

tu che sei insieme la mia sazietà

e la mia ingannevole eresia,

possa da tutti esser tu aborrita,

e da me più di tutti.

E ad Elena rivolgano i miei sensi

tutto l’amore di cui son capaci,

perch’io possa onorarla

e farmi suo devoto cavaliere!

(Esce)

ERMIA -

(Svegliandosi)

Lisandro, aiuto! Aiutami Lisandro!…

Strappami via con tutta la tua forza

questo serpente che m’avvinghia il seno!

Oh, poveretta me, che brutto sogno!

Guarda, son tutto un tremito, Lisandro.

M’è sembrato che un serpe

mi si mangiasse il cuore, e tu, Lisandro,

stessi là, ad assister sorridendo

alla crudel sua preda…

Ma dove sei?… Lisandro!… Già levato?

Lisandro, mio signore, non mi senti?…

Se n’è andato… né suono, né parole…

Ahimè, parla, rispondi, se m’ascolti!

Parla, nel nome di tutti gli amori,

ch’io mi sento svenir dalla paura…

No?… Ah, vuol dire che non sei vicino.

Ma io ti troverò, Lisandro, e subito,

o troverò la morte.

(Esce)

 

ATTO TERZO

 

 

 

SCENA I - Nel bosco


TITANIA giace addormentata

Entrano COTOGNA, CONFORTO, BOTTONE FLAUTO, NASONE e IL LANCA

BOTTONE -

Ci siamo tutti, allora?

COTOGNA -

Tutti, ed il luogo sembra fatto apposta

per la prova; questa spianata erbosa

farà da palcoscenico;

questa siepe di biancospino è adatta

a spogliatoio, e ci potremo muovere

come fossimo già davanti al Duca.

BOTTONE -

Però, Piero Cotogna…

COTOGNA -

Che c’è, caro?

BOTTONE -

… in questa storia di Piramo e Tisbe

c’è roba che non potrà mai piacere:

una, che Piramo, davanti al pubblico,

deve trarre una spada per uccidersi;

questo farà impressione alle signore.

Non lo sopporteranno. Tu che dici?

NASONE -

Caspita,(46) c’è da spaventarsi, eccome!

LANCA -

Io per me penso che all’ammazzamento

alla fin fine si può rinunciare.

BOTTONE -

Per niente affatto! Ho io una trovata

che sistemerà tutto: tu, Cotogna,

farai tanto da buttar giù un bel prologo,

e sarà il prologo a spiegare al pubblico

che queste spade non fanno alcun male,

e Piramo s’ammazzerà per finta;

anzi, a rassicurare meglio il pubblico,

gli si dirà che io, che sono Piramo,

in realtà non sono affatto Piramo,

ma Nicola Bottone, tessitore.

COTOGNA -

Va bene, scriveremo questo prologo;

e sarà in ottonari con senari.(47)

BOTTONE -

No, ai senari aggiungici due piedi:

in ottonari, tutto in ottonari.

NASONE -

E del leone non avran paura

le dame?

LANCA -

Ho proprio paura di sì.

BOTTONE -

Eh, già, compagni, pensateci bene:

portare - Dio ne liberi! - un leone

tra le signore è una cosa terribile.

Non c’è uccello che faccia più paura

alle signore d’un leone vivo.

Eh, sì, bisogna starci molto attenti!

NASONE -

Beh, vuol dire che si dirà, nel prologo,

che il leone non è un leone vero.

BOTTONE -

Anzi, si dovrà dire chi è l’attore,

nome e cognome, e in mezzo alla criniera

fare che gli si scorga mezza faccia,

dicendo al pubblico all’incirca questo:

“Mie dame… ovverosia, vi chiederei…

“ovvero, meglio, vi supplicherei

“di non aver paura e non tremare:

“la mia vita risponde della vostra.

“Se pensate ch’io venga innanzi a voi

“come un leone vero in carne ed ossa,

“povera vita mia.(48) Ma non son quello.

“Io sono un uomo come tutti gli altri…”.

E dica a questo punto il proprio nome,

chiaro, ch’egli è Nasone, stipettaio.

COTOGNA -

Va bene, si farà così. Ma attenti:

ci restan due bisogna un po’ rognose:

come portare dentro, nella stanza,

il chiar di luna, ché Piramo e Tisbe,

come sapete, devono incontrarsi

nottetempo al chiarore della luna.

NASONE -

Ma ci sarà la luna, quella notte?

BOTTONE -

Un calendario, dov’è un calendario?

Avanti, consultiamo un almanacco,

e cerchiamo la luna…

COTOGNA -

(Estrae dalla borsa un almanacco e lo sfoglia)

Eccolo qua.

Sì, ci sarà la luna, quella notte.

BOTTONE -

Bene, allora si lascia spalancata

una finestra del grande salone

dove si recita e attraverso quella

facciamo entrare il chiarore lunare.

COTOGNA -

(Incredulo)

Già… o se no, potrebbe entrare in scena

qualcuno con dei pruni e una lanterna,

e dire ch’è venuto a sfigurare(49)

o a rappresentare il Chiar-di-luna.

Ma c’è dell’altro ancora a cui pensare:

dentro la stanza dev’esserci un muro,

per via del fatto che Piramo e Tisbe

- così vuole la storia - si parlavano

proprio attraverso la crepa d’un muro.

NASONE -

Un muro non ce lo farete entrare mai

nella stanza. Bottone, che ne dici?

BOTTONE -

Beh, vorrà dire che sarà un di noi

a far da muro; lo impiastricceremo

con un po’ di calcina e un po’ di gesso

a figurar l’intonaco d’un muro,

e terrà aperte le dita così,

(Fa il gesto di divaricare il medio

e l’indice di una mano)

ad indicare che per quella crepa

Piramo e Tisbe si bisbiglieranno.(50)

COTOGNA -

Per me, se si può fare, va benone.

Sotto, figli di mamma, intorno a me,

a provare ciascuno la sua parte.

Piramo, via, attacca tu per primo;

poi, terminata che avrai la battuta,

ti ritiri là dietro a quella siepe.

E così gli altri, secondo il copione.

Appare PUCK, restando nel fondo

PUCK -

Che ci faranno qui questi bifolchi

vestiti di cardame casereccio,

che smargiassano sì insolentemente

presso la culla della mia regina?…

Che! Preparano forse una commedia?

Vuol dire che farò da spettatore,

e forse anche da attore, alla bisogna.

(Resta nel fondo, invisibile)

COTOGNA -

Piramo, attacca. Tisbe, vieni avanti.

BOTTONE -

(Recitando)

“Tisbe, soavi olezzano nell’aria

“gli odiosi fiori…

COTOGNA -

(Interrompendolo)

“Odorosi, odorosi!”

BOTTONE -

(Seguitando a recitare)

“… gli odorosi fiori,

“così il tuo fiato, Tisbe mia diletta.

“Ma zitta! Odo una voce. Un poco aspetta,

“vado a vedere un attimo di fuori…”

(Si ritira dietro la siepe)

PUCK -

(A parte)

Un Piramo dei più straordinari

che mai si siano visti sulle scene!

(Si va a mettere anche lui, sempre non visto, dietro la siepe dov’è Bottone)

FLAUTO -

Tocca a me, ora?

COTOGNA -

Infatti, tocca a te.

Tu hai capito che Piramo è uscito

per accertarsi del rumore udito,

e dunque avanti tu con la tua parte.

FLAUTO -

(Recitando)

“Piramo mio, amabile gioiello,

“come candido giglio risplendente,

“come rosa vermiglia trionfante,

“mio dolce innamorato garzoncello,(51)

“fedele qual fu mai stanco morello,

“ecco ch’io vengo ad incontrarti innante

“di Ninì all’avello”.

COTOGNA -

(Correggendolo)

No, “di Nino”!

Eppoi questo non devi dirlo adesso:

è la risposta che darai a Piramo,

tu invece tiri via tutto di seguito,

senza riguardo a quando devi entrare.

Piramo, entra. La tua imbeccata

è passata; era “mai stanco morello”.

FLAUTO -

Eh, già, gliela ripeto:

“Fedele qual fu mai stanco morello”…

Rientra BOTTONE, che ora, al posto della sua, ha una testa d’asino. PUCK ricompare in fondo.

BOTTONE -

(Recitando)

“Se tale io fossi, Tisbe,

“soltanto tuo sarei…”

COTOGNA -

Oh, mostruoso! Che orribile stranezza!

Qui c’è stregoneria! Scappiamo, mastri!

Scappiamo tutti, mastri! Aiuto, aiuto!

(Escono, spaventati, Cotogna, Conforto, Flauto, Nasone e Il Lanca)

PUCK -

Mi metterò dietro alle vostre poste

e v’indurrò per volte e giravolte,

per fossi, rovi, sassi, macchie e fratte.

Ora sarò un segugio, ora un cavallo,

ora un maiale, ora un orso che balla,

ora v’apparirò fatua fiammella,

or m’udrete latrare oppur nitrire

ad ogni svolta, e ruggire e grugnire

come un cane, un cavallo, un porcospino,

un orso, una fiammata, a voi vicino.

(Scompare)

BOTTONE -

Perché sono scappati?… Di sicuro

una lor birberia per spaventarmi.

Rientra NASONE

NASONE -

Bottone, ahimè, come ti sei mutato!

Che hai sul collo?

BOTTONE -

Che vuoi che ci tenga?

Una testa di ciuco, come te.

(Esce Nasone)

Rientra COTOGNA

COTOGNA -

Uh, Bottone, che Dio ti benedica!

Oh, santo Dio, ti sei trasfigurato!

(Scappa)

BOTTONE -

Ho capito, una loro birbonata:

voglion farmi passare per un asino,

per mettermi paura, se potessero.

Facciano pure tutto quel che vogliono,

io di qui non mi muovo. Anzi, che faccio?

Mi metto a passeggiare in su e in giù

qui intorno ed a cantare,

per mostrar loro che non ho paura.

(Canta)

“Il merlo, becco giallo e piuma nera,

“il tordo, la leggiadra capinera,

“il vispo cardellino

“dal gaio pennacchino…

TITANIA -

(Svegliandosi)

“Qual angelo mi desta

“dal mio giaciglio in fiore

“con note sì canore?

BOTTONE -

(Sempre cantando)

“L’allodola, il fringuello,

“l’allegro colombello,

“il monotono cucco

“al cui cantar più d’un marito becco

“rispondere non osa…

e già, perché

chi mai vorrebbe spremersi il cervello

per rispondere ad un siffatto uccello?

Chi vorrebbe un uccello sbugiardare

“cucù”, “cucù”, mettendosi a gridare?(52)

TITANIA -

O gentile mortale, canta ancora,

per le tue note s’è d’amor rapito

l’orecchio mio, così come incantato

s’è il mio occhio a codesto tuo sembiante;

ed il potere delle tue virtù

è tale su di me, dal primo sguardo,

ch’io debbo dir, giurar, che per te ardo.

BOTTONE -

Secondo me, signora,

a confortar tale vostro sentire

molta ragione non dovreste avere

con voi; se pur va detto che oggidì

ragione e amore van di rado insieme;

ed è proprio un peccato

che un qualche onesto loro vicinante

non s’adoperi a renderli alleati…

TITANIA -

Sei assennato per quanto sei bello.

BOTTONE -

Ah, no, davvero né l’uno né l’altro;

perché se avessi abbastanza giudizio

da saper come uscir da questo bosco,

ne avrei già quanto basta per svignarmela.

TITANIA -

Non pensare d’uscir da questo bosco.

Tu, che lo voglia o no, qui con me

devi restare. Io non son uno spirito

da poco: nel mio regno è sempre estate(53)

e io t’amo. Perciò vieni con me;

metterò le mie fate al tuo servizio;

esse andranno a cercar per te gioielli

in fondo al mare, e canteran per te

mentre tu giacerai addormentato

sopra un letto di fiori;

e, sgravato del tuo peso mortale,

ti farò andar vagando tutt’intorno,

come spirito, fatto solo d’aria.

(Chiamando)

Fiordipisello! Ragnatela! Bruscolo!

Grandisénape! Dove siete tutti?

FIORDIPISELLO -

Son qui.

RAGNATELA -

Son qui.

BRUSCOLO -

Son qui.

GRANDISENAPE -

Siam tutti qui.

Entrano FIORDIPISELLO, RAGNATELA, BRUSCOLO e GRANDISENAPE

TUTTI -

(Inchinandosi)

Che c’è da fare? Dove s’ha da andare?

TITANIA -

Mostratevi carine e premurose

con questo cavaliere; sui suoi passi

intrecciate carole e volteggiate;

per lui cogliete more ed albicocche

e mirtilli, uva rossa e verdi fichi;

rubate il miele nei lor favi all’api,

staccate dalle lor cosce la cera

per fabbricarne lumini da notte,

e accendeteli agli occhi delle lucciole

così da illuminare all’amor mio

la via del letto e l’ora del risveglio.

Strappate l’ali multi-colorate

alle farfalle e fatene ventaglio

ai raggi della luna sui suoi occhi

addormentati. Inchinatevi a lui,

elfi, e rendetegli un cortese omaggio.

I QUATTRO ELFI -

(Inchinandosi a Bottone)

Salve, mortale!

Salve!

Salve!

Salve!

BOTTONE -

Di tutto cuore, domando mercé

a tutte quante vostre signorie.

(A Ragnatela)

Tu, di grazia, il tuo nome?

RAGNATELA -

Ragnatela.

BOTTONE -

Vorrò fare più stretta conoscenza

con te, mio caro Mastro Ragnatela;

se mi succede di tagliarmi un dito,

mi farò ardito a ricorrere a te.(54)

(A Fiordipisello)

E il tuo nome, compìto signorino?

FIORDIPISELLO -

Fiordipisello.

BOTTONE -

Salutami, allora,

tanto tua madre, la signora Buccia,

ti prego, ed altrettanto ser Baccello,

tuo padre, buon signor Fiordipisello.

Anche con te mi piacerebbe tanto

di far col tempo miglior conoscenza.

(A Grandisenape)

Il tuo nome, di grazia, signorino?

GRANDISENAPE -

Grandisenape.

BOTTONE -

Mastro Grandisenape!

Conosco bene la tua tolleranza.

Quel gigantesco vigliacco del bue

s’è mangiato parecchi valentuomini

del tuo casato; e posso assicurarti

che al pensiero di tanti tuoi parenti

mi son venute le lacrime agli occhi.

Sono bramoso, Mastro Grandisenape,

di far con te migliore conoscenza.

TITANIA -

Suvvia, scortatelo al mio padiglione.

La luna guarda con occhio di pianto,

a quanto pare; e se la luna piange,

piange con lei ogni piccolo fiore,

come per qualche castità violata.(55)

Cucitegli la lingua, all’amor mio,

e conducetelo via in silenzio.

(Escono)




SCENA II - Altra parte del bosco


Entra OBERON

OBERON -

Sono proprio curioso di saper

se Titania a quest’ora s’è svegliata,

e che cosa si sia trovata innanzi

per cui dovrà delirar di passione,

appena ha aperto gli occhi nel risveglio.

Entra PUCK

Ebbene, birba d’uno spiritello,

quali notturni eventi sono in corso

nel dolce incanto di questo boschetto?

PUCK -

Questo: che la regina mia padrona

s’è invaghita d’un mostro.

Presso la sacra sua segreta alcova,

nell’ora ch’ella si giaceva là

addormentata in un profondo sonno,

una combriccola di rattoppati,

rozzi e triviali artigiani ateniesi,

di quelli che nelle lor bottegucce

guadagnano sì e no di che sfamarsi,

erano radunati a far le prove

d’una commedia da mettere in scena

la sera delle nozze di Teseo.

Il più balordo della compagnia

di tutti quegli stolidi zucconi,

che recitava la parte di Piramo,

a un certo punto è uscito dalla scena

per entrare nel folto d’una siepe;

e qui, io, profittando del momento,

gli calzo in testa una capoccia d’asino.

Subito dopo, il mio bel commediante

perché doveva rispondere a Tisbe,

esce fuori. I compagni, nel vederlo,

scappano come tante oche selvatiche

che scorgano il furtivo uccellatore,

o come se uno stormo di cornacchie

s’alzasse tutte insieme ad uno sparo,

starnazzando e gracchiando a perdifiato,

o svolazzando da spazzare il cielo

per ogni parte, folli di paura.

Così sono scappati, nel vederlo,

tutti, inciampando e cadendosi addosso

di qua, di là, gridando: “All’assassino!”

chiamando per aiuto tutta Atene.

Le loro menti, già piuttosto deboli,

in preda ad un così violento panico

facevan veder loro una minaccia

nelle cose più innocue e inanimate,

sì da farli pensar che rovi e pruni

s’accanissero contro i lor vestiti,

li ghermissero, quali per le maniche,

quali per i capelli, nella corsa

ch’essi facevano nel ritirarsi.

Così li ho tratti via come impazziti

lasciando lì soltanto il dolce Piramo,

così come l’avevo trasformato.

In quel mentre Titania si svegliava,

e di quell’asino s’innamorava.

OBERON -

Meglio di quanto potessi pensare!

Ma poi le palpebre dell’ateniese

l’hai spalmate con quel succo d’amore,

come ti dissi?

PUCK -

Ho fatto pure questo.

L’ho trovato disteso che dormiva

e a fianco a lui la ragazza ateniese;

sicché per forza sarà stata lei

ch’egli ha dovuto vedere svegliandosi.

Entrano DEMETRIO e ERMIA

OBERON -

Eccolo l’ateniese. Nascondiamoci.

PUCK -

La donna è lei, ma l’uomo non è lui.

DEMETRIO -

(A Ermia)

Ah, trattare così colui che t’ama!

Queste amare parole di rimprovero

riservale pel tuo maggior nemico.

ERMIA -

Per adesso mi limito ai rimproveri;

ma ti dovrei trattare ancora peggio,

perché tu, com’io temo, hai fatto cosa

per cui davvero debbo maledirti.

Se hai ucciso Lisandro nel sonno,

visto che sguazzi coi piedi nel sangue,

affonda il tuo pugnale nel mio petto,

e uccidi pure me.

Il sole non fu mai fedele al giorno

com’egli è a me; Lisandro

non si sarebbe mai allontanato

da Ermia addormentata ed indifesa:

mi sarebbe più facile pensare

che la terra si lasci traforare

e che la luna sgusci per quel foro

per andare a spiazzare suo fratello(56)

agli antipodi, in pieno mezzogiorno.

Tu l’hai ucciso; non può esser altro:

un assassino non ha un altro aspetto,

così funereo, così sinistro.

DEMETRIO -

Tale è l’aspetto dell’assassinato,

come son io, trafitto fino al cuore,

dall’implacabile tua crudeltà;

mentre tu, l’assassina, sei splendente

e chiara come la stella di Venere

nel pieno sfolgorar della sua sfera.

ERMIA -

Che c’entra questo con il mio Lisandro?

Dov’è ora, dov’è, mio buon Demetrio?

Ah, dimmi che me lo restituirai!

DEMETRIO -

La sua carcassa in pasto ai miei segugi,

piuttosto!

ERMIA -

Ah, cagnaccio maledetto!

Vattene via da me, cane bastardo!

Ecco vedi, m’hai spinto a trapassare

i limiti della sopportazione!

Allora l’hai ucciso, sì o no?

Che tu non possa più d’ora in avanti

figurare nel novero dei vivi!

Dimmi la verità, per una volta,

dimmela, almeno per pietà di me!

Tu non osavi riguardarlo in viso

quand’era sveglio, e l’hai assassinato

mentre dormiva… Che grande prodezza!

Un serpente, una vipera qualunque

poteva farlo. E l’ha fatto una vipera;

perché mai vipera linguaforcuta

più di te, serpe, punse tanto forte!

DEMETRIO -

Stai sprecando la tua furia amorosa

per un abbaglio: io non son colpevole

del sangue di Lisandro,

che, tra l’altro, per quanto a me risulta,

non è morto.

ERMIA -

Se sai che è vivo, allora,

dimmi che è sano e salvo, ti scongiuro.

DEMETRIO -

Se te lo dico, che mi dài in cambio?

ERMIA -

Il privilegio di non più vedermi.

Perché dall’aborrita tua presenza

io fuggirò: sia egli vivo o morto

non comparirmi più dinanzi agli occhi.

(Esce)

DEMETRIO -

Seguirla adesso non mi pare il caso,

così infuriata. Starò qui perciò

per un poco. Per chi è nell’angoscia

la gravezza si fa sempre più grave

per il debito che deve pagarle

il sonno in bancarotta; ma un acconto

si potrà darle, se rimango qui

ad aspettar che il sonno glielo offra.(57)

(Si stende per terra e s’addormenta)

OBERON -

(Venendo avanti con Puck)

Ma che pasticcio hai fatto?

Hai sbagliato completamente tutto!

Hai cosparso del succo dell’amore

le ciglia d’un fedele innamorato;

sicché adesso ne seguirà per forza

che un vero amore si tramuti in odio,

e non già che si muti in amor vero

un amore sleale.

PUCK -

Allora è il fato a far tutto a rovescio,

che, per un uomo che resta fedele

ce ne siano milioni che tradiscono,

con falsi giuramenti uno sull’altro.

OBERON -

Va’, vola come il vento per il bosco

e rintracciami Elena d’Atene.

È pallida d’amore, e i suoi sospiri

costano cari al giovane suo sangue.

Conducimela qui con qualche inganno.

Io farò d’incantar gli occhi di lui

per quando lei gli apparirà davanti.

PUCK -

Vado, vado, volando: sta’ a guardare!

Più ratto d’una freccia

scoccata dal tremendo arco d’un Tartaro.

(Esce)

OBERON -

(Si avvicina a Demetrio addormentato e gli spreme

il succo del fiore sulle ciglia)

“Fior di porpora vestito,

“dalla freccia di Cupido,

“scendi, affonda le tue stille

“di quest’uomo alle pupille

“sì che amor per quella il tocchi

“sulla quale aprirà gli occhi,

“e la veda ancor più bella

“che di Venere la stella.

“Sì, al destarti l’hai vicina:

“chiedi a lei la medicina”.

Riappare PUCK

PUCK -

Capitano di nostra aerea armata,

Elena è qui da presso, l’ho trovata.

Con lei è il giovane da me stregato,

che, di lei follemente innamorato,

le richiede d’amore un attestato.

Gustiamoci ora i loro battibecchi.

Questi mortali, signore, che sciocchi!

OBERON -

Scostiamoci, però, ché il lor parlare

potrebbe anche Demetrio risvegliare.

PUCK -

In due per una femmina languire:

basta questo per farmi divertire!

Per me le cose ch’hanno più sapore

sono quelle che nascon dall’errore.

(Oberon e Puck si ritirano in disparte)

Entrano ELENA e LISANDRO

LISANDRO -

Perché, se giuro, Elena, di amarti

dovresti credere che è sol per burla?

Mai burla e scherno si sciolsero in lacrime;

e io piango a giurarti l’amor mio.

Giuramenti che nascono dal pianto

contengono nel loro stesso nascere

la prova della lor sincerità.

Come ti può apparir fatto per burla

il mio comportamento, se in se stesso

porta il segno della sincerità?

ELENA -

Tu spingi più e più oltre il tuo raggiro.

Oh, qual diabolico-santo conflitto,

quando una verità ne uccide un’altra!

Questi tuoi giuramenti son per Ermia:

vuoi finirla con lei?

Pesali insieme, voto contro voto,

e troverai che il loro peso è zero.(58)

I voti a lei giurati e a me giurati

posti su due bilance,

daranno un peso pari, l’uno e l’altro

leggeri e vuoti come son le chiacchiere…

LISANDRO -

Quando giurai a lei d’esser fedele

non ero in grado ancor di giudicare.

ELENA -

Né lo sei ora che rinunci a lei,

secondo me.

LISANDRO -

Demetrio l’amerà;

perché lui ama lei, non ama te.

DEMETRIO -

(Svegliandosi e vedendosi Elena davanti)

O Elena, dea, ninfa,

perfezione divina! A che, amor mio,

potrò mai somigliare gli occhi tuoi?

Il cristallo, al confronto è solo fango!

Oh, come mi si mostran tentatrici

le tue labbra, ciliege da baciare!(59)

Il gelido biancor dell’alte nevi

sul Tauro ventilato del libeccio

diventa color nero-corvo

se tu fai tanto da alzar la tua mano!

Oh, lascia ch’io lo ricopra di baci

questo sovrano tuo puro candore,

questo sigillo di felicità!

ELENA -

O rabbia! O inferno! Tutti consociati,

vedo, per divertirvi alle mie spalle!

Se foste appena appena costumati

e dotati d’un po’ di cortesia

non mi potreste offendere così!

Ma non potete seguitare a odiarmi,

come sono sicura che m’odiate,

senza che vi alleiate in questo modo

per schernirmi? Se foste veri uomini,

come sembrate essere all’aspetto,

non vi comportereste in questo modo

con una gentildonna come me:

dire entrambi, e giurare, che m’amate,

far lodi sperticate di mie grazie,

quando son certa che mi detestate?

Siete rivali nell’amare Ermia,

e lo volete essere egualmente

ora nel prendervi gioco di Elena?

Un gran bel gesto, una virile impresa

evocar con la vostra derisione

le lacrime a una povera ragazza!

Nessuno, che appartenga al vostro rango,

offenderebbe così una fanciulla,

e metterebbe a così dura prova,

sol per gioco, la sua sopportazione!

LISANDRO -

Sei crudele, Demetrio. Non lo fare.

Tu ami Ermia, e sai che io lo so.

Ebbene, vedi, io con tutto il cuore,

ti cedo la mia parte del suo amore,

e tu a me lascia l’amore di Elena,

ch’io amo ed amerò fino alla morte.

ELENA -

Mai si sprecò più fiato

da chi volle burlarsi di qualcuno.

DEMETRIO -

Tienti pure, Lisandro, la tua Ermia,

io non la voglio più. Se già l’ho amata,

quell’amore è del tutto dileguato.

Il mio cuore mio con lei ha soggiornato

come un ospite, solo di passaggio,

ed ora torna ad Elena,

come alla propria casa, per restarci.

LISANDRO -

Elena, non gli credere.

DEMETRIO -

Lisandro, non offender quella fede

che non conosci, se non vuoi rischiare

di pagarlo assai caro…

Entra ERMIA, affannata

ERMIA -

Il buio della notte, che impedisce

all’occhio di vedere, dà all’orecchio

la percezione più viva e sottile;

diminuendo il senso della vista,

raddoppia in cambio quello dell’udito.

Non è stato il mio occhio a ritrovarti,

Lisandro, ma l’orecchio, e lo ringrazio,

m’ha portato ad udire la tua voce.

Perché, scortese, sei andato via

così da me, e m’hai lasciato sola?

LISANDRO -

Perché sarebbe dovuto restare

chi dall’amore è sospinto ad andare?

ERMIA -

Quale amore potrebbe mai sospingere

Lisandro a distaccarsi dal mio fianco?

LISANDRO -

L’amore di Lisandro,

quello appunto, che non gli permetteva

d’indugiare con te: Elena bella,

colei che fa la notte più splendente

che non possano far tutte le stelle,

quell’orbite di fuoco, occhi di luce,

che tu vedi lassù. Perché mi cerchi?

Possibile che questo non ti dica

ch’è il disgusto di te, di starti accanto,

a far ch’io t’abbia così abbandonata?

ERMIA -

Tu dici cosa che non puoi pensare.

Non può esser così!

ELENA -

Ecco, anche lei è alleata con loro!(60)

Ora capisco: si sono accordati

tutti e tre per tramare alle mie spalle

questa ipocrita burla. Ermia insolente!

Ingrata amica, con loro anche tu,

a cospirar per ridere di me

con questa sciocca quanto atroce beffa?

Tutti i segreti che ci siamo detti,

i nostri giuramenti di sorelle,

le ore che passate abbiamo insieme,

rimproverando il tempo dispettoso

che trascorrendo troppo frettoloso

voleva separarci… tutto questo,

oh, l’hai davvero tu dimenticato?

E l’amicizia dei giorni di scuola,

e la nostra innocente fanciullezza?

Noi, Ermia, come due divini artefici,

abbiam creato insieme, coi nostri aghi,

un sol fiore, d’un unico modello,

sedute sopra un unico cuscino,

cantando insieme la stessa canzone

all’unisono, sulla stessa chiave,

come se avessimo in un sol essere

confusi e mani e fianchi e voci e menti.

Così siamo cresciute, tu ed io,

simili a due ciliege, nate in coppia,

che sembrano divise sui due gambi,

ma nella divisione sono unite;

due belle coccole su un solo stelo

spuntate, con due corpi all’apparenza,

due delle prime, come nell’araldica

due stemmi appartenenti a due famiglie

ma sovrastati da una sola cresta.

E vuoi spezzare questo antico affetto

tu, ora, per unirti, donna a uomini,

nell’irrider la tua povera amica?

Non è da amica, né da donna, questo.

L’intero nostro sesso, insieme a me,

potrebbe rinfacciarti quest’offesa,

quand’anche sia io sola ora a soffrirne.

ERMIA -

Son davvero stupita

di queste tue parole appassionate…

Non son io, a burlarmi di te,

sei tu, mi pare, a burlarti di me.

ELENA -

Non hai tu forse istigato Lisandro,

ad inseguirmi, come per ischerno,

e a fare dei miei occhi e del mio volto

false ipocrite lodi; non hai tu

indotto l’altro tuo innamorato,

Demetrio, il quale ancora poco fa

mi respingeva a calci,

ad invocarmi coi nomi di dea,

ninfa, divina, rara, celestiale?

Perché dovrebbe parlare così

a chi detesta? E perché mai Lisandro

dovrebbe rinnegare quell’amore

che sì ricco per te gli ferve in cuore,

se non da te istigato, te d’accordo?

Che fa s’io non possiedo le tue grazie,

s’io non son così amata e fortunata,

e tanto più di te infelice e misera

per amare senz’esser riamata?

Mi dovresti compiangere per questo,

piuttosto che coprirmi di disprezzo!

ERMIA -

Non capisco perché parli così.

ELENA -

E dài, seguita ancora!

Atteggia pure il viso alla tristezza,

e fa’ boccacce appena volto il dorso;

fatevi l’occhiolino l’un con l’altro,

proseguite questo gioioso scherzo;

questo gioco, portato bene avanti,

sarà da raccontare bene in giro.

Se aveste un briciolo di compassione,

di cortesia e buona educazione,

non fareste di me tanto ludibrio.

Ma addio. La colpa è anche un poco mia

e saprò porvi subito rimedio,

col togliermi di mezzo, o con la morte.

LISANDRO -

No, Elena gentile, non andartene!

Senti le mie ragioni, amore mio,

mia vita, anima mia, Elena bella!

ELENA -

Oh, ma bene, benissimo!

ERMIA -

(A Lisandro)

Caro, non devi schernirla così.

DEMETRIO -

(A Lisandro)

E se non basta lei a persuaderti,

so io come costringerti a desistere!

LISANDRO -

Tu non saprai costringermi, Demetrio,

più di quanto ella sappia supplicarmi!

Con me le tue minacce han meno forza

delle sue deboli supplicazioni.

Io, t’amo, Elena, sulla mia vita!

E ti giuro su questa stessa vita

ch’io sono pronto a perdere per te,

che proverò mendace per la gola

chiunque venga a dirti ch’io non t’amo.

DEMETRIO -

Io affermo che t’amo

più di quanto non sappia amarti lui.

LISANDRO -

Se lo affermi a parole,

allontaniamoci e provalo col ferro!

DEMETRIO -

Subito, andiamo, vieni.

ERMIA -

(Trattenendolo)

Lisandro, a quale scopo tutto questo?

LISANDRO -

(Allontanandola)

Va’ via, etiope!(61)

ERMIA -

(Sempre trattenendolo)

No, che lui, sta’ attento…(62)

DEMETRIO -

Tu fai finta di rompere il guinzaglio…

e volermi seguire, ma non vieni.

Sei un uomo addomesticato, va’!

LISANDRO -

(Divincolandosi da Ermia)

Tòglimiti di dosso, gatta, zeccola!

Lasciami andare, vilissimo insetto!

ERMIA -

Perché sei diventato sì volgare?

Che mutamento è questo, amor mio?

LISANDRO -

Amore mio?… Via, tartara di bronzo!(63)

Vattene, nauseabonda medicina!

Detestata pozione, via di qui!

ERMIA -

Non stai scherzando?

ELENA -

Sì, che scherza! Scherza!

E tu sèguiti a farlo, insieme a lui!

LISANDRO -

Con te, Demetrio, terrò la parola.

DEMETRIO -

Magari fossi sicuro di averla!

Ma m’accorgo che basta a trattenerti

un esil laccio. Sulla tua parola

non c’è da fare alcun affidamento.

LISANDRO -

E che vorresti, che la malmenassi,

che la battessi a morte, l’uccidessi?

M’è in odio, sì, ma farle male, no.

ERMIA -

E qual male peggiore mi puoi fare

che avermi in odio?… Odiarmi… Ma perché?

Povera me! Che ti succede amore?

Non son io Ermia? E non sei tu Lisandro?

Bella son ora quanto l’ero prima.

Fino a stanotte m’hai voluto bene,

e tuttavia stanotte m’hai lasciata…

Allora tu mi vuoi abbandonare…

Oh, che Dio non lo voglia!… Fai sul serio?

LISANDRO -

Sulla mia vita, sì,

Ermia, e non ti voglio più vedere!

Perciò togliti pure dalla mente

ogni speranza, non chiedermi più,

abbandona ogni dubbio: sta’ pur certa

che non c’è nulla di più vero al mondo,

nulla di più lontano da uno scherzo

se ti dico che t’odio e che amo Elena.

ERMIA -

Misera me!

(A Elena)

Perfida ingannatrice!

Bruco che rode i boccioli di rose!

Ladra d’amore! Come!

Sei venuta di notte a trafugare

il cuore del mio amore dal suo seno?

ELENA -

Oh, quest’è proprio bella!

Hai perduto davvero ogni ritegno,

ogni pudore, ogni ombra di rossore!

Vuoi per forza strappar dalla mia lingua,

finora dimostratasi gentile,

risposte d’ira? Vergogna, vergogna,

simulatrice ignobile, pupattola!

ERMIA -

“Pupattola”… Perché?…

Ah, ecco allora com’è andato il gioco!

Ora ho capito: lei lo ha persuaso

a confrontar le nostre due stature,

s’è fatta bella con la propria altezza

e la propria persona, sì, sì, certo,

la sua statura, l’alta sua persona,

ed è riuscita ad attirarlo a sé…

E sei potuta crescer tanto in alto

nella sua stima, sol perché al confronto

io sono così nana e così bassa?

Quanto son bassa, di’, quanto son bassa,

eh!, dillo, pertica riverniciata!

Certamente non tanto che quest’unghie

non possano arrivare così in alto

da raggiungere e sgraffignarti gli occhi!

ELENA -

(A Demetrio e Lisandro)

Signori, ve ne prego,

burlatevi di me quanto vi pare,

ma trattenetela dal farmi male.

Io non son buona a dir male parole,

non son capace di far sgarberie,

e per spirito imbelle, sono donna.

Impeditele che mi venga addosso:

non pensate ch’io possa starle a fronte

perché è più bassa.

ERMIA -

“Più bassa”: sentite?

E lo ripete, ancora!

ELENA -

Mia buona Ermia,

non essere così aspra con me.

Io t’ho sempre voluto bene, Ermia,

ho sempre custodito i tuoi segreti,

non t’ho mai fatto torto,

salvo che, per amore di Demetrio,

gli ho detto della tua segreta fuga

in questo bosco. Lui t’ha qui seguita,

ed io, per amor suo, ho seguito lui.

Ma egli m’ha scacciata via da sé,

minacciando di battermi, frustarmi,

di uccidermi perfino, sì, di uccidermi!

E adesso, se mi lascerete in pace,

me ne torno ad Atene,

portandomi con me la mia follia

e non vi seguo più. Fatemi andare.

Vedete come son franca e sincera,

e come sono, ahimè, innamorata.

ERMIA -

Vattene pure, chi te lo impedisce?

ELENA -

Uno stupido cuore innamorato,

ch’io lascio dietro, qui.

ERMIA -

Che! Con Lisandro?

ELENA -

Con Demetrio.

LISANDRO -

Ma non aver paura,

Elena, lei non ti farà alcun male.

DEMETRIO -

No, signor mio, non le farà alcun male,

malgrado ci sia tu dalla sua parte.

ELENA -

Oh, la conosco, lei quand’è infuriata,

è pungente e cattiva. Era un’arpia,

da piccola, quando andavamo a scuola.

Pur piccolina com’è, è feroce.

ERMIA -

“Piccolina”, di nuovo?…

Non sai dir altro che “piccola” e “bassa”?

(A Demetrio e Lisandro)

E voi, come potete tollerare

che m’insulti così?… Ci penso io!

(Si slancia contro Elena)

LISANDRO -

(Trattenendola)

Va’, va’, nanetta, cosuccia da niente,

fatta d’infuso d’erba sanguinella,(64)

grano di cece, coccola di ghianda!

DEMETRIO -

Ti scaldi troppo in favore di Elena,

che sdegna invece queste tue premure.

Lasciala stare.