Figuratevi quante capriole dové fare, al buio, il povero scimmiottino.

Ma il momento più brutto per lui fu quando si provò a rompere il sacco per uscir fuori.

Adoperò gli unghioli, e non concluse nulla: adoperò i denti, e nulla. Rifinito allora dallo strapazzo e dalla fame, cominciò a piangere come un bambino.

“Chi è che piange?”, domandò un grosso topo, che passava per caso da quella parte.

“Sono io!... sono un povero scimmiottino che muore di fam...”

Ma non poté finire la parola, perché gli fu troncata a mezzo da un lunghissimo e sonoro sbadiglio, che gli scappò di bocca.

“Esci fuori, e mangerai.”

“Si fa presto a dire esci fuori: ma la vuoi intendere che non posso uscire?”

“Perché?”

“Perché non mi riesce di rompere il sacco.”

“Lascia fare: il sacco lo romperò io.”

Detto fatto, il topo si distese lungo sull'erba, e cominciò a rosicchiare con quanta forza aveva ne' denti.

Ma il sacco non cedeva, perché era più duro del cuoio.

“Quanto tempo ti ci vorrà per bucarlo?”, domandò lo scimmiottino.

”Il sacco resiste: ma in quattro o cinque mesi spero di averlo bucato!”

“Cinque mesi?”, strillò di dentro il povero Pipì, “ma dopo cinque mesi troverai nel sacco appena i miei ossi e i miei unghioli!...”

E ricominciò a piangere più forte che mai.

“Chi è che piange?”, domandò un vitello, che pascolava lì vicino.

“È un disgraziato scimmiottino, che non può uscire di dentro da quel sacco”, rispose il topo.

“Perché non può uscire?”

“Perché il sacco è così duro, che non c'è verso di romperlo.”

“Lascia fare a me, che con un cozzo delle mie corna, lo sfonderò, come se fosse fatto di foglie di lattuga.”

E il vitello, senza stare a dir altro, si tirò indietro; e presa la rincorsa, andò a testa bassa a battere una terribile cornata nel sacco.

“Ohi! son morto!...”, gridò di dentro il povero Pipì: e non disse altro.

Intanto il sacco, a quell'urto screanzato, riprese di nuovo a ruzzolare per terra, come una vescica piena d'aria: e il topo e il vitello a corrergli dietro per fermarlo: e il sacco via... ruzzolava sempre più lesto... e il topo e il vitello a rincorrerlo a salti e con la lingua di fuori.

E dopo aver corso una giornata intera, e, quando erano proprio lì lì per raggiungerlo, il sacco fece altri due ruzzoloni e giù... cadde in un fiume così profondo e così largo, che non si vedevano le sponde da una parte all'altra.

La mattina dopo alcuni pescatori bussarono alla porta di un bel palazzo, e al servitore che veniva ad aprire, chiesero premurosamente:

“È alzato il padroncino Alfredo?”

“Il padroncino”, rispose il portiere, “è nella sala terrena, che prende il caffè e latte.”

“Avvisatelo, che stamani all'alba abbiamo pescato nel fiume il famoso sacco...”

“Che cos'è mai questo sacco?”

“Gli è quello che il padroncino aspetta da parecchi giorni.”

Appena il portiere ebbe fatta l'imbasciata, tornò in un attimo sulla porta e disse ai pescatori:

“Passate subito.”

I pescatori entrarono col sacco sulle spalle, e giunti alla presenza del padrone, lo posarono delicatamente sul pavimento.

“Apritelo!”, disse il giovinetto Alfredo.

“È impossibile, signor padrone. Ci siamo provati a sfondarlo con gli scalpelli, con le scuri e co' trapani... ma il sacco è più duro del macigno.”

“Prendete questo spillo, e bucatelo.”

E nel dir così, il giovinetto Alfredo si levò dal fazzoletto da collo uno spillo d'oro, sormontato da una grossa perla, sulla quale (cosa singolarissima!) si vedeva dipinta la testa di una bella bambina coi capelli turchini.

I pescatori presero lo spillo in mano, e guardandosi fra loro stupefatti, pareva che volessero dire: "Com'è possibile che con questo spilluccio d'oro si possa forare un sacco, che ha resistito ai trapani e agli scalpelli?".

“Bucate subito quel sacco” ripeté Alfredo con voce di comando.

I pescatori, per atto di ubbidienza, si chinarono, provandosi a infilare la punta dello spillo: e immaginatevi quale fu la loro meraviglia, quando si accorsero che lo spillo entrava con tanta facilità, come se il sacco fosse stato di polenta o di panna montata.

Appena bucato leggermente, il sacco si aprì in due parti, e lasciò vedere un povero scimmiottino, tutto malconcio, che dava appena gli ultimi segni di vita.

Alfredo prese lo scimmiottino in collo e gli bagnò la bocca con un po' di latte tiepido.

A poco per volta Pipì si riebbe ed aprì la bocca. Allora Alfredo gli pose in bocca una pallina di zucchero e un crostino imburrato.

Pipì inghiottì il crostino e lo zucchero, senza far nemmeno l'atto di masticarli.

Poi aprì gli occhi e li fissò negli occhi di quel simpatico giovinetto, che aveva per lui tante cure e tante attenzioni: e pareva quasi che volesse ringraziarlo.

Alla fine, quando a furia di latte, di crostini e di palline di zucchero, Pipì ebbe ripreso tutte le sue forze, allora saltò in terra, e stando ritto sulle gambe di dietro, cominciò a coprir di baci la mano del suo piccolo benefattore.

I pescatori, tutta gente d'ottimo cuore, commossi a questa scena, facevano i luccioloni e si rasciugavano gli occhi: ma il padroncino Alfredo disse loro:

“Andate alle vostre faccende e chiudete la porta di sala: ho grandissimo desiderio di parlare a quattr'occhi con questo scimmiottino”.

 

 

4. Pipì diventa l'amico del giovinetto Alfredo

 

Quando Alfredo e Pipì si trovarono soli, cominciarono a guardarsi l'uno con l'altro, senza fiatare e senza fare il più piccolo gesto.

E si guardarono per un pezzo.

Alla fine Alfredo, non potendo più star serio, dette in una gran risata: e lo scimmiottino fece altrettanto.

E risero tutt'e due sgangheratamente, senza sapere il perché, come ridono i ragazzi un po' giuccherelli, quando si lasciano prendere dalle convulsioni del riso.

Sfogati che si furono, Alfredo disse allo scimmiottino:

“Come ti chiami di nome?”

“Pipì.”

“E il tuo casato?”

Lo scimmiottino ci pensò un poco; e poi, grattandosi lesto lesto il capo, rispose:

“Pipì senza casato.”

“Quanti anni hai?”

“Sono il più piccino de' miei fratelli.”

“E i tuoi fratelli che età hanno?”

“Sono più giovani del babbo e della mamma.”

“Ho capito tutto”, disse il giovinetto ridendo. Poi gli domandò:

“E la coda dove l'hai lasciata?”

“Non lo so.”

“Come non lo sai?”

“L'avrò perduta per la strada! Sono così scapato!...”

“Eh via! ti par possibile che uno scimmiottino possa perdere la coda per la strada?”

“Allora vuol dire che l'avrò lasciata a casa. Sono partito con tanta fretta, che non ho avuto il tempo di vedere se avevo preso con me tutto il bisognevole.”

“Dimmi Pipì; le dici mai le bugie?”

“Qualche volta... specialmente quando mi vergogno a dire la verità...”

“Ti fa torto: le bugie non vanno dette mai.”

“Non le dirò più.”

“Raccontami dunque la verità. Com'è che hai perduta la coda?”

Pipì, invece di rispondere, cominciò a strofinarsi gli occhi, poi disse piangendo:

“Me... l'hanno... mangiata!...”.

“E chi te l'ha mangiata?”

“Arabà-Babbà, un coccodrillaccio, che mangerebbe anche il fuoco!...”

“E come avvenne che te la mangiò?”

“Io volevo fare il chiasso... e lui fece per davvero.”

“Oh povero Pipì!”

“E che bella coda! Una coda, lo creda, signore... Come si chiama lei?”

“Alfredo.”

“E il casato?”

“Alfredo senza casato.”

“Lo creda, signor Alfredo senza casato, una coda che faceva gola soltanto a vederla. Quella coda era tutto il mio patrimonio.”

“E perché sei scappato di casa?”

“Non sono scappato... mi hanno chiuso in un sacco e mi hanno portato via.”

“E ora che cosa pensi di fare?”

“Qualche cosa farò. Io mi accomodo a tutto.”

“Per esempio?”

“Io mi contento di poco. A me mi basta di mangiare, di bere e di andare a spasso. Non domando nulla di più.”

“Sei discreto davvero! Ma chi ti darà da mangiare?”

“Io confido in lei.”

“Perché no? Io son pronto a darti da mangiare: a patto però che tu sappia guadagnartelo. Sei avvezzo a lavorare?”

“Se debbo dir la verità, invece di lavorare, io mi diverto molto più a veder lavorare gli altri.”

“Vuoi prendere il posto di mio cameriere?”

“Si figuri!”, rispose Pipì, stropicciandosi insieme le due zampine davanti per la grande allegrezza.

“Fra pochi giorni”, rispose il giovinetto Alfredo, “io partirò per fare un lungo viaggio. Durante questo viaggio, vuoi tu essere il mio cameriere, il mio compagno di avventure?”

“Si figuri!”

“A colazione ti darò ogni mattina cinque pere, cinque albicocche e un bel cantuccio di pan fresco: ti piace il pan fresco?”

“Si figuri!”

“A desinare mangerai alla mia tavola, e ti farò portare un piatto di pesche, di susine e di albicocche: ti piacciono le albicocche?”

“Si figuri!”

“A cena mangerai otto noci e quattro fichi dottati: ti piacciono i fichi dottati?”

“Si figuri!”

“Tutte le volte poi che farai qualche balordaggine o qualche cattiveria, allora con questo frustino ti affibbierò una carezza sulle gambe: ti piacciono le carezze fatte col frustino?”

“Mi piacciono di più i fichi dottati”, mugolò Pipì grattandosi il capo con tutt'e due le zampe.

“Accetti dunque i miei patti?” domandò Alfredo.

“Accetto tutto... fuori però che quelle carezze...”

“Anche le carezze col frustino: se no, vattene!...”

“Ma le carezze... me le affibbierà adagino... senza farmi male... non è vero?”

“Te le affibbierò secondo i tuoi meriti. Dunque?...”

“Dunque fin da questo momento, io sono il suo cameriere, il suo segretario e il suo compagno di viaggio.”

Allora Alfredo andò verso la tavola e sonò un campanello d'argento. A quella chiamata si presentò il solito servo sulla porta.

“Fate passare subito il sarto, con la paniera di tutto il vestiario.”

Il servo uscì: e dopo due minuti entrò il sarto con la paniera.

“Vestitemi quello scimmiottino con la livrea di mio cameriere”, disse Alfredo.

Il sarto, senza farselo ripetere, prese dalla paniera due scarpine scollate di pelle lustra, con un bel fiocchetto di seta sul davanti e le calzò in piedi a Pipì.

Poi gl'infilò un paio di calzoncini rossi da legarsi al ginocchio: e dal ginocchio in giù gli abbottonò un paio di piccole ghette color di uliva fradicia.

Poi gli avvolse intorno al collo un fazzoletto bianco, inamidato e stirato a uso cravatta: lo aiutò a infilarsi una sottoveste di panno giallo e una giubbettina a coda di rondine, di panno nero, che gli tornava una pittura: e finalmente gli accomodò in testa un cappellino a cilindro, col suo bravo brigidino da una parte, come hanno tutti i camerieri dei grandi signori.

Quando Pipì fu vestito tutto da capo ai piedi, Alfredo gli disse:

“Su, da bravo, vieni qua da me e va' a guardarti in quello specchio”.

Lo scimmiottino si mosse franco e spedito; ma non essendo avvezzo a portare le scarpe, fece un bellissimo sdrucciolone e cadde lungo disteso.

Figuratevi le risate di Alfredo e del sarto.

Il povero Pipì faceva di tutto per rizzarsi, ma non gli riusciva.