Da molto tempo non mi trovavo di fronte a un libro capace di turbare le anime e di turbare il critico, ciò che a mio parere è un titolo di onore. Questa è infatti una di quelle opere d’arte che possono riuscire ingrate a moltissimi, specie a quei lettori che, nel romanzo come a teatro, non amano di dover troppo tormentarsi sentendosi obbligati a guardar dentro di loro stessi, e che i grossi problemi della dannazione e della salvezza relegano in sedi separate e ben lontane dalla vita quotidiana, quasi come i morti nel cimitero; ma per quanto ingrata bisogna pur venire a cozzare con essa quando si fa tanto di incominciarla e pur rifuggendo vi insegue, come il protagonista del libro, l’abate Donissan, insegue spiritualmente la povera Mouchette Malorthy che lo fugge, lo teme e lo detesta.
Il nuovo turba sempre, e il romanzo di Bernanos è essenzialmente nuovo; diverso da quanto la letteratura francese va ripetendo da molto tempo, lontano da tutte le complicazioni erotiche e gli estetismi morbidi sia pur truccati di misticismo. Esso rompe anche con la tradizione di quella stucchevole e perfetta composition, che era quasi una conquista tecnica della letteratura narrativa francese, per cui i romanzi che si ammucchiano a dozzine, belli o brutti, empi o pii, hanno uno stampo comune di fattura, una formula di svolgimento e di misura, quasi una marca di fabbrica. Questo finalmente è un libro ribelle ai buoni precetti di composizione di un romanzo, a cominciare dalla sproporzione delle parti, di cui la prima, che è la fredda narrazione del delitto di Mouchette che uccide l’uomo che amava e col quale aveva una relazione, rimane nella sua crudità realistica di fattaccio di sangue, sospesa senza continuazioni e senza giustificazione fino a metà libro. Nulla in esso è concesso all’artificio di intrecci o di situazioni, alle comparse e presentazioni dei personaggi.
Nulla alle ingombranti descrizioni di natura e di ambienti. Chi scrive non sa guardare le cose dal di fuori; vede poco i colori e le forme; è di una sobrietà puritana. Il suo occhio guarda al di dentro e dal di dentro, ed è troppo preoccupato del problema centrale dell’anima, per perdersi in curiosità laterali. Il verismo, che si distendeva in superficie, qui discende in profondità. Perché mai perdersi e baloccarsi a riprodurre sensazioni, volti e abiti, paesaggi e case, mari e monti, quando sentiamo che queste non sono che illusioni della ingannevole figura di questo mondo che passa? Quando sappiamo che non sono che sipari, tele, assiti e quinte di un palcoscenico improvvisato per le marionette che prendono sul serio la loro parte, come quell’accademico di Francia, gonfio come tutti gli accademici della sua immortalità da burla, che chiude il libro? Quando il vero dramma interessante è quello che si combatte dentro il cuore umano tra Dio e Satana, e l’uniche cose che valgano per chi sollevi il velo della monotona stupidità degli uomini, si chiamano salvezza e dannazione?
Lo stile del libro a me sembra derivare essenzialmente da questo suo spirito esclusivo, ribelle ugualmente al verismo materialistico come al dilettantismo estetico; dalla sua severità, anzi intolleranza giansenistica, per lo spirito superficiale dell’arte mondana che tutto vuol godere e tutto comprendere senza credere in nulla; che va bevendo com’ape il miele a tutti i fiori senza lasciarsi mai afferrare dalla realtà suprema e nascosta, dalla cosa unica e necessaria per la quale val la pena di soffrire e morire.
Bernanos afferra il lettore di colpo, il solito lettore ozioso che va ai concerti, alle conferenze e ai cinematografi, forse anche alla messa della domenica, ma che dei novissima non vuol sentir troppo parlare e rifugge dai misteri che danno il brivido; e lo mette di fronte a Satana in lotta con la santità, oggi, nel nostro tempo, sotto i nostri occhi, con quella stessa volontà di richiamo con cui in piena estate, nel Lazzaretto di Milano, un grande frate cappuccino lanciava il cadavere di una vecchia tra le coppie danzanti che su l’orlo della morte, tra le rovine della morte, tentavano dimenticare la presenza della invisibile ospite. In una società che, come osservava Gladstone, ha
“perso il senso del peccato”; che lo riduce a una attività dello spirito, e sorride dell’inferno come di una fiaba buona per far paura ai bambini o agli sciocchi; in mezzo a questa fiera delle vanità che è la letteratura, egli fa sorgere la paurosa ombra dell’arcangelo ribelle, del nemico di Dio, a cui egli crede appunto perché crede in Dio, come vi hanno creduto quanti sono giunti, attraverso a una dolorosa esperienza del mondo delle anime, a scoprire la grandiosa lotta a cui partecipano cielo e inferno intorno a ogni uomo; come vi hanno creduto i grandi poeti e pensatori cattolici a cominciare da Dante, che ha descritto l’eterna contesa nell’episodio di Buonconte da Montefeltro.
Anche per il romanziere moderno c’è qualcuno tra Dio e l’uomo, che non è un personaggio secondario, che non è un mito; c’è un essere incomparabilmente sottile, a cui nulla potrebbe essere comparato se non l’atroce ironia e il riso crudele. A lui è stato concesso per un tempo di essere l’oppositore di Dio, il Principe del mondo, di vincere, anche in questa terribile monotonia del peccato, l’uomo: questo grande fanciullo pieno di vizi e di noia. Ma di fronte al “nemico che mai non dorme”, come lo chiama un nostro cronista antico, contro l’arcangelo ribelle, in questo dramma terrestre e celeste, l’Autore ha sentito con pari intensità il sacerdozio mosso dalla volontà eroica e disperata di salvare anime. Nella luce fredda e terribile che diffonde dal suo cielo, Lucifero ha visto un piccolo uomo nero, un povero prete di campagna, un rozzo vicario alquanto goffo, ignorante e anche ridicolo, che non osa attribuirsi delle grazie speciali pur possedendole, ma che sa di avere una missione: quella di perseguitare il Demonio nelle anime, e che per questa missione sublime compromette il suo riposo e quasi anche il suo onore sacerdotale.
L’arte è stata spesso tentata di descrivere il prete; di preti in arte ne conosciamo anche troppi, ma se escludiamo i tipi immortali dei “Promessi Sposi” da Don Abbondio al Cardinal Federigo, ci sembra che essi pecchino quasi tutti per le intenzioni polemiche o apologetiche dei loro autori. Troppo spesso noi ci troviamo di fronte, nel romanzo, più che a figure di sacerdote a idee vestite in veste talare, a stati d’animo esagerati nel bene o nel male, a ripetizioni di modelli convenzionali, propri di chi non è mai penetrato nel fondo dell’anima di un prete e del clero conosce la maschera e non il volto. Il Bernanos ha scritto invece un romanzo di preti, ma di preti veri, in carne e ossa, come chi li conosce bene, senza cedere ai motivi comuni, senza ricorrere ai tipi che possono piacere o “agli sciocchi increduli” o ai troppo “creduli sciocchi”, senza rimestare fango di tentazioni erotiche da Santi Antoni immaginari stuzzicati dalle fantasie di una mal digerita castità.
Non esistono tentazioni frivole in questo mondo illuminato sinistramente da Satana.
Il frutto proibito dà nausea, l’amore dei sensi non può attrarre chi dal confessionale ode salire la monotona litania della colpa, il cattivo odore di questa umanità corrotta, il gemito di infinita noia lasciato dal piacere. Niente amore in questo dramma di preti, perché altre sono le passioni, altre le tentazioni più sottili e terribili del confessore: tentazioni di orgoglio spirituale, tentazioni di sfiducia in questo oscuro branco cieco e sordo che è trascinato sulla terra dietro piccole cose disgustose e immonde dal
“nemico potente e vile, magnifico e vile”; tentazioni su Dio che tace, su Dio che permette; tentazioni contro la luce che par vinta dalle tenebre; senso di smarrimento, di angoscia mortale, di apparente abbandono al potere avverso; preghiera che rasenta la bestemmia, fede che tocca la disperazione.
L’abate Donissan non è che uno dei tanti confessori, dotato di speciali lumi, di poteri straordinari non spiegabili umanamente. E’ una specie di curato d’Ars, la cui vita irradia sulla folla da un confessionale. Più che romanzo, questo libro che ci parla di lui vorrebbe essere dunque, soprattutto nella seconda parte, una biografia nel senso nuovo, secondo le tendenze nuove dell’arte biografica che la riavvicina alla poesia; interpretazione di uno spirito, scoprimento dell’essenziale di una esistenza, analisi interiore d’una vita apparentemente chiusa nella minuscola parrocchia di Lumbres e che pur s’apre sul mondo e sull’oltremondo, e che pur tocca, nella sua apparente umiltà e ignoranza, una sapienza di divinazione e di penetrazione di questo povero cuore umano che “la Sorbona ignora”. Noi lo seguiamo, il singolare curato, attraverso le manifestazioni di una vita missionaria scomposta, eccessiva e talora quasi pericolosa per la troppa passione religiosa, non in una trama organica di avventure romanzesche, ma in uno svolgersi di episodi di vita interiore e nei rapporti suoi con altri superiori e confratelli, quali quel curato di Campagne, l’abate Menou-Ségrais, asmatico, nervoso, irascibile, sottile, ma magistrale clinico delle anime, come ne sa formare la Chiesa, e che scruta tra ostile e commosso il mistero del suo vicario, finché gli sembra di vedere chiaro che le sue opere hanno il segno della grazia e vengono da Dio.
Eppure in questa vita d’uomo la cui esperienza è tutta di anime, non manca il grande dramma, non mancano le ore tragiche e turbinose, appassionanti se anche discutibili, dal primo incontro nella notte col gran nemico, dal primo entrare nella sua vita di colui che incontriamo ogni giorno sul nostro cammino, non sempre riconosciuto; fino all’altro incontro nel quale Dio gli permette di vedere coi suoi occhi attraverso l’ostacolo carnale l’anima di Mouchette Malorthy, questa “piccola serva di Satana”, per nulla simile alle indemoniate di maniera: una “santa Brigida del nulla”, una ragazza comune, volgare eroina del piccolo mondo borghese e provinciale mirabilmente descritto - ricalcata sopra un personaggio favorito e che il prete strappa da quella “pace muta, solitaria, glaciale” che è il “capolavoro” del Diavolo. La strappa anche dalla disperazione finale che l’ha indotta ad afferrare un rasoio nella camera di suo padre, immergendosi freddamente la lama nel collo; trascinandola a morire in chiesa, ai piedi dell’altare, tra lo scandalo e la riprovazione di tutti, dal vescovo alle autorità civili e scientifiche che lo giudicano pazzo. Poi viene la casa di salute, poi la trappa di Portefontaine.
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