Anzi, quando il babbo e la mamma lo rimproverarono per aver fatto una meschina figura e per aver perduto inutilmente un anno di scuola, volete sapere come rispose?

“Che cosa fa un anno di più o un anno di meno? Sono forse un vecchio? Ho appena nove anni, e non mi manca il tempo per ricattarmi.”

Sissignori! Quel monello, quando era spinto dalla vanità di vestirsi da giovinotto, si cresceva gli anni a manciate: quando poi voleva scusarsi della poca voglia di studiare, allora, a lasciarlo discorrere, ridiventava un bambino di nove o dieci anni appena.

Per altro, trovandosi qualche volta solo, andava rimuginando col pensiero la storia burrascosa del famoso cappello a tuba, la risata delle galline per il suo golettone inamidato, gli scapaccioni avuti dal Biondo, sebbene il Biondo non sapesse la scherma, la cascata da cavallo con l'accompagnamento d'un bel corno in mezzo alla testa, e le fumate di quel sigaro traditore, che lo aveva costretto a fare i gattini... modo pulito per non dire che lo aveva costretto a rimetter fuori alla luce del sole tutta la colazione divorata con tanto gusto poche ore prima.

E ripensando a tutte queste cose, e facendo nella sua testina un piccolo calcolo a mezz'aria, venne finalmente a capacitarsi che questa vanità di atteggiarsi a giovinotto prima del tempo, gli aveva fruttato più dispiaceri, che vere consolazioni di amor proprio soddisfatto.

E giurò sul serio di voler mutar vita e di rassegnarsi oramai a rimaner ragazzo fino a tanto che il calendario non gli avesse regalato qualche anno di più.

E mantenne il giuramento per parecchi mesi.

Ebbe in questo periodo di prova molte tentazioni: ma riuscì a spuntarle, e rimase sempre padrone del campo.

Ma purtroppo una sera...

Vi racconterò quest'ultima disgrazia di Gigino, ma ve la racconterò con parole quasi allegre per non farvi piangere.

Una sera, in casa sua, c'era festa da ballo.

Gigino, non volendo sfigurare di fronte agli altri, andò per tempo a chiudersi in camera: e lì si pettinò, si lisciò, e si agghindò, come un vero figurino di Parigi. Aveva una bella camicia bianca, col goletto rovesciato, e una giacchettina di panno nero, che gli tornava a pennello.

Quando sentì che il pianoforte accennava i primi preludi della polca e della marzurka, corse subito... ma prima di entrare in sala, fece capolino alla porta e vide...

Vide un brulichio di cravatte bianche e di giubbe a coda di rondine.

La giubba a coda di rondine era stata sempre la sua gran passione, il suo sogno dorato.

Prova ne sia che una volta, essendo venuto il sarto a riportargli una giacchettina di velluto, gli domandò in tutta segretezza:

“Scusi: a questa giacchettina non si potrebbero attaccare di dietro due falde?”.

“Volendo, si può far tutte: ma le pare che la giubba sia un vestito adattato per i ragazzi della sua età?”

“Quanti anni bisogna avere per mettersi la giubba?”

“Per lo meno, diciotto o vent'anni.”

“Mi pare una bella prepotenza! Dunque, perché siamo ragazzi, dovremo sempre vestire a modo degli altri?...”

“Arrivedella sor Gigino.”

E il sarto se ne andò scrollando il capo e mordendosi i baffi.

La sera della festa da ballo, il nostro amico sentendosi rinfocolare la passione per la giubba, almanaccò col suo cervellino di grillo questo bellissimo ragionamento:

“Se mi mettessi la giubba del mio fratello Augusto?... Augusto è a Roma... e fino a lunedì non ritorna. La sua giubba mi torna benissimo... un po' larga, se vogliamo, un po' lunga... ma in mezzo a quella folla di ballerini e di ballerine, chi se ne avvede?”.

E lì, fatto un animo risoluto, entrò nella camera del fratello, prese la giubba e se la infilò.

Figuratevi quando fece la sua comparsa in sala! Scoppiò una risata, che non finiva più. Ridevano tutti: anche il pianoforte. Una signorina, fra le altre, rise tanto e poi tanto, che venne presa da un singhiozzo convulso, e fu portata fuori della sala quasi svenuta.

Allora nacque un mezzo scompiglio.

Il pianoforte smesse di suonare: le coppie che ballavano, si sciolsero: la quadriglia rimase a mezzo, e tutti si affollarono per conoscere la causa di quello svenimento.

“Povera giovinetta! Ha riso troppo! e il troppo ridere qualche volta fa male!”, dicevano alcuni.

“E il motivo di quel riso convulso?” domandavano altri.

“La giubba del sor Gigino.”

“Vediamola questa famosa giubba.”

“Vediamola davvero.”

E lì dintorno a Gigino, il quale impermalito di far da zimbello ai curiosi, dètte in uno scoppio di pianto e fuggì dalla sala come un gatto frustato.

Da quella sera in poi, Gigino, messo il capo a partito, si liberò dalla ridicola passione di vestirsi a uso giovinotto, prima del tempo.

E fece bene: perché i ragazzi, vestiti da ragazzi, figurano molto più di quel marmocchi, che hanno la pretesa di mascherarsi da omini anticipati.

 


 

Pipì.

O lo scimmiottino color di rosa

 

 

 

 

 

1. Perché a Pipì fu dato il soprannome di “scimmiottino color di rosa”

 

Nel famosissimo bosco di Vattel'a pesca, c'era una volta una piccola famigliola composta di sette scimmie: il babbo, la mamma e cinque scimmiottini alti quanto un soldo di cacio.

Questa famigliola abitava fra i rami di un albero gigantesco, in mezzo a una foresta, e pagava quindici susine l'anno di pigione a un vecchio gorilla prepotente, che si era messo in capo di essere il padrone di casa.

Dei cinque scimmiottini, quattro avevano il pelame di un colore scuro come la cioccolata; ma il quinto, invece, ossia il più piccolo di loro, fosse scherzo di natura o altro, fatto sta che era tutto ricoperto, salvo il musino, da una finissima lanugine di color vermiglio carnicino, come le foglie della rosa maggese. Ed è per questa ragione che in casa e fuori di casa lo chiamavano tutti in canzonatura col soprannome di Pipì, parola che nella lingua parlata delle scimmie, vuol dire precisamente color di rosa.

Pipì non somigliava punto né a' suoi fratelli, ne agli altri scimmiottini del vicinato.

Aveva un musino vispo e intelligente; un par di occhietti furbi, che non stavano fermi un minuto: una bocchina che rideva sempre, e un personalino asciutto e flessibile, come un gambo di giunco. Era, insomma, come suol dirsi, uno scimmiottino fatto proprio col pennello.

Vedendolo così di prim'acchito, si poteva quasi scambiarlo per un ragazzino di otto o nove anni, per la gran ragione che Pipì faceva il chiasso e i balocchi, come un ragazzo: correva dietro alle farfalle e andava in cerca di nidi, come i ragazzi: era ghiottissimo delle frutta acerbe, come i ragazzi: mangiava ogni cosa e mangiava sempre, come i ragazzi: e dopo aver mangiato ben bene, si ripuliva la bocca con le mani, come fanno i ragazzi e segnatamente i ragazzi poco puliti.

Ma la più gran passione di Pipì volete sapere qual era?

Era quella di scimmiottare tutto quello che vedeva fare agli uomini.

Un giorno, fra gli altri, mentre andava per la foresta a caccia di cicale e di grilli, vide a poca distanza un giovanetto seduto a piè d'un albero, che se ne stava tranquillamente fumando la sua pipa.

A quella vista, Pipì spalancò tanto d'occhi e rimase come incantato.

"Oh!" diceva dentro di sé "se potessi avere una pipa anch'io!... Oh se potessi anch'io farmi uscire que' bei nuvoli di fumo dalla bocca!... Oh se potessi tornarmene a casa, fumando come un camminetto acceso! Chi lo sa con che occhi d'invidia mi guarderebbero i miei quattro fratelli!"

Mentre allo scimmiottino frullavano per il capo queste bellissime cose, ecco che il giovinetto, un po' per la stanchezza e un po' per il gran bollore della giornata, lasciò andare due sonori sbadigli, e posata la sua pipa sull'erba, si addormentò.

Che cosa fece allora quel birichino di Pipì?

Si avvicinò pian pianino, in punta di piedi, al giovinetto che dormiva: e rattenendo perfino il fiato... allungò adagino adagino una zampa... prese con una velocità incredibile la pipa che era posata sull'erba... e poi, via a gambe come il vento.

Appena arrivato a casa, chiamò subito, tutt'allegro, il babbo, la mamma e i fratelli; e in presenza a loro, infilatosi quel pipone fra i labbri, cominciò a fumare con lo stesso garbo e con la stessa disinvoltura, come avrebbe fatto un vecchio marinaio.

La mamma e i fratelli, a vedergli uscir di bocca quelle nuvole di fumo, ridevano come matti: ma il suo babbo che era uno scimmione pieno di giudizio e di esperienza di mondo, gli disse in tono di avvertimento salutare:

“Bada, Pipì! A furia di scimmiottare gli uomini, un giorno o l'altro diventerai un uomo anche tu... e allora! Allora te ne pentirai amaramente, ma sarà troppo tardi!”

Impensierito da queste parole, Pipì gettò via la pipa di bocca e non fumò più.

Eppure bisogna convenire che quella pipa rubata gli portò disgrazia.

Difatti, pochi giorni dopo, Pipì venne colpito da un orribile infortunio! Lo sciagurato perdé per sempre la sua bellissima coda: una coda così bella, che bastava averla vista una volta, per non potersela mai più dimenticare.

Come andò che Pipì perdé la sua magnifica coda?

È una storia crudele e dolorosa, che fa venire le lacrime agli occhi soltanto a pensarvi; e io ve la racconterò in quest'altro capitolo.

 

 

2. Come andò che Pipì perse la sua bellissima coda

 

Bisogna dunque sapere che, appena usciti fuori di quella foresta, dove stavano di casa Pipì e la sua famigliola, si trovava subito un gran lago abitato da un vecchio coccodrillo, che contava oramai duemil'anni di vita.

Arabà-Babbà (così chiamavasi il vecchio coccodrillo), divenuto cieco degli occhi a cagione dell'età decrepita, e non potendo più guadagnarsi un boccon di pane col sudore della sua fronte, era condannato a starsene dalla mattina alla sera rasente alla riva del lago, con la testa fuori dell'acqua e con la bocca sempre spalancata, aspettando che tutti quelli che passavano di là, uomini o bestie che fossero, mossi a compassione di lui, gli gettassero in bocca qualche cosa di masticabile, tanto da non morir di fame e da tirarsi avanti almeno per un altro migliaio d'anni.

E tutti i passanti, uomini o bestie che fossero, bisogna dir la verità, non mancavano mai di fare un po' di elemosina al povero vecchio.

E anche Pipì lo soccorreva frequentemente: ma quella birba, spesso e volentieri, invece di dargli o una frutta o un pesciolino morto, si divertiva a mettergli in bocca ora una manciata di sassolini, ora un fastello di stecchi e di ortica, ora un chiodo o un arpione arrugginito, trovati per caso lungo la strada.

Ma il vecchio coccodrillo non si arrabbiava per questi scherzi sguaiati. Tutt'altro.

Risputava tranquillamente i sassolini, gli stecchi, le ortiche e i chiodi, e soltanto scoteva leggermente il capo, come per dire:

“Bada, monello! O prima o poi, una le paga tutte!...”.

Un giorno Pipì, quasi impermalito di vedere che i suoi scherzi non facevano né caldo né freddo, domandò al coccodrillo, atteggiandosi a ingenuo e a innocentino:

“Dite, Arabà: dacché siete al mondo, ne avete trovati mai degl'impertinenti, che vi abbiano fatto qualche dispetto o qualche burla sgarbata?”

“Se ne ho trovati, scimmiottino mio! Nel mondo, per tua regola, c'è più impertinenti che mosche.”

“Dite, Arabà: e quando i monelli vi fanno qualche dispetto, voi non vi risentite mai?”

“Caro mio! In tanti anni di vita ho imparato che la più gran virtù dei vecchi è quella di saper sopportare i giovani con pazienza e rassegnazione.”

“Dunque, dacché siete al mondo, non vi siete arrabbiato mai, mai, mai?”

Il coccodrillo, prima di rispondere, ci pensò un poco, e poi disse:

“Una volta sola. E sai chi fu che mi fece andare su tutte le furie? Fu uno scimmiottino, su per giù, della tua età....”

“E che cosa vi fece questo scimmiottino?” domandò Pipì, con una curiosità vivissima.

“Questo monellaccio, non saprei dirti come, era venuto a sapere che io curavo moltissimo il solletico sulla punta del naso. Allora che cosa inventò per darmi noia? Salì sopra uno di questi alberi, che circondano il lago, e, calandosi di ramo in ramo, arrivò con la punta della sua coda a farmi il pizzicorino sul naso. Figurati io! Mi trovai attaccato da una tal convulsione di riso, che durai a ridere e a ballare nell'acqua per una settimana intera! Credevo quasi di morire!”

“Davvero?... Oh povero Arabà!...”, disse Pipì con falsa compassione.

E dopo se ne andò di corsa: e a quante scimmie e scimmiottini incontrava per la strada, ripeteva a tutti ridendo queste parole:

“Volete divertirvi? volete veder ballare il vecchio Arabà? Venite domattina sul lago e io vi farò assistere a questo bellissimo spettacolo”.

La mattina dopo, come potete immaginarvelo, c'era sulla riva del lago una folla immensa.

Tutti aspettavano che Arabà ballasse il trescone.

Quand'ecco Pipì che salito sopra un albero sporgente sull'acqua, cominciò a calarsi giù di ramo in ramo, e tenendosi penzoloni per aria, si allungò e si distese tanto, da poter toccare con la punta della sua coda il naso del coccodrillo.

Ma il coccodrillo, appena sentì la coda di Pipì, chiuse la bocca e zaff... con un semplice morso dato a tempo, gliela staccò di netto fin dal primo nodello.

Lo scimmiottino cacciò un grido acutissimo di dolore: e buttandosi di sotto all'albero, si dette a scappare verso la foresta.

Arrivato vicino a casa, vi lascio pensare come rimase, quando, portandosi una mano di dietro, si accorse che la sua coda non c'era più.

La coda era rimasta in bocca al coccodrillo, che a quell'ora l'aveva bell'e digerita.

Preso dalla disperazione e vergognandosi a farsi vedere dalla sua famiglia in quello stato compassionevole di scimmiottino scodato, Pipì infilò per una viottola solitaria, camminando all'impazzata fino a notte chiusa, senza sapere neanche lui dove andasse a battere il capo.

Finalmente, non potendone più dalla stanchezza e dal sonno, si sdraiò sopra un monticello di frasche secche per riposarsi un poco.

E in quel mentre che era lì lì per appisolarsi, sentì negli orecchi una voce minacciosa, che gli gridò imperiosamente:

“Rendimi la mia pipa!...”.

Lo scimmiottino, svegliandosi tutto spaventato, voleva fuggire; ma non poté: perché in men che non si dice, si trovò preso, rinchiuso in un sacco e caricato sulla groppa di una bestia con quattro zampe, che cominciò a correre di gran carriera.

"Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?", pensava lo scimmiottino tremando dalla paura. "Se per caso è un leone, sono bell'e perduto!... Se per disgrazia è una tigre, peggio che mai!... Se è una iena o un leopardo, non c'è più scampo per me!... Oh me disgraziato! Che bestia sarà mai quella che mi porta via con tanta foga?..."

Per buona fortuna, la bestia ragliò... e allora Pipì sentì allargarsi il cuore dalla contentezza.

Quel raglio fu l'unica consolazione che avesse il povero Pipì durante il suo misterioso viaggio, rinchiuso in un sacco!

 

 

3. Pipì cade in un gran fiume e vien ripescato

 

Dopo aver camminato tre giorni e tre notti, senza prendere un minuto di riposo, finalmente la bestia che portava in groppa il sacco con lo scimmiottino dentro, si fermò tutt'a un tratto, e data una gropponata, scaricò il sacco in mezzo a una solitaria campagna.

E la gropponata fu così brusca e violenta, che il sacco, cadendo a terra, seguitò a ruzzolare sull'erba per un mezzo chilometro.