sono io!...”

“Viva Pipì! Viva il nostro imperatore! Viva l'imperatore di tutte le scimmie!”, gridò quella immensa folla entusiasmandosi e battendo le mani.

Fu portata subito in mezzo alla piazzetta una vecchia seggiola impagliata che, veduta di dietro somigliava moltissimo a un trono imperiale: e Pipì vi si assise sopra con sussiego e maestà.

Intanto una numerosa fanfara musicale, composta di cento cembali e di cento corni di bove, cominciò a sonare l'inno dell'incoronazione.

Quattro scimmiotti, vestiti da paggi, presentarono al nuovo imperatore un bel vassoio tessuto di giunchi, sul quale vedevasi la corona e lo scettro imperiale.

La corona era fatta di mele lazzarole infilate in un cerchietto di ferro: e lo scettro era una canna di zucchero bell'e candito.

Pipì prese la corona dal vassoio, e dopo averla con molta dignità annusata, se la pose in capo. Quindi afferrò lo scettro, e non potendo reggere alla tentazione, cominciò a succiarlo e a masticarlo: ma, per buona fortuna, uno scimmiotto, che era lì accanto e che faceva da cerimoniere, gli dette nel gomito per avvertirlo dell'atto sconveniente. Allora il nuovo imperatore smesse subito di succiare; e per rimediare allo scandalo dato, pensò bene di durare un quarto d'ora a leccarsi le dita.

In quel mentre, si fecero avanti sedici scimmioni, che portavano sulle spalle una magnifica lettiga, adorna di foglie, di fiori e di bellissime frutta.

La scimmia, che faceva la parte di gran cerimoniere, dopo avere strisciato due profondi inchini, disse rispettosamente al nuovo imperatore:

“Maestà, su, da bravo! Ora tocca a voi”.

“Tocca a me? E che cosa debbo fare?”

“Per amore o per forza, degnatevi di saltare su quella lettiga.”

“E quando sarò saltato lassù, dove mi condurrete?”

“Al palazzo imperiale, dov'è la vostra residenza e il vostro letto.”

Pipì, a queste parole, fece una certa smorfia, che tradotta in lingua parlata, pareva che volesse significare: "A dir la verità, io dormirei più volentieri sopra un ramo d'albero, come ho fatto finora, che sopra un letto imperiale". Tant'è vero che rivoltosi al gran cerimoniere gli domandò con tono agro-dolce:

“Scusate, amico: io sono il vostro imperatore, non è vero?”.

“Verissimo.”

“E che cosa vuol dire imperatore?”

“Vuol dire che voi siete una scimmia, che comandate a tutte le altre scimmie, e che ogni vostro cenno e desiderio dev'essere immediatamente obbedito.”

“Quand'è così, dichiaro francamente che, invece di andare in lettiga, preferisco di camminare a piedi.”

“Mi dispiace, Maestà: ma voi non potete farlo.”

“Perché non posso farlo?”

“Perché un imperatore, che cammina a piedi, non è più un imperatore. Camminando a piedi, diventa una scimmia come tutte le altre scimmie.”

“Eppure avete detto che ogni mio desiderio dev'essere contentato.”

“Verissimo. Ricordatevi però, Maestà, che la più bella prerogativa che abbiano i regnanti, è quella di non poter far nulla a modo loro.”

“Ho capito, e vi ringrazio”, disse Pipì. E, spiccato un salto, andò a sedersi sulla lettiga.

La fanfara, allora, cominciò a sonare alla viv'aria, e l'immenso corteggio si mosse con grand'ordine e con solennissima pompa.

Giunto al palazzo, l'imperatore si assise subito ad una tavola bell'e apparecchiata nella gran sala da pranzo. Il povero Pipì, sebbene fosse diventato imperatore, aveva un appetito che somigliava moltissimo alla fame, come un fratello potrebbe somigliare a una sorella: ma non riuscì a contentare il brontolio del suo stomaco, perché i vassoi pieni d'ogni ghiottoneria, appena portati in tavola, erano subito vuotati e spolverati dai commensali, che gli facevano corona.

“Il pranzo finì: e lo scimmiottino aveva più fame di prima.”

“Pazienza!”, disse fra sé e sé. “Ora me ne anderò a letto, e dormendo, mi dimenticherò che non ho mangiato.”

Detto fatto, entrò nella camera imperiale: e dopo poco russava come un ghiro.

Quand'ecco che sul più bello, si trovò svegliato da una sinfonia indiavolata di cembali e di corni e da migliaia e migliaia di voci, che gridavano:

“Viva l'imperatore! Fuori l'imperatore!”.

“Maestà”, disse il gran cerimoniere, entrando in camera, “alzatevi e affacciatevi al balcone. I vostri sudditi vogliono vedervi.”

“Peccato!”, brontolò Pipì, stropicciandosi gli occhi. “Dormivo così bene!”

E sbadigliando e barcollando si affacciò al balcone.

“Viva il nostro imperatore!”, gridò novamente quell'immensa folla di scimmiotti radunati sotto le finestre della reggia.

“Grazie, amici”, rispose Pipì, dimenando la testa in atto di salutare. “Sento che avete una bellissima voce, e me ne rallegro tanto con voi. E non avendo altro da dirvi, buona notte e ci rivedremo domani.”

A queste parole, la folla si sciolse tranquillamente, e Pipì tornò ad accovacciarsi sul suo letto imperiale.

Ma in quel mentre che stava lì per riprendere il sonno, ecco una nuova sinfonia di corni, di cembali e di urli popolari.

“Che cos'è stato?”, domandò alzando il capo.

“Maestà”, rispose il gran cerimoniere, entrando in camera “i vostri sudditi desiderano vedervi un'altra volta. Degnatevi affacciarvi al balcone.”

“Eccomi subito”, disse Pipì. “Pregate intanto i miei amici a concedermi un minuto di tempo, tanto che io possa lavarmi il viso.”

Passò un minuto, ne passarono due, cinque, venti, e l'imperatore non si vedeva apparire.

Andarono allora a cercarlo in camera, e non lo trovarono più. L'imperatore era sparito.

 

 

13. Pipì riceve una lezione dal coniglio

 

Che cos'è stato dell'imperatore Pipì? Nessuno l'aveva veduto: nessuno sapeva darne contezza. Che fosse fuggito via da qualche finestra? Impossibile: perché le finestre, riscontrate a una a una, furono trovate tutte chiuse dalla parte di dentro. Dunque?...

Fatto sta, che lo cercavano da per tutto. Lo cercarono nell'armadio di camera, nella dispensa della sala da pranzo, nelle stanze di guardaroba, nei sottoscala, in tutti gli sgabuzzini e perfino nelle cantine del palazzo: ma inutilmente. Alla fine, fruga di qui, guarda di là, a qualcuno venne in capo l'idea di dare un'occhiata sotto il letto imperiale. Volete crederlo? Sissignori: l'imperatore era per l'appunto nascosto sotto il letto e se la dormiva saporitamente. Quale scandalo! Quale orrore!...

“Sire! Che cosa fate costì?”, gli domandò il gran cerimoniere, pigliandolo rispettosamente per un orecchio.

“Dormo”, rispose Pipì, sbadigliando e allungandosi.

“Svegliatevi, e rizzatevi subito in piedi! Non vi vergognate?”

“A dir la verità, quando ho sonno davvero non mi sono mai vergognato a dormire.”

“Ma perché addormentarsi in quel luogo? Dov'è, o Sire, la vostra dignità imperiale?”

“L'avrò forse dimenticata sotto il letto”, rispose ingenuamente Pipì, il quale non sapeva che cosa fosse questa dignità tanto decantata.

Poi, chiamando in disparte il gran cerimoniere, gli bisbigliò in un orecchio:

“Volete, amico, che vi parli francamente? Avevo creduto finora che il far da imperatore fosse il più bel mestiere di questo mondo: ma oggi mi avvedo pur troppo di essermi ingannato. Oh fortunati gli scimmiottini che si contentano di rimanere semplici e modesti scimmiottini per tutta la vita! Almeno potranno levarsi il gusto di mangiare, quando hanno fame, di dormire quando hanno sonno, e sul più bello del sonno nessuno verrà mai a svegliarli, per costringerli a ringraziare dal balcone una folla di sfaccendati, che non hanno voglia di andare a letto”.

Nel tempo che Pipì faceva questa confidenza intima al gran cerimoniere, il cielo s'era fatto nero come la cappa del camino, e l'acqua veniva giù a catinelle.

Allora si sentì sotto le finestre del palazzo imperiale uno strombettio di fanfare e un baccano di voci e strilli scimmiotteschi, che gridavano:

“Vogliamo il sole! Vogliamo il bel tempo!... Se no, abbasso l'imperatore!...”.

“Amici miei”, disse Pipì affacciandosi al balcone e parlando alla folla delle scimmie radunate in piazza. “Amici miei; come volete che io faccia a darvi il sole e il bel tempo, finché dura quest'acquazzone che pare un diluvio?”

“No, no! Vogliamo il sole a ogni costo, e lo vogliamo subito!”

“Confidate in me!”, soggiunse Pipì. “Appena la pioggia cesserà e il tempo si rimetterà al buono, io prometto di darvi il sole e il bel tempo.”

Poche ore dopo, neanche a farlo apposta, la pioggia cessò e venne fuori un bellissimo sole.

Ma quando gli scimmiotti si accorsero che il sole scottava troppo, chiamarono le fanfare e recatisi dinanzi al palazzo dell'imperatore, presero a gridare:

“Vogliamo l'acqua! Vogliamo la pioggia!”.

Pipì, annoiato da questa storia, aveva fatto giuro di non affacciarsi: ma poi sentendo che gli urli raddoppiavano sempre più, cacciò fuori il capo e disse:

“Volete proprio la pioggia?”.

“Sì, sì! Vogliamo la pioggia, se no, abbasso l'imperatore!”

“Aspettatemi allora costì, e fra un minuto vi manderò la pioggia desiderata.”

A queste parole tenne dietro un gran battìo di mani e il suono della marcia imperiale. Detto fatto, dopo pochi minuti, Pipì si affacciò novamente al balcone, gridando:

“Eccovi la pioggia: e chi ne vuol di più, se la vada a prendere alla fontana!”. E nel dir così, rovesciò sul capo dei dimostranti una gran catinella d'acqua.

Impossibile immaginarsi il tumulto che ne avvenne. Il palazzo fu invaso e preso d'assalto. Si cercò l'imperatore per tutte le stanze: ma non si riuscì a trovarlo.