Che cosa rimaneva da fare? Non trovando l'imperatore, la folla dové contentarsi di bastonare il gran cerimoniere. È sempre così! Nelle cose di questo mondo ne soffre sempre il giusto per il peccatore!

Intanto Pipì, scappato di nascosto da una porticciola segreta, che restava dietro il palazzo, si era dato a correre per le viottole della boscaglia, come se avesse avute le ali ai piedi. E dopo aver corso due giornate intere, trovò in mezzo agli alberi una piccola casa senza finestre.

Sulla porta della casa c'era seduto un bel coniglio che aveva il pelame turchino (come i capelli della Fata): il quale, vedendo Pipì, si alzò da sedere e lo salutò garbatamente, portandosi la zampa destra all'altezza del capo, a uso del saluto militare.

“Che cosa fai costì, mio bellissimo coniglio?”, gli domandò lo scimmiottino.

“Stavo appunto aspettando Vostra Signoria.”

“Chi è questa Vostra Signoria?”

“È lei.”

“Sono io? Ah intendo, intendo! Compatiscimi, amico; perché i poveri, come me, quando sentono darsi di Vostra Signoria, credono sempre che si parli di qualcun altro. Non avresti per caso da offrirmi un po' da mangiare e un po' da dormire?”

“Si degni di passar dentro, e troverà l'uno e l'altro.”

Pipì, com'è facile figurarselo, accettò di gran cuore l'invito: e appena messo il piede sulla soglia di casa, vide nella stanza terrena una tavola apparecchiata e una materassina ripiena di penne di uccello, distesa per terra.

Senza far complimenti, si pose subito a tavola, e dopo aver divorato in un attimo un piatto intero di nespole e di fichi verdini, principiò a dire sospirando: “Ho sofferto tanto, amico mio! La mia vita è tutta un'iliade...”.

“Che cosa vuol dire iliade?”

“Non so nemmen'io e non m'importa di saperlo. Io sono come certi ragazzi figlioli degli uomini: ripeto a caso quel che sento dire e non mi curo d'altro.”

“Non mi pare una cosa fatta bene.”

“Pazienza! Cercherò di correggermi! Se tu conoscessi però tutte le mie disgrazie!...”

“Le conosco.”

“Come fai a conoscerle?”, domandò lo scimmiottino maravigliato.

“Le ho lette nel Giornalino dei Bambini, che si stampa a Roma. Scusi, signor Pipì, la mia curiosità: ma lei non aveva promesso al padroncino Alfredo di tenergli compagnia in un gran viaggio intorno al mondo?”

“Mi spiego: gliel'avevo promesso... e non glielo avevo promesso...”

“Come sarebbe a dire?”

“Mi spiegherò più chiaro. Devi sapere che io fui tentato a far quella promessa... lo sai da chi? dalla gola.”

“Cioè?”

“Il signor Alfredo, per sedurmi, mi fece portare in tavola delle frutta così belle e così saporite... che io, a quella vista...”

“Ho capito, ho capito”, disse il coniglio ridendo. “Lei fece su per giù come fanno certi ragazzi figliuoli degli uomini, i quali, pur di ottenere dai loro babbi e dalle loro mamme qualche ghiottoneria o qualche balocco, promettono di esser buoni, di studiare e di farsi onore alla scuola... e poi? E poi, appena ottenuta la grazia, dimenticano subito le belle promesse fatte e chi s'è visto, s'è visto: non è vero?”

“Ho paura, mio caro amico, che tu l'abbia indovinata.”

“Vuol sapere, signor Pipì, come diceva il mio nonno? Il mio nonno diceva sempre che "quando si promette una cosa, bisogna mantenerla, e che quelli che mancano alle promesse fatte, non meritano di essere rispettati dagli altri, né assistiti dalla fortuna". Ha capito? Arrivedella, signor Pipì.”

E il coniglio, dopo queste parole, fuggì via come un baleno.

 

 

14. Pipì ritrova finalmente Alfredo e parte con lui

 

Intanto lo scimmiottino si persuadeva ogni giorno di più che quella casina fosse fatta apposta per lui: e dicerto vi sarebbe rimasto per tutto il resto della vita, se una sera, come già sapete, mosso a compassione di un ciechino che domandava per carità un po' di ricovero, non avesse aperto la porta al suo terribile persecutore.

“Potrei sapere”, disse Golasecca, appoggiandosi con le spalle alla porta che aveva richiusa dietro di sé, “potrei sapere chi è quel pietoso benefattore, che si è degnato di ospitarmi?”

“Quel benefattore sono io”, rispose Pipì, alterando un poco la voce, per non essere riconosciuto.

“E voi come vi chiamate?”

“Mi chiamo... io!”

"Questa voce la riconosco!", masticò il cieco fra i denti: quindi soggiunse:

“Ditemi, mio caro benefattore, avete mai veduto per questi dintorni uno scimmiottino color di rosa?”.

“Degli scimmiottini ne ho veduti dimolti: ma non erano color di rosa: erano tutti di un colore verde e giallo, come la frittata cogli spinaci.”

"Questa è la sua voce!... è lui dicerto!" “Fra questi scimmiottini ne avete per caso conosciuto qualcuno che avesse nome Pipì?”

“No!... anzi, sì... Mi pare di averne conosciuto uno. Ma quel Pipì era una birba matricolata... un vero malanno.”

“Pur troppo! Figuratevi che io gli avevo fatto un monte di carezze e l'avevo perfino tenuto a cena con me, alla mia tavola... e sapete come mi ricompensò? Mi ricompensò col saltarmi agli occhi a tradimento e coll'accecarmi, come se fossi un filunguello!”

“Questo poi non lo credo.”

“Non lo credete?”

“No. Pipì era una birba: ma non aveva il cuore così cattivo da commettere una simile scelleraggine.”

“Eppure è lui che mi ha accecato.”

“No, no, no.”

“Sì, sì, sì.”

“Credetelo, Golasecca, quello che vi ha accecato non sono stato io; sarà stato Nanni, il gatto di Moccolino.”

“Ah! finalmente ti sei scoperto!”, urlò il capo-masnada, con un grugnito di feroce allegrezza.

Pipì si pentì subito della sua imprudenza: ma oramai era tardi!

“Sono bell'e morto!”, disse girando gli occhi in cerca di una finestra per poter fuggire. Quella casina disgraziatamente non aveva finestre!

Intanto Golasecca, brancolando in qua e in là con le mani, riuscì a prendere lo scimmiottino: e dopo averlo acciuffato, lo legò con una catenella di ferro e se lo pose a cavalluccio sulle spalle.

Poi uscì di casa, e prese la prima straducola che gli capitò davanti ai piedi.

“Che mi conducete a morire?”, domandò il povero Pipì con un filo di voce che si sentiva appena.

“Fra poco te ne avvedrai! A buon conto, tu che hai gli occhi buoni, mi farai da guida lungo la strada.”

“Dove volete andare?”

“Dove le gambe mi portano.”

Camminando giorno e notte, fecero un lunghissimo tragitto senza fermarsi mai: finché una bella mattina si trovarono in una grossa città posta in riva al mare, e nel cui porto brulicavano cento e cento bastimenti a vapore.

Golasecca, sedutosi sopra una panchina lungo la spiaggia, cominciò a frugarsi tutte le tasche del vestito: ma non avendovi trovato nemmeno un soldo per comprarsi un boccon di pane, si volse verso Pipì che era mezzo morto di fame e di stanchezza, e gli domandò con garbo dispettoso:

“Dimmi, brutto scimmiotto, hai saputo mai far nulla nel tuo mondo?”.

“Vale a dire?”

“Vale a dire, sai cantare qualche canzonetta? Sai sonare qualche strumento? Sai fare i salti e le capriole? Sai mangiare la stoppa accesa?”

“La stoppa accesa”, rispose Pipì, “la lascio mangiare a voi. Io, però, so ballare benissimo la polca e so rifare con la bocca il suono della tromba e del violino.”

“Mi basta questo”, disse Golasecca: e senza mettere tempo in mezzo, con quella sua vociona, che pareva una cannonata, si diè a gridare sul pubblico passeggio:

“Avanti, avanti, signori! Vedranno il celebre Scimmiottino color-di-rosa, il quale ebbe l'onore di ballare al cospetto di tutti i regnanti, nonché, viceversa, delle principali Corti di genuino emisfero. Il mio scimmiottino balla, canta, suona e fa mille altre scioccherie, come potrebbe farle un uomo e qualunqu'altra bestia ragionevole. Avanti, avanti, signori! La spesa è piccola e il divertimento è grande”.

Dopo questa parlantina calorosa, ebbe principio lo spettacolo dinanzi a un pubblico numerosissimo e, come si suol dire, molto scelto e intelligente. Il nostro amico Pipì non solo piacque, ma fece furore: tant'è vero che gli spettatori, a furia di urlare e di gridar bravo, erano rimasti fiochi e senza voce.

Dopo finito lo spettacolo e sfollata la gente che si accalcava d'intorno, Golasecca sentì toccarsi in un braccio; e voltandosi burbanzosamente, si trovò dinanzi un bel giovinetto, in abito di viaggiatore, che gli domandò con graziosa maniera:

“È vostro quello scimmiottino?”.

“È mio!... pur troppo è mio!”

“Volete venderlo?”

“Magari! Con tutto il cuore!”

“Quanto ne volete?”

“Mille lire; se vi pare un prezzo capriccioso, sono qui per accomodarmi.”

“Eccovi mille lire: e lo scimmiottino è mio.”

Quando il giovinetto ebbe pagato, si volse allo scimmiottino, dicendogli:

“Non mi riconosci più?”.

“Altro se vi riconosco, mio caro signor Alfredo!... Vi riconosco e vi voglio sempre un gran bene.”

E il povero Pipì, dalla gran contentezza che sentiva nel cuore, cominciò a piangere come un bambino.

Quella sera medesima, il giovinetto Alfredo e lo scimmiottino (rivestito tutto da capo ai piedi, s'intende bene, come un bel signore) partirono insieme, sopra un bastimento della Società Rubattino per un lungo viaggio d'istruzione.

E quanto a me, confesso il vero, non mi farebbe nessuna meraviglia se, un giorno o l'altro, vedessi annunziato nel "Giornalino dei Bambini", un racconto con questo titolo: Il Viaggio intorno al mondo, raccontato dallo Scimmiottino color di rosa. Negli annali della stampa, non sarebbe questo il primo caso di qualche scimmiotto che ha la sfacciataggine di far gemere i torchi, e, occorrendo, anche i torcolieri.

 


 

La festa di Natale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera.

Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.

Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l'Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne' sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.

La contessa passava molti mesi all'anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de' suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.

Finita l'ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!

Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati.