E poi Lumbres: il luogo deserto dove egli par sepolto per sempre, allontanato da tutti per sempre, e dove invece la gente viene a cercare di lui e viene a cercarlo “la gloria, di fronte alla quale ogni gloria umana impallidisce”.

Ha voluto dunque, il Bernanos, tentare anch’egli, dopo il Fogazzaro, sebbene con arte e con pensiero diversi, di proporre un esempio di santo immaginario da seguire? Ha voluto forse creare artisticamente un eroe della bontà da imitare? Nessun artista è tanto grande da piegare con le sue mani un’aureola per cingerne la testa di un uomo, e quando l’arte vuol pronunziarsi su questo grande segreto di Dio, che solo la Chiesa scruta, l’arte si attribuisce poteri che non ha. Bernanos non ha voluto esprimere troppo chiaramente il suo pensiero sulla canonizzazione possibile di un curato come quello di Lumbres, e ha fatto bene. Egli si è accontentato di descrivere da poeta, secondo documenti che dichiara autentici, anche se noi possiamo dubitare di una autenticità dichiarata in un romanzo, la vita di un uomo eccezionale, separato da ogni consolazione umana, pressato giorno e notte dalla gente nel suo confessionale; l’uomo di Dio disputato come una preda, senza riposo, senza amici, coi più terribili scrupoli che risorgono, con l’angoscia di dover toccare le piaghe più oscure e la disperazione delle anime dannate. Ma sui segni esteriori, sui miracoli, sulle visioni, sui faccia a faccia col Demonio, evidentemente studiati nelle vite di santi autentici, anche tra i più moderni, il romanziere non si è pronunziato. Quando il suo personaggio ha tentato il prodigio, quando in un accesso di quasi follia ha creduto di poter osare ciò che qualche santo era stato chiamato ad osare: il risveglio di un fanciullo morto, egli è miseramente fallito, egli è stato confuso in una volontà che credeva di Dio e che non era. Invece il miracolo vero, il segno unico che le sue opere venivano da Dio e non dal Demonio è parso allo scrittore il potere di questo prete, esteriormente inoffensivo e mediocre, di far piegare le ginocchia ai peccatori.

Il Bernanos non ha inteso di canonizzare il curato di Lumbres, ma solo di indagare l’affascinante segreto della santità per concludere che tra gli increduli che negano i santi e i troppo creduli che ritengono la santità come un’erba che cresce nei campi, estremamente facile a cogliersi, e pei quali i santi sono delle sorridenti immagini con un colpo di pennello in tondo intorno al capo, buoni per ottener grazia; pochi sanno che la santità è simile a un albero “tanto più fragile quanto è di essenza più rara”, battuto da tutti i venti, minacciato da tutte le tempeste; che essa è un dono pauroso, una elezione piena di mistero a portare la croce di tutte le miserie, a sopportare in sé la guerra tra il cielo e l’inferno, nella quale nessuno può mai dire di essere riuscito vincitore fino al superamento dell’ultimo pensiero e dell’ultima immagine; una fatica in cui non è lecito all’uomo dir “basta”.

Così pure egli ha scrutato il mistero della Grazia, operante in un uomo di modesta levatura e di nessuna cultura intellettuale; la trasformazione luminosa di una natura greggia e non interessante, sotto l’influsso dell’azione divina. Per questo ha tentato sentieri scabrosi, esperienze rare; ha amato scrutare le tenebre di un universo sconosciuto, conteso da Satana. Ma in una simile analisi tormentosa ha perduto talora il senso della verità umana che persuade. Nella sua reazione contro l’intellettualismo e contro il compromesso tra religione e scienza, rappresentato dall’ex-professore curato di Luzarnes, non ha visto che un lato del grande mondo della santità e della grazia. Si è gettato con passione cieca dalla parte della “santa follia” e della “beata ignoranza”; si è compiaciuto di questa antitesi fra grazia e intelligenza, che non risponde d’altronde alla magnifica storia della santità cattolica, né a quella del sacerdozio cattolico, e che forse non risponde nemmeno al modello reale da cui ha tratto la sua creazione d’arte: dai veri e grandi convertitori come lo stesso curato d’Ars, tanto diletto all’Autore; dai sublimi apostoli di bene che ebbero interi i doni dello Spirito Santo. Tra questi doni ricordo la Sapienza, l’Intelletto… la Scienza. Non so che vi sia la semplicità degli sciocchi e la sia pur santa follia degli squilibrati. Manca insomma qualcosa al “santo” di Lumbres per essere un vero santo. Se quello del Fogazzaro ragionava forse troppo, questo del Bernanos ragiona troppo poco per essere degno degli altari.

E non sorride mai. Non si accorge nel suo cupo terrore di Satana e nella sua visione apocalittica del peccato, che un divino soffio di bontà passa sul mondo e nelle anime, che l’alito creatore rinnova perennemente l’umanità alle sue radici, che forze nuove rigenerano il mondo cristiano a ogni aurora. Non sente ciò che hanno scritto i veri santi, - e oso dire che ne ho conosciuto qualcuno che mi ha insegnato molte cose - la serenità dopo le tempeste, la semplicità del fanciullo che sa guardare la terra come illuminata dal sole di Dio; la preghiera che canta col cuore mondo il canto di tutte le creature del nostro grande Santo italiano, piagato, tormentato anche da Satana, ma che seppe sentire più forte di tutte le tentazioni e della stessa morte la “vera letizia”.

Tommaso Gallarati-Scotti

Prologo: Storia di Mouchette

I

Ecco: è l’ora della sera che P’J’ Toulet amava. Ecco: l’orizzonte che si sfa (una gran nuvola d’avorio da ponente e, dallo zenit al suolo, il cielo crepuscolare, la sterminata algida solitudine) pieno di un liquido silenzioso. E’ l’ora che il poeta distillava la vita nel suo cuore, per estrarne l’essenza arcana piena di balsami e di tossici.

Già il branco umano brulica nell’ombra, con le sue mille braccia, e le mille bocche; già il boulevard si mette alla vela e inalbera i fanali: il poeta, coi gomiti sul tavolino di marmo, guarda sorger su, come un giglio, la notte.

In quest’ora comincia la storia di Germana Malorthy, del borgo di Terninques in Artois. suo padre era uno di quei Malorthy del Bulonnese, che sono una dinastia di mugnai e di civaiòli; tutta gente d’una pasta, da far d’un sacco di farina buona misura, ma larghi negli affari e buonviventi. Malorthy il vecchio fu il primo che mise radice sul suolo campagnardo, vi prese moglie, e lasciato il grano per l’orzo, si dette a manipolare birra e politica, pessime entrambe.

I civaiòli di Douvres e di Marquise lo ebbero da allora in conto di matto pericoloso da finir sulla paglia dopo aver portato il discredito su una classe di commercianti che non avevan mai avuto da chieder nulla a nessuno, fuorché il riconoscimento dei loro onesti profitti. “Noi siamo liberali di padre in figlio”, solevano dire, e con questo intendevano che si mantenevano dei bottegai senza pecca.

Perché il dottrinario in rivolta, del quale il tempo si prende gioco con profonda ironia, non ha miglior caposaldo del pacifico cittadino: la posterità spirituale di Blanqui ha popolato gli atti di registrazione, e di quella di Lamennais sono ingombre tutte le sacrestie.