Sogno di una notte di mezza estate Read Online
DEMETRIO - | Ah, sei là? |
PUCK - | (c.s.) Vieni dietro alla mia voce. Non è qui che potremo misurarci.(67) |
(Escono Demetrio e Puck) | |
Rientra LISANDRO | |
LISANDRO - | Mi scappa avanti, e séguita a sfidarmi; e, come arrivo là dove ha chiamato, non ci si fa trovare più, furfante! Ha i calcagni più celeri dei miei; per quanto io sia veloce nel rincorrerlo, lui fa sempre più presto a scomparire, e adesso mi ritrovo qui nel buio, in questo impervio e tortuoso sentiero… Mi riposerò qui. |
(Si sdraia per terra) | |
Giorno gentile, fa’ presto a venire, ché appena il tuo barlume apparirà, io scoverò Demetrio, avrò vendetta di questo suo irritante dispetto. | |
(S’addormenta) | |
Rientra DEMETRIO, riappare PUCK | |
PUCK - | (Dal fondo, imitando la voce di Lisandro) Beh, vigliacco, perché non vieni avanti? |
DEMETRIO - | Fèrmati, finalmente, se hai coraggio! Ché ben m’accorgo che mi corri innanzi sgattaiolando d’uno ad altro luogo, senza avere il coraggio di fermarti e di guardarmi in faccia. Dove sei? |
PUCK - | (c.s.) Eccomi, vieni qua, da questa parte. |
DEMETRIO - | No, ti burli di me… Ma se riesco a veder la tua faccia alla luce del giorno, me la paghi! Adesso vattene per la tua strada, la stanchezza mi forza a misurare con tutta la lunghezza del mio corpo questo freddo giaciglio. Ma aspèttati domani, appena giorno, ch’io ti rintraccerò, sta’ pur sicuro! |
(Si stende a terra e s’addormenta) | |
Rientra ELENA | |
ELENA - | Oh, notte stracca, accorcia le tue ore, notte tediosa, lunga, interminabile! Conforto della luce, torna a splendere all’orizzonte dell’azzurro Oriente, ch’io possa volger verso Atene i passi, via da chi odia la mia compagnia! Ma ora venga il sonno, che all’angoscia chiude talvolta gli occhi, a rubar me anche alla compagnia di me medesima. |
(Si stende a terra e s’addormenta) | |
PUCK - | “Solo tre? La quarta appaia, “che sian quattro a far due paia. “Ecco, infatti, ch’essa arriva: “non mi par molto giuliva. “La freccia di Cupido è dispettosa, “rende pazza la donna più ritrosa”. |
Rientra ERMIA | |
ERMIA - | Mai tanto stanca, mai tanto angosciata, fradicia fino al capo di rugiada, da rovi e spine tutta lacerata. Non reggo più, mi sento uno sconquasso, più non reggono le mie gambe il passo con la mia volontà. Rimango qui, a riposare fino al far del dì. |
(Si distende a terra) | |
Dio protegga Lisandro da ogni danno, se domani quei due si batteranno. | |
(S’addormenta) | |
PUCK - | (S’avvicina a Lisandro e gli spreme sulle palpebre il succo d’amore) “Mentre al tuo sonno è culla “or questa terra brulla, “io te ne palmo gli occhi, “perché amor ne trabocchi. “E quando li aprirai “gran gioia proverai “a mirare il sembiante “della tua vecchia amante. “E s’avveri così l’antico detto “noto alla nostra gente di campagna: “A ognun la sua compagna, “Gisetta al suo Gisetto. “Al maschio la sua femmina si dia, “e vivan tutti in pace e in allegria”. |
(Sparisce) |
ATTO QUARTO
SCENA I - Nel bosco | |
LISANDRO, DEMETRIO, ELENA ed ERMIA giacciono addormentati | |
Entrano TITANIA e BOTTONE-testa-d’asino seguiti da FIORDIPISELLO, RAGNATELA, BRUSCOLO, GRANDISENAPE e altri elfi e fate; dietro di loro, non visto, OBERON | |
TITANIA - | (A Bottone) “Vieni su questo letto “a riposar tra i fiori, “ch’io possa senza posa “carezzar questa tua guancia pelosa, “il tuo capo di petali di rosa “adornare, e sommergere di baci “codesti orecchi tuoi così procaci”. |
BOTTONE - | Dov’è Fiordipisello? |
FIORDIPISELLO - | Sono qua. |
BOTTONE - | Fiordipisello, grattami la testa. E monsù Ragnatela? |
RAGNATELA - | Son qua anch’io. |
BOTTONE - | Ah, monsù Ragnatela, buon monsù, ti prego, prendi in mano la tua arma corri da quel pecchione cosce-rosse che sta ronzando su quel carro, ammazzalo, e portami la borsa del suo miele. Ma, monsù, non ti scalmanare troppo, e bada specialmente, buon monsù, che la borsa del miele non si rompa: mi farebbe un po’ senso in verità vederti naufragare in mezzo al miele. E monsù Grandisenape dov’è? |
GRANDISENAPE - | Son qua. |
(S’inchina più volte) | |
BOTTONE - | Dammi la mano, buon monsù, e lascia stare tutti questi inchini. |
GRANDISENAPE - | In che posso servirti? |
BOTTONE - | Niente, niente, solo dare una mano, buon monsù, al nostro cavaliere Ragnatela nell’aiutarlo a grattarmi la faccia. Mi toccherà passare dal barbiere perché mi sembra d’esser tutto pieno d’una peluria fuor dall’ordinario; io sono un ciuco tanto delicato, e basta che mi pruda un solo pelo che non posso tenermi dal grattarmi. |
TITANIA - | Gradisci un po’ di musica, amor mio? |
BOTTONE - | Ho un orecchio discreto, per la musica. Sentiamo un po’ di tamburelli e nacchere. |
TITANIA - | O vuoi dirmi, amor mio, che cosa avresti voglia di mangiare? |
BOTTONE - | A dir la verità, ho una gran voglia d’una bella manciata di foraggio, ed anche un po’ di buona avena fresca; ma, pensandoci bene, mi pare di desiderar di più un nannello di fieno: il fieno buono, non c’è niente che eguagli il dolce fieno. |
TITANIA - | Ho un ardito folletto tra il mio seguito che andrà a cercarti le nocciòle fresche saccheggiandone il nido allo scoiattolo. |
BOTTONE - | Un paio di manciate di lupini, ben stagionati, andrebbero anche meglio. Ma ti prego, di tutta la tua gente fa’ che nessuno venga a disturbarmi: sento una certa esposizione(68) al sonno. |
TITANIA - | Dormi pure tranquillo, amore mio, ch’io ti terrò tra le mie braccia avvolto. Voi, Fate, allontanatevi e rimanete quanto più distante. |
(Le Fate escono) | |
(Bottone si stende a terra, tra le braccia di Titania) | |
Così s’avvince tenero il convolvolo al caprifoglio in un gentile amplesso, così inanella l’edera dell’olmo le sugherose dita… Oh, quanto t’amo! O, quanto son di te innamorata! | |
(Si addormentano) | |
Entra PUCK | |
OBERON - | (Venendo avanti) Salute, Robin. Vedi che spettacolo? Delizioso! Comincio quasi quasi ad avere pietà del suo delirio. L’ho incontrata nel bosco, poco fa, che andava in cerca d’amorosi pegni(69) da offrire a questo orribile zuccone. L’ho sgridata, e ci siamo bisticciati; aveva incoronato proprio allora quelle pelose sue tempie asinine d’un serto d’olezzanti fiori freschi; e stille di rugiada mattutina quali si vedon tremule sui bocci come lucenti perline d’oriente, se ne stavano a luccicar negli occhi di tutti quei graziosi fiorellini simili a tante lacrime di pianto per la vergogna di trovarsi là. Dopo averla coperta di ridicolo come meglio m’è parso, mentre lei mi supplicava, con teneri accenti, ch’io le mostrassi un po’ di comprensione,(70) l’ho richiesta di darmi quel fanciullo; ed ella me l’ha subito concesso, ed ha spedito uno dei suoi elfi a prenderlo e scortarlo alla mia pergola, la mia dimora nel regno incantato. Ed ora che ho il ragazzo, posso rimuovere dagli occhi suoi questa esecrabile imperfezione. E tu, da bravo, Puck, dal capo di quel becero ateniese togli via quello scalpo da somaro, così che, al suo risveglio, se ne possa tornare insieme agli altri ad Atene, e pensare a questa notte e ai casi che vi sono succeduti solo come ad un incubo notturno. Ma prima voglio smagar la regina. |
(Si avvicina a Titania che dorme, le sfiora gli occhi con l’erba del disincanto) | |
“Torna ad essere com’eri “e a veder come ieri. “Sul fiore di Cupido il fior di Diana “prevalga con la sua grazia sovrana”. | |
Ed ora dèstati, Titania mia, mia soave regina. | |
TITANIA - | (Svegliandosi) Oh, Oberon!… Oberon mio, che strano sogno ho fatto! Mi pareva - che strano, sta’ a sentire - d’essermi innamorata d’un somaro. |
OBERON - | Eccolo là, il tuo amore, addormentato. |
(Indica Bottone che dorme) | |
TITANIA - | Come posson succeder certe cose? Ah, che schifo non ha ora quel muso per gli occhi miei! |
OBERON - | Silenzio, un solo istante. Robin, tu spoglialo di quella testa; e tu, Titania, chiama la tua musica; e, più forte del lor profondo sonno, colpisci i sensi di codesti cinque. |
TITANIA - | Olà, musica, musica! E tale da incantare il loro sonno! |
(Musica sommessa) | |
PUCK - | (A Bottone che dorme) E adesso, quando ti sarai svegliato, torna a guardare il mondo intorno a te coi tuoi occhi da scemo. |
OBERON - | Suona, musica! |
(La musica diventa più forte) | |
Su, mia regina, prendimi per mano e facciamo ondeggiar sotto costoro a scuoterli, la terra su cui dormono. | |
(I due intrecciano un passo di danza) | |
Ora che siamo ritornati amici, a mezzanotte di domani, insieme, solennemente danzerem felici nella dimora del Duca Teseo e trionfanti lo benediremo col nostro augurio di prosperità. E la duplice coppia degli amanti le sue nozze con lui celebrerà, tutti insieme felici ed esultanti. | |
PUCK - | “Tendi l’orecchio, re degli elfi, attento: “io già l’allodola dell’alba sento. |
OBERON - | “Allora, mia regina, a noi partire “conviene, silenziosi, ad inseguire “sul suo cammino l’ombra della notte, “dirigendo con lei la nostra rotta “tutt’intorno del mondo alla calotta, “e senza cura aver di tregua alcuna “volar più lesti dell’errante luna”. |
TITANIA - | Sì, mio signore, e allor tu mi dirai durante questa nostra cavalcata, com’io quaggiù stanotte mi trovai tra codesti mortali addormentata. |
(Scompaiono) | |
(Suono di corni all’interno) | |
Entrano TESEO, IPPOLITA, EGEO e seguito | |
TESEO - | (A quelli del seguito) Uno di voi mi cerchi il guardacaccia. Ora che il nostro rito s’è compiuto,(71) e poiché siamo al sorgere del giorno voglio che l’amor mio possa ascoltare |
l’armonico abbaiare dei miei cani. Sguinzagliateli a valle, da ponente, e lasciateli liberi di andare; e mandatemi, ho detto, il guardacaccia. | |
(Esce uno del seguito) | |
Noi, nel frattempo, mia bella regina, ci porteremo in cima a quell’altura a udir la musicale confusione delle lor voci e l’eco nella valle. | |
IPPOLITA - | Una volta mi son trovata a Creta in compagnia di Ercole e di Caco alla caccia dell’orso con una muta di cani di Sparta: mai non ho udito più fiero latrare; ché oltre ai boschi, i colli e le fontane, le valli e tutte l’altre prode intorno d’un sol grido parevan risuonare. Mai non ho udito più discorde accordo, mai di tuono più bel rimbombo sordo. |
TESEO - | E di razza spartana son anche questi miei; di quella razza han le froge cadenti e il pelo biondo, e lunghe orecchie pendule che spazzan la rugiada mattutina, e zampe arcuate, e grandi pappagorge come quelle dei tori di Tessaglia; sono un po’ lenti nell’inseguimento ma uniti ed intonati nel latrare, come campane tra loro accordate. Grido più armonizzato mai s’è udito rispondere puntuale a suon di corno da caccia a Creta, a Sparta od in Tessaglia. Giudicherai tu stessa nel sentirli… Ma, un momento: che ninfe sono queste? |
EGEO - | Questa è Ermia, mia figlia, mio signore, addormentata… e quest’altro è Lisandro, e quest’altro è Demetrio, e questa è Elena, la figliola del vecchio Ferdinando. Ma come mai son qui, tutti riuniti? |
TESEO - | Si saranno levati molto presto per celebrare la festa di maggio, e, conoscendo le nostre intenzioni, ci avran voluto precedere qui per le nostre solenni cerimonie… Ma dimmi, Egeo, non era questo il giorno che Ermia ci doveva far conoscere la sua scelta? |
EGEO - | Sì, oggi, mio signore. |
TESEO - | (A quelli del seguito) Andate ed ordinate ai cacciatori di svegliare costoro a suon di corni. |
(Esce uno del seguito) | |
(Corni da caccia a canizza di dentro) | |
LISANDRO, DEMETRIO, ELENA ed ERMIA si svegliano di soprassalto e si stropicciano gli occhi | |
Cari amici, buongiorno!… San Valentino quest’anno è passato, e com’è che comincian solo adesso questi uccelli di bosco ad accoppiarsi?(72) | |
LISANDRO - | Perdono, mio signore! |
(I quattro s’inginocchiano a Teseo) | |
TESEO - | Su, su, alzatevi! So che eravate rivali in amore; come può esser scesa sulla terra tal concordia d’affetti, perché l’odio sia sì lontano dalla gelosia da far che l’odio dorma accanto all’odio, senza tema d’alcuna inimicizia? |
LISANDRO - | Signore, ti rispondo un po’ confuso, essendo ancora mezzo addormentato; ma ti posso giurare, in fede mia, di non saper come mi trovo qui. Credo, a voler parlar sinceramente, e dev’esser così a ripensarci, d’essere qui venuto insieme ad Ermia con l’intenzione di fuggir da Atene in luogo dove poterci sposare senza incappar nelle leggi d’Atene… |
EGEO - | Basta così! (A Teseo) Signore, avete inteso: questo mi pare più che sufficiente perch’io possa invocare sul suo capo da te l’antico statuto di Atene. Hai sentito, Demetrio? L’hanno detto: volevano fuggire e defraudare te della tua sposa, e me del mio consenso alle tue nozze. |
DEMETRIO - | Fu Elena a informarmi, mio signore, della loro intenzione di fuggire e d’incontrarsi qui, in questo bosco; ed io qui sono accorso in tutta furia per inseguirli, ed Elena, anche lei, innamorata di me, mi seguì. Senonché è successo, mio signore, non so per quale strano incantamento, - ché di certo qui uno ce n’è stato -, che d’improvviso l’amor mio per Ermia s’è liquefatto come neve al sole, restandomene in mente un tal ricordo come d’un innocente passatempo con cui mi baloccassi da bambino; ed ora invece tutta la mia fede, la virtù del mio cuore, l’oggetto e la delizia dei miei occhi è Elena. A lei m’ero promesso avanti di posar l’occhio su Ermia; ma poi mi sopravvenne per tal cibo la stessa repugnanza d’un malato. Ed ora, come s’io fossi guarito, e tornato al mio gusto naturale, lei sola voglio, desidero, adoro, e voglio sempre a lei restar fedele. |
TESEO - | Leggiadri amanti, fu buona ventura per me incontrarvi, e più vorrò saperne, riparlandone insieme a miglior agio. Egeo, mi dovrò mettere in contrasto con la tua volontà; perché nel tempio queste coppie dovranno, al nostro fianco, stringere anch’esse un eterno legame. E poi che ormai la nostra mattinata è in gran parte trascorsa, rinunciamo alla caccia, e senza indugio via tutti insieme con noi per Atene: tre coppie e un unico rito nuziale, faremo festa insieme. Vieni, Ippolita. |
(Escono Teseo, Ippolita, Egeo e seguito) | |
DEMETRIO - | Tutto m’appare pallido, indistinto, appena percettibile alla mente, come all’occhio montagne da lontano, che non distingui se sian monti o nuvole. |
ERMIA - | A me sembra vedere tutto questo come se avessi lo strabismo agli occhi: ogni occhio per suo conto, e tutto doppio. |
ELENA - | Ed io lo stesso. Ho trovato Demetrio come si trova per strada un gioiello, che ti domandi se sia tuo o no. |
DEMETRIO - | Ma siete proprio certi d’esser svegli? O forse siamo ancora addormentati, e quello che vediamo è tutto un sogno? Non v’è parso che qui ci fosse il Duca poc’anzi e ci ordinasse di seguirlo? |
ERMIA - | Sì, era con mio padre. |
ELENA - | E con Ippolita. |
LISANDRO - | E ci ha ordinato di seguirlo al tempio. |
DEMETRIO - | Allora non c’è dubbio, siamo svegli! E seguiamolo, allora, e per la strada raccontiamoci tutti i nostri sogni. |
(Escono) | |
BOTTONE - | (Svegliandosi) Quando viene la mia entrata in scena, chiamatemi, e vi risponderò… alle parole: “O bellissimo Piramo…”. Ma oh!… Piero Cotogna!… Oh, Flauto aggiustamantici! Nasone calderaio… dove siete? E tu, Lanca, ci sei?… Tutti scappati! Lasciandomi qui solo, addormentato. Ma che strana visione ho avuta in sogno. Ho fatto un tale sogno che non c’è barba di cervello umano che possa raccontar che sogno era. Un uomo, a raccontare un sogno simile, non può essere altro che un somaro. Era come s’io fossi diventato… non c’è uomo che possa dir che cosa… Mi pareva che fossi… mi pareva che avessi… come faccio a dir che cosa?… C’è da passar da grande balordaccio a raccontar che cosa mi pareva. Mai occhio umano ha udito, né orecchio umano ha visto, né mano mai tastato, né lingua concepito, né cuore raccontato che diavolo di sogno è stato il mio. Dirò a Piero Cotogna ch’ha da scriverci sopra una ballata e intitolarla: “Il sogno di Bottone”; perché davvero è un sogno senza fondo.(73) La canterò io stesso avanti al Duca, dopo la nostra rappresentazione; anzi, per darci ancor maggior risalto, la canterò dopo che Tisbe è morta. |
(Esce) | |
SCENA II - Atene, in casa di Piero Cotogna | |
Entrano COTOGNA, FLAUTO, CONFORTO e IL LANCA | |
COTOGNA - | Qualcuno è stato a casa di Bottone a veder se è tornato? |
LANCA - | Non si sa. Nessuno ne ha saputo più notizia. Quello l’hanno stregato, garantito. |
FLAUTO - | Se non ritorna, va in fumo la recita. Non se ne fa più nulla. Dico bene? |
COTOGNA - | Eh, sì, non ce n’è altri in tutta Atene che sappia fare un Piramo così. |
FLAUTO - | Ah, non v’è dubbio: è lui il più dotato di tutta l’artigianeria d’Atene. |
COTOGNA - | E anche il più presente come fisico; e quanto a voce, è un vero zuccherino per quanto è dolce. |
FLAUTO - | Allora devi dire un gioiellino. perché uno zuccherino, che Dio ci benedica, è come niente.(74) |
NASONE - | Compagni, il Duca esce ora dal tempio, e si sono sposate anche, con lui, altre due o tre coppie di gentiluomini e di gentildonne. Se potevamo recitare adesso, avremmo fatto la nostra fortuna. |
FLAUTO - | Quel caro bambolone di Bottone! Così s’è perso una pensione a vita di dieci soldi al giorno; perché il Duca, che m’impiccassero, ma dieci soldi glieli avrebbe assegnati certamente dopo averlo sentito fare Piramo. E sarebbero stati meritati: per un Piramo come quello suo, o dieci soldi al giorno, oppure niente. |
Entra BOTTONE | |
BOTTONE - | Dove son queste perle di ragazzi? Che fine han fatto questi cuori d’oro? |
COTOGNA - | Bottone! Oh, quale fortunoso giorno! Oh, quale ora felice! |
BOTTONE - | Amici cari, vi debbo raccontare meraviglie! Però non domandatemi che cosa, perché se ve lo dico, francamente, non sono un ateniese di rispetto. Ma sì, vi voglio raccontare tutto, esattamente come m’è successo. |
COTOGNA - | Parla, caro Bottone, ti ascoltiamo. |
BOTTONE - | Sì, ma non ora parliamo di me. Tutto quello che ora voglio dirvi è che il Duca ha finito di cenare. Radunate perciò le vostre robe: lacci che tengano bene le barbe, stringhe e fiocchetti nuovi agli scarpini, e troviamoci subito a palazzo. Si ripassi ciascuno la sua parte, ché, a dirla tutta breve quanto è lunga, il nostro dramma è stato preferito per essere rappresentato subito. In ogni caso, procurate a Tisbe una camicia pulita; e il leone, dico colui che n’ha da far la parte, si guardi bene dal tagliarsi l’unghie, perché dovrà mostrarle bene in vista da figurar gli artigli della belva. E soprattutto, attori, anime mie, badate a non mangiar aglio o cipolla, ché dobbiamo esalare tutti un alito che deve riuscir dolce e gradevole; e non dubito che li udremo dire dolce e gradevole la nostra recita. Ma basta con le ciance. Avanti, all’opera! |
(Escono) |
ATTO QUINTO
SCENA I - Atene, il palazzo di Teseo | |
Entrano TESEO, IPPOLITA, FILOSTRATO e seguito | |
IPPOLITA - | Teseo, mio caro, trovo molto strano quello che ci raccontan questi amanti. |
TESEO - | Più strano che reale, anche per me. Io non saprò mai credere a queste vecchie favole grottesche, né a certe amenità di fantasia. Gli innamorati sono come i pazzi: hanno sempre il cervello in gran bollore, ed una fantasia così feconda da riuscire a concepir più cose di quante la ragione loro, a freddo, si mostra poi disposta ad accettare. Pazzo, amante, poeta: tutti e tre sono composti sol di fantasia. Il primo vede sempre più demoni di quanti ne contenga il vasto inferno; l’innamorato, tutta frenesia, sa ravvisar perfino in una etiope(75) la venustà d’un’ Elena di Troia; il poeta, volgendo gli occhi intorno, come rapito in un dolce delirio, può contemplare la terra del cielo e il cielo della terra, e la sua penna, così come l’estrosa sua inventiva sa dare corpo a ciò che non conosce, lo ferma, conferendo a un vuoto nulla una concreta dimora ed un nome. L’estroso immaginare ha tali trucchi che se soltanto vagheggia una gioia, se ne crea pure l’oggetto e l’origine. E così se talvolta nella notte sente d’aver paura, facilmente può scambiare un cespuglio per un orso. |
IPPOLITA - | Ma quello che è successo, a udir costoro, la scorsa notte, e come le lor menti siano state stravolte tutte insieme, testimonia che in tutta la vicenda ci dev’essere qualche cosa in più che pure immagini di fantasia, qualche cosa avviata a prender corpo e, per quanto assai strano e prodigioso, consistenza d’autentica realtà. |
TESEO - | Eccoli, i nostri quattro innamorati, traboccanti di gioia e d’allegria. |
Entrano LISANDRO, DEMETRIO, ERMIA ed ELENA | |
Felicità, gentili amici, a tutti! Gioia e giorni d’amore sempre freschi accompagnino sempre i vostri cuori. | |
LISANDRO - | Più che sui nostri, possan tali giorni vegliare sopra i vostri augusti passi, sopra la vostra mensa e il vostro talamo. |
TESEO - | Suvvia, dunque, con quali mascherate e quali danze vogliam consumare il lungo intercalare di tre ore tra il levar delle mense questa sera e il momento di guadagnare il letto? Dov’è il nostro maestro delle feste? Quali trattenimenti ha predisposto? Non ci sarebbe una qualche commedia ad allietarci il tedio dell’attesa? Chiamatemi Filostrato. |
FILOSTRATO - | Son qui presente, possente Teseo. |
TESEO - | Dimmi che passatempi tieni in serbo per questa sera? Spettacoli? Musiche? Come ingannare questo pigro tempo, se non con qualche lieto diversivo? |
FILOSTRATO - | Ecco un breve sommario dei vari passatempi preparati. |
(Gli porge un foglio) | |
TESEO - | (Legge) “La cruenta battaglia coi Centauri “cantata sulla cetra “da un eunuco d’Atene”. Questa no. L’ho raccontata io stesso all’amor mio nel raccontarle le gloriose gesta d’Ercole, mio parente.(76) |
(Legge) “L’orgia delle Baccanti “che nella loro furibonda ebbrezza “straccian le carni del cantore tracio”. | |
Roba vecchia, L’ho vista recitare quando tornai vittorioso da Tebe. | |
(Legge) “Le nove Muse in lutto per la morte “della Cultura per denutrizione”. | |
Questa dev’essere una qualche satira, di contenuto critico e pungente, che non s’addice a una festa nuziale. | |
(Legge) “La lunga e breve istoria “dell’amore del giovinetto Piramo “per Tisbe: tragicissima allegria”. | |
Lunga e breve! Tragedia ed allegria! Come dir ghiaccio caldo e neve ardente. Come accordare un tale disaccordo? | |
FILOSTRATO - | Si tratta, mio signore, d’un lavoro d’una diecina di parole in tutto, ch’è il lavoro più corto ch’io conosca; ma di dieci parole, mio signore, è troppo lungo, il che lo fa noioso; anche perché, non c’è per tutto il dramma una sola parola al posto giusto né un attore tagliato alla sua parte. E tragico, mio nobile signore, lo è, per via che Piramo, alla fine, si uccide da se stesso; la qual cosa, quando ho visto la prova generale, lo confesso, m’ha fatto lagrimare; ma eran lacrime che di più allegre mai ne avevo versate dal gran ridere. |
TESEO - | E chi sono, Filostrato, gli attori? |
FILOSTRATO - | Mani callose, artigiani di Atene, che mai hanno applicato prima d’ora ad un qualche esercizio i lor cervelli, e che oggi hanno messo a dura prova le lor memorie mai esercitate per imparare a mente questo dramma per le tue nozze. |
TESEO - | E noi lo ascolteremo. |
FILOSTRATO - | No, mio nobil signore, non sia mai. Non è roba per te; io l’ho sentita da capo a fondo, e posso assicurarti che non val niente, proprio niente al mondo; salvo che tu non trovi divertenti le lor buone intenzioni e i loro sforzi e la crudel fatica a prepararsi pel piacere di renderti servizio. |
TESEO - | Voglio invece ascoltarlo, questo dramma. Non è mai roba da buttare via quello che devozione e ingenuità s’uniscono ad offrirti come omaggio. Va’, va’, falli venire; e voi, dame, prendete pure posto. |
(Esce Filostrato) | |
IPPOLITA - | Non mi piace veder dei poveretti sopraffatti dalle difficoltà; e il loro zelo venire annientato nell’atto stesso in cui viene applicato.(77) |
TESEO - | No, no, dolcezza, non vedremo questo. |
IPPOLITA - | Dice che in fatto di recitazione essi non sanno far niente di buono. |
TESEO - | E tanto più gentili noi saremo nel ringraziarli per codesto niente. Nostro spasso sarà cercar d’intendere quello ch’essi fraintendono; quando uno sforzo a nobil fine inteso resta inferiore al suo proponimento, è benevola nobiltà di spirito guardare all’intenzione e non al merito. Mi son trovato dove alti notabili s’erano proposti di farmi accoglienza con studiati indirizzi di saluto, e li ho visti tremare, impallidire, iniziare una frase ed interrompersi, sentire il panico strozzargli in gola il tanto esercitato loro eloquio, e interrompersi, infine, all’improvviso, senza potermi dare alcun saluto. Eppure in quel silenzio, credimi, cara, io colsi il benvenuto, e in quel modesto, timoroso zelo seppi leggere quanto avrei sentito dalla lingua di certi personaggi dal parlare condito e disinvolto. Insomma, l’affettuosa ingenuità d’un dire un po’ impacciato, a mio giudizio, dice molto di più senza parlare. |
Rientra FILOSTRATO | |
FILOSTRATO - | Quando a te piaccia, grazioso signore, il Prologo potrebbe incominciare. |
TESEO - | Benissimo, si faccia avanti il Prologo. |
Tromba. Entra COTOGNA nella veste di Prologo | |
PROLOGO(78) - | Se diremo qualcosa di offensivo, lo facciamo con tutta l’intenzione. Di far che voi possiate persuadervi che non siamo venuti per offendere, ma con tutta la buona volontà di mostrarvi la nostra semplice arte e il vero inizio della nostra fine considerato che veniamo a voi solo a vostro dispetto, non già con l’intenzione di piacervi noi siamo qui. Per il vostro diletto |
noi siam venuti per farci sentire. Gli attori è gente pronta e alla mano, e dalla loro recita saprete tutto quello che forse già sapete. | |
TESEO - | Sembra che questo povero buon diavolo non ami molto la punteggiatura. |
LISANDRO - | Difatti, ha cavalcato quel suo prologo come a cavallo d’un puledro brado: senza sapere più dove fermarsi. C’è un vecchio detto, signore, che suona: “Parlar non basta, occorre parlar bene”. |
IPPOLITA - | È vero, ha recitato questo prologo come un bambino suonerebbe il flauto: ne ha tratto il suono, senza modularlo. |
TESEO - | Pareva una catena aggrovigliata: niente di rotto, ma tutto in disordine. |
Entrano, preceduti da un trombettiere come nelle pantomime, PIRAMO, TISBE, il MURO, il CHIAR-DI-LUNA e il LEONE | |
PROLOGO - | Gentili spettatori, questa vista potrà forse lasciarvi un po’ stupiti. E stupitevi pur quanto volete, finché la luce della verità non vi faccia vedere tutto chiaro. Se volete saperlo, questo è Piramo, questa bellissima signora è Tisbe, quest’uomo impiastricciato di calcina è il Muro, il tristo Muro, che s’erge a separare i due amanti; ed è attraverso una crepa del Muro che i due, povere anime, s’accontentano di bisbigliar tra loro. Del che nessun si faccia meraviglia. Quest’altro, con in mano la lanterna, e con il cane e il fascetto di rovi rappresenta il notturno Chiar-di-luna.(79) Per cui, se proprio volete saperlo, questi amanti non ebbero vergogna di ritrovarsi, per fare l’amore, alla tomba di Nino, al chiar di luna. Questa mostruosa bestia, che si chiama “leone”, fa fuggire terrorizzata la fedele Tisbe, giunta per prima al luogo del convegno, nella notte; fuggendo, il suo mantello ella lascia cadere, e il vil Leone lo macchia con la bocca insanguinata. Subito dopo sopraggiunge Piramo, un giovane gentile e ben prestante,(80) e trova dilaniato dal Leone il mantello della fedele Tisbe; onde con la sua lama, con la sua lama sanguinaria e rea, con un gesto di nobile coraggio si squarcia il fervido sanguigno petto. Tisbe, ch’era rimasta ad aspettarlo sotto l’ombra d’un gelso, nel vederlo, il suo pugnale trae, e si dà morte. Per il resto, lasciate che il Leone, il Chiar-di-Luna, il Muro e i due amanti vi dican tutta intera la vicenda, quando si troveranno sulla scena. |
(Escono tutti, meno il Muro) | |
TESEO - | Mi chiedo se il Leone parlerà. |
DEMETRIO - | Non ci sarebbe da meravigliarsi, signore, se parlasse anche un leone, visto che son tanti asini già a farlo. |
MURO - | Accade, dunque, nel nostro interludio, che il sottoscritto, di nome Nasone, debba rappresentare il Muro; e il Muro, come vorrei che voi l’immaginaste, ha in se stesso una crepa, una fessura attraverso la quale, in gran segreto, Piramo e Tisbe, i due innamorati, usano bisbigliarsi tra di loro; questa calce, l’intonaco e il mattone vi facciano pensare che quel muro son io, come se fosse un muro vero. E questa, a destra e a manca, è la fessura attraverso la quale, trepidanti, i due giovani vanno a bisbigliarsi. |
TESEO - | Un impasto di calce e di terriccio non si saprebbe presentare meglio.(81) |
DEMETRIO - | È il più arguto dei muri divisori ch’io abbia mai sentito, mio signore. |
Entra PIRAMO | |
PIRAMO - | “O fosca notte, o notte tanto notte! “O notte che ti mostri sempre notte “quando giorno non è. O notte, o notte! “Ahimè, ahimè, che la mia Tisbe amata “della promessa, temo, s’è scordata! “E tu, muro, mio dolce, muro amato, “che a divider la terra sei levato “del padre suo e mio, “fammi veder la tua fessura, ond’io “possa veder per essa l’amor mio”. |
(Il Muro alza la mano e apre le dita a “V”) | |
“Grazie, muro cortese. Del tuo zelo “ti renda merito Giove dal cielo. “Ma che vegg’io?… Tisbe non veggio, ahimè, “muro cattivo, che attraverso te “gioia mi porti. Muro maledetto, “che non mi mostri l’amor mio diletto!”. | |
TESEO - | Ora il muro, secondo me, dotato anch’esso di sensibile natura dovrebbe rimbeccargli l’invettiva. |
PIRAMO - | No, signore, per dir la verità, lui non dovrebbe rimbeccar nessuno. Le sue parole “l’amor mio diletto” devono dare l’imbeccata a Tisbe; infatti tocca a lei d’entrare in scena, e a me spiarla di traverso il muro. Succederà, vedrai, proprio così, come t’ho detto: eccola che viene. |
Rientra TISBE | |
TISBE - | “O muro, quanti mai lamenti amari “m’hai tu sentito gemere, perché “da Piramo mio dolce mi separi! “Questo mio labbro di ciliegia, ahi lasso, “quante volte ha baciato “questo concreto tuo di calce e sasso!”. |
PIRAMO - | “Vedo una voce: alla fessura tosto “per vedere ed udir Tisbe m’accosto. “Tisbe, sei là?”. |
TISBE - | “Sei l’amor mio mi pare?” |
PIRAMO - | Ti paia quel che vuol tua vista e udito, dell’amor tuo io sono il favorito. fedele a te come lo fu Lemandro.(82) |
TISBE - | Io com’Elena(83) a te, mio dolce amato, fino a tanto che non m’uccida il Fato. |
PIRAMO - | Tanto fido non fu Cefalo a Procri.(84) |
TISBE - | Né Procri a Cefalo, com’io a te. |
PIRAMO - | Oh, baciami attraverso la fessura di questo vile muro. |
TISBE - | La fessura bacio del muro, ma non bacio te. |
PIRAMO - | Verresti ad incontrarmi sull’istante di Ninì alla tomba? |
TISBE - | Immantinente, e con me vita o morte, dolce amante. |
(Escono Piramo e Tisbe) | |
MURO - | Così io, Muro, ho fatto la mia parte, e, ciò finito, il Muro se ne parte. |
TESEO - | Ed ora il muro è come raso al suolo fra i due vicini. |
DEMETRIO - | Era inevitabile, signore, quando i muri son sì pronti ad origliare senza darne avviso. |
IPPOLITA - | È senz’altro la roba più puerile che mi sia mai occorso di sentire. |
TESEO - | Il meglio, in questo genere di cose, sta sempre in ombra, e il peggio non è peggio se ci soccorre un po’ di fantasia. |
IPPOLITA - | Già, ma in tal caso a figurarci il meglio siamo noi, con la nostra fantasia, non essi con la loro. |
TESEO - | Con la nostra, basta che riusciamo a immaginare ch’essi non sian peggiori recitanti di quanto si ritengano essi stessi, e possono apparirci ottimi attori. Ecco venire due nobili bestie, un uomo ed un leone. |
Rientrano il LEONE e CHIAR-DI-LUNA | |
LEONE - | Voi, dame, voi, il cui nobile cuore si spaventa a vedere il topolino mostruosetto che striscia sul piancito, potrete forse fremere e tremare adesso qui, quando il leon selvaggio ruggire udrete, tutto inferocito. Sappiate allora che a ruggir così son io stesso, Conforto, stipettaio, con addosso una pelle di leone, e nemmeno madama leonessa; ché se fossi venuto innanzi a voi come un vero leone ad azzuffarmi, povera vita mia!(85) |
TESEO - | Questo leone è bestia assai gentile e coscienziosa. |
DEMETRIO - | Il meglio come bestia, mio signore, che mi sia mai occorso di vedere. |
LISANDRO - | Un leone, però, che per coraggio pare proprio una volpe. |
TESEO - | Questo è vero; e pare un’oca per la discrezione. |
DEMETRIO - | No, mio signore, perché il suo coraggio non può portarsi via la discrezione, mentre una volpe può papparsi un’oca. |
TESEO - | È vero. Certo, la sua discrezione non si può portar via il suo coraggio; è anche vero, tuttavia, che l’oca non riesce a portarsi via la volpe. Ma lasciamolo alla sua discrezione e sentiamo quel che ha da dir la luna. |
CHIAR-DI-LUNA - | “Ecco, questa lanterna “rappresenta la bicornuta luna. |
DEMETRIO - | Avrebbe fatto meglio, quello lì, a mettersele in capo, le due corna. |
TESEO - | Sarà perché non è luna crescente, e le corna ci sono, ma invisibili, nascoste nella sua circonferenza. |
CHIAR-DI-LUNA - | “Questa lanterna vuol rappresentare “la biforcuta luna… |
TESEO - | Ah, questo no, questo è l’errore più grosso di tutti. L’uomo dovrebbe star nella lanterna, se no, che Uomo-della-Luna è? |
DEMETRIO - | Non osa entrarvi, perché la candela, come vedi, si viene smoccolando. |
IPPOLITA - | Di questa luna ormai ce n’ho abbastanza. Non si potrebbe cambiare soggetto? |
TESEO - | A sentir la sua poca brillantezza,(86) sembra che sia nella fase calante; comunque, per dover di cortesia, ci converrà aspettare. |
LISANDRO - | Avanti, Luna! |
CHIAR-DI-LUNA - | “Tutto quel che ho da dir nella mia parte “è di avvertirvi che questa lanterna “è la luna; io l’Uomo-della-Luna; “questo fascio di rovi “il rituale mio fascio di rovi, “questo cane, il mio cane. |
DEMETRIO - | Già, soltanto che tutte queste cose dovrebbero star dentro alla lanterna, s’è roba che ha da stare nella luna. Ma silenzio, che sta arrivando Tisbe. |
Rientra TISBE | |
TISBE - | “L’antica tomba è questa di Ninì, “ma l’amor mio, ahimè, non vedo qui!”. |
LEONE - | (Ruggendo) “Ahum! Ahum! Ahum!” |
(Tisbe scappa, e nella fuga perde il manto) | |
DEMETRIO - | Ben ruggito Leone! Molto bravo! |
TESEO - | E brava Tisbe, ben fuggita anch’essa! |
IPPOLITA - | Bene anche Chiar-di-Luna. Questa luna non poteva brillare con più grazia. |
(Il Leone dilacera con le fauci il manto di Tisbe) | |
TESEO - | Ben lacerato, Leone! Perfetto! |
DEMETRIO - | E poi comparve Piramo… |
LISANDRO - | E scomparve il leone. |
Entra PIRAMO | |
PIRAMO - | “Grazie a te, dolce luna, “e il cielo coi tuoi raggi tutto incendi. “Grazie al tuo raggio fervido abbagliante “spero discerner Tisbe, la mia amante”. |
(Vede il manto di Tisbe a terra, insanguinato) | |
“Ma oh, fato funesto, “qual rio destino è questo! “Oh, Piramo meschino, “qual mio tristo destino! “Occhi miei, lo vedete? “Possibile il credete? “Oh, mia dolce anatrella, “come!, la tua mantella “qui la mia vista avvisa “tutta di sangue intrisa!… “O Furie, o Parche dire, “vogliate a me venire, “il mio stame a tagliare, “schiacciare, calpestare, “finire e maledire!”. | |
TESEO - | Codesti appassionati piagnistei, e la morte d’una persona cara, va a finir che ti metton la tristezza. |
IPPOLITA - | Maledetto sia pur questo mio cuore, ma quell’uomo m’ispira compassione. |
PIRAMO - | “Oh, Natura, perché “i leoni hai creato? “Perché un vile leone “qui stuprare dové “l’amor mio adorato, “quella che è… che fu “la più leggiadra dama ch’abbia amato, “e sorriso quaggiù?” “Venite, lacrime, ed affogatemi. “Fuori, mia spada, dalla tua cella, “scendi di Piramo nella mammella, “dove il suo misero cuore saltella”. |
(Si trafigge) | |
“Così io muoio, “e così sia!… “Al ciel t’invola, “anima mia, “spegniti, voce, “Luna, va’ via! | |
(Esce Chiar-di-Luna) | |
“Morto son io, “pietoso Iddio! “Giunto al gran passo, “misero, lasso!”. | |
(Muore) | |
DEMETRIO - | Altro che lasso! Morto come un asso; perché colui non val proprio di più!(87) |
LISANDRO - | Anche meno, direi, perché se è morto, non val proprio più nulla. |
TESEO - | Con l’aiuto d’un medico, potrebbe tuttavia tornare in vita, e da un asso così scoprirsi un asino. |
IPPOLITA - | Com’è che il Chiar-di-Luna è andato via prima che Tisbe sia tornata indietro in cerca dell’amante? |
TESEO - | Lo scoprirà al chiarore delle stelle. Eccola, e con la sua disperazione si chiuderà la rappresentazione. |
Rientra TISBE | |
IPPOLITA - | Penso non abbia troppo a disperarsi per un Piramo come quello là. Spero che il piagnisteo non duri a lungo. |
DEMETRIO - | A volerli pesar su una bilancia, Piramo e Tisbe, a veder chi sia meglio, a farla tracollar da quella parte: lui come uomo, che Dio ce ne liberi; lei, come donna… Dio ci benedica! |
LISANDRO - | L’ha già scorto, coi suoi occhietti dolci… |
DEMETRIO - | E gli sussurra qualcosa. Sentiamo…(88) |
TISBE - | “Dormi, amor mio? / Ah, che vegg’io! “Che! Morte fella / t’ha a me strappato, “mia colombella? “Piramo amato, / sorgi, favella! “Ah, più non m’ode! /quel viso glabro, “questo di giglio / ridente labbro, “questo leggiadro / suo sopracciglio, “queste sue guance / sì colorite “due melarance: ormai sfiorite, “ahimè, finite! “Eran sì belle / le sue pupille, “col loro iride / verde-pisello! “Sciogliete, amanti, / a mille i pianti! “O Tre Sorelle / a me correte, “le vostre pallide / mani tingete “del sangue mio, “poi che reciso / il filo avete “voi della vita /dell’amor mio. “Lingua, silenzio, non più parola; “spada, tu sola / vieni e profonda “nel cuor di Tisbe / tutta t’affonda!”. |
(Afferra la daga di Piramo e si pugnala) | |
“Amici, addio, / felici dì! “Così finisce / Tisbe, così…”. | |
(Muore) | |
Rientrano CHIAR-DI-LUNA e il LEONE | |
TESEO - | Chiar-di-Luna e il Leone rimangono per seppellire i morti. |
DEMETRIO - | Sicuro, ed anche il Muro. |
BOTTONE - | No, il muro che i lor padri separava dovete immaginar che sia crollato. Vi piacerebbe, adesso, a conclusione, veder l’epilogo qui sulla scena, o gustarvi una danza bergamasca(89) ballata da una coppia degli attori? |
TESEO - | Niente epilogo; perché il vostro dramma non ha bisogno di domandar scuse. Niente scuse, perché quando gli attori son tutti morti, sono già scusati. Eh, tuttavia, se la parte di Piramo l’avesse recitata chi l’ha scritta e si fosse impiccato col legaccio da Tisbe usato come giarrettiera, sarebbe stata una bella tragedia… E tale è stata, comunque, in coscienza; e molto egregiamente recitata. Ma procediamo con la “bergamasca”, l’epilogo lasciamolo da parte. |
(Bottone e Flauto danzano una bergamasca, poi escono) | |
La ferrea lingua della mezzanotte ha detto “dodici”:(90) amanti, a letto! Sta per scoccare l’ora delle fate! Tanto di più domani dormiremo quanto abbiamo vegliato questa notte. A letto, amici. Questa nostra festa deve durare ancor due settimane. Avremo ancora tempo per altre danze e notturni diletti. | |
(Escono tutti) | |
Entra PUCK con una scopa in mano | |
PUCK - | “Rugge il leone nella notte bruna, “ulula il lupo al volto della luna; “russa in pace lo stanco contadino, “arde l’ultima brace nel camino, “stride all’inferno a letto il barbagianni “a lui presagio di futuri affanni; “l’ora notturna è questa in cui leggeri “vagan gli spettri sui muti sentieri “uscendo dalle tombe scoperchiate “liberi, ad aleggiare per le strade. “E noi, fatati spirti d’ogni sorta “che al carro d’Ecate facciamo scorta, “sempre fuggendo il raggio dell’aurora, “il buio essendo la nostra dimora, “come sognando siam lieti e contenti; “nessun topo in quest’ora “a disturbarci la casa s’attenti. “Innanzi agli altri io sono qui mandato “a spazzar via, di questa scopa armato, “la polvere dell’uscio inchiavardato”. |
Entrano OBERON, TITANIA e loro seguiti | |
OBERON - | “Pur se stia morendo il fuoco, “si ravvivi, a poco a poco, “della casa in ogni loco “un altissimo bagliore. “Elfi e fate, in gran fervore “su, balzate, saltellate, “come uccelli svolazzate, “con le più lievi volute “a me intorno volteggiate”. |
TITANIA - | “Rinnovate danze e suoni, “tutti i versi sian canzoni, “tra volteggi e capriole “intrecciate le carole, “e col nostro dolce canto “diffondiamo qui l’incanto”. |
(Canto e danze) | |
OBERON - | “Ora, fino all’aurora “ciascun di voi potrà “vagare in libertà “per quest’erma dimora. “Per prima benedetto “sia della sposa il letto: “ch’abbia vita felice ed onorata “quanta famiglia vi sia generata, “e siano nell’amore sempre unite “le tre coppie assortite, “sulla lor prole mai della Natura “la mano possa imprimer la jattura “di quegli odiosi segni del destino “quali una voglia o un labbro leporino. “Fate ed elfi, ciascun per la sua strada, “a spruzzar la sua magica rugiada “per ogni sala, vano, rientranza, “sì che la dolce pace vi abbia stanza, “e possa il suo signore, benedetto, “vivere sempre in pace e in diletto. “All’opra, dunque, datevi dattorno, “e tornate da me prima di giorno”. |
(Escono Oberon, Titania e loro seguiti) | |
PUCK - | Se noi ombre vi siamo dispiaciuti, immaginate come se veduti ci aveste in sogno, e come una visione di fantasia la nostra apparizione. Se vana e insulsa è stata la vicenda, gentile pubblico, faremo ammenda; con la vostra benevola clemenza, rimedieremo alla nostra insipienza. E, parola di Puck, spirito onesto, se per fortuna a noi càpiti questo, che possiamo sfuggir, indegnamente, alla lingua forcuta del serpente,(91) ammenda vi farem senza ritardo, o tacciatemi pure da bugiardo. A tutti buonanotte dico intanto, finito è lo spettacolo e l’incanto. Signori, addio, batteteci le mani, e Robin v’assicura che domani migliorerà della sua parte il canto.(92) |
FINE
(1) Una testimonianza recente a conforto di questa tesi è venuta dalla illustre attrice inglese Vanessa Redgrave; la Redgrave, mentre redigiamo queste note, sta recitando a Londra al teatro del “Globe” la parte di Prospero nella “Tempesta”. Gli inglesi, per le rappresentazioni shakespeariane e del teatro elisabettiano in genere, hanno ricostruito dalle fondamenta lo stesso teatro – il “Globe”, appunto – in cui recitava alla fine del ’500 - inizi del ’600 la compagnia dei “King’s Men” (Attori della compagnia del re) di cui lo stesso Shakespeare faceva parte. “Vedere una commedia qui – afferma la Redgrave – è tutt’altra cosa; nel senso che s’instaura una forte comunicazione fra attori e pubblico per via dello spazio circolare. E la gente, soprattutto quella in piedi al centro, può quasi toccare gli attori, può anche bere una birra durante lo spettacolo. E può parlare, tant’è vero che in certi casi al “Globe” vengono fuori battute estemporanee fra palcoscenico e pubblico”. (Intervista al quotidiano “La Repubblica” del 27 maggio 2000).
(2)“… like to a stepdame or a dowager”: “stepdame”, “matrigna”, ha nell’inglese, più che nell’italiano, il senso di donna perfida e crudele; “dowager” è la vedova ricca che si sta godendo le rendite del defunto marito, nobiluomo o mercante.
(3) L’immagine è suggestiva, se non fosse che la luna nuova (“another moon”) non si vede nel cielo finché non è luna piena.
(4)“… and won thy love doing thee injuries”: “… e ho vinto il tuo amore facendoti delle ferite”; secondo il mito greco, Teseo, divenuto re di Atene, partecipa, con l’amico Piritoo, alla spedizione di Ercole contro le Amazzoni, s’innamora della loro regina Antiope (o Ippolita), la rapisce dopo dura resistenza da parte di lei, e la conduce ad Atene per sposarla. È coi preparativi di queste nozze che Shakespeare apre il suo dramma.
(5) Si capisce che si riferisce a Demetrio.
(6) Testo: “In himself he is”, “In me stesso lo è (degno di te)”.
(7)“Chanting faint hymns to the cold fruitless moon”: alla luna, impersonata e identificata dai Romani con Artemide/Diana, si attribuiva il culto della verginità femminile. “Sacerdotesse della luna” eran dette le vergini.
(8)“Some private schooling for you both”: istruzioni, come dirà più sotto, per le sue nozze imminenti.
([9])“What cheer, my love?”: “What cheer?” è locuzione in tutto equivalente a “How do you do”. Gli inglesi le dicono anche oggi indifferentemente.
(10) Quale sia questo “qualcosa” (“something”) non si sa. Non se ne parla più in seguito.
(11)“A good persuasion”: “una buona teoria”, “un buon modo di ragionare”; ma “persuasion” è spesso solo un rafforzativo pleonastico (es.: “A speaker of femal persuasion took the chair”: “Una donna prese la parola”) e non si traduce.
(12) Allusione alle vicende di Enea e Didone, narrata da Virgilio nell’“Eneide”.
(13) “Non della mia” non è nel testo, ma sottinteso, perché Elena sa di esser bella, non meno di Ermia, come dirà più sotto.
(14) Febe è l’altro appellativo di Diana, la divinità lunare; appellativo peraltro impropriamente ad essa dato, per semplice assonanza con quella di Febo, il sole suo fratello.
(15) Gli amanti si cibano della propria reciproca vista, e dei baci.
(16) I nomi inglesi di questi personaggi minori, come spesso in Shakespeare, sono tratti da aggettivi o sostantivi, riferiti ad una loro qualità, che si è cercato di italianizzare alla meglio. Quince, il nome del falegname, è una varietà di mela asprigna, e si è reso con “Cotogna”; Snug, il nome dello stipettaio, significa “confortevole”, e si è reso con “Conforto”; Bottom, il nome del tessitore si è reso, per assonanza e pertinenza, con “Bottone”; Flute, il nome dell’aggiustatore di mantici è, palesemente, “Flauto”; Snout, il nome del calderaio, è “proboscide”, donde “Nasone”; Starveling, il nome del sarto, vuol dire “allampanato per fame”, donde “Il Lanca”.
(17) Il testo ha semplicemente “I could play Ercles rarely”, letteralm.: “Io saprei recitare Ercole come pochi”; ma “rarely” è anche “preziosamente”.
(18)“… or a part to tear a cat in”: “to tear a cat” è espressione idiomatica per significare “declamare in modo fragoroso”, quasi da bombardare le orecchie dell’uditorio (“to rant and buster” indica alla voce il “New Oxford Dictionary”).
(19)“They would have no more discretion than to hang us”, letteralm.: “Non resterebbe loro altra scelta che impiccarci”.
(20)“… I will aggravate my voice”: Bottone sproposita, usando un verbo contrario a quello che vuol dire, cioè “saprò alleggerire (“I would lighter”) la mia voce”.
(21)“… as any sucking dove”: non è – come molti intendono – “come una colomba lattante”, che non ha senso (i colombi non allattano) ma “come una colomba che tuba”. “To suck” vale qui “to draw air into mouth”, che è la meccanica del tubare dei colombi.
(22) La battuta, incomprensibile in italiano, gioca in inglese sul doppio senso di “crown” (“Your french-crown-colour” - dice Cotogna) termine che sta per “corona” (moneta) e “guscio d’uovo” e, per analogia, “zucca pelata”. Il riferimento è alla caduta dei capelli provocata dal “mal francese”, come era chiamata la sifilide contratta dai soldati inglesi nelle guerre di Francia (Cfr. anche “Re Lear”, I, 4, 155: “Give me an egg, and I’ll give thee two crowns”; e anche I, 4, 163: “Thou hadst little wit in thy bald crown”; e anche “Enrico V”, IV, 1, 220: “… the French may lay twenty French crowns to one they will beat us, for they bear them on their shoulders”: “I Francesi possono scommettere 20 corone contro una che ci battono, tanto loro le corone le portano sulle spalle…”.
([23])“… most obscenely and courageously”: Bottone vuol dire “most scenically”, “più scenicamente”.
(24)“Hold or cut bowstrings”: espressione tolta dal gergo del tiro all’arco che vale letteralm.: “Tenete in tiro le corde (pronti a scoccare), o tagliatele”.
(25)“She never had so sweet a changeling”: “changeling” è termine che non ha equivalente in italiano; sta ad indicare persona (specie fanciullo) o “cosa scambiata surrettiziamente con un’altra”.
1 comment