Puntava con sforzi inauditi i piedi in terra, ma i piedi scivolavano sui mattoni inverniciati: ed era subito un'altra musata battuta sul pavimento.
Alla fine si rizzò: e toccandosi il naso che era tutto sbucciato, disse piangendo al padroncino:
“Io... con le scarpe non so camminare... Io voglio andare scalzo”.
“Fatti coraggio”, disse Alfredo, “con un po' di pazienza ti avvezzerai anche alle scarpe. In questo mondo ci si avvezza a tutto.”
“Ma io ci patisco troppo.”
“Pazienza! In questo mondo ci si avvezza anche a patire, diceva il mio babbo. Su, su: vieni a guardarti allo specchio.”
Lo scimmiottino si mosse una seconda volta: ma camminava a sentita, con passo di formica, pianin pianino, come se avesse camminato sulle uova.
Giunto dinanzi allo specchio, diè appena una prima occhiata a volo; e tiratosi indietro spaventato, cominciò a strillare disperatamente:
“Oh come sono brutto!... Oh povera mamma mia, come hanno sciupato il tuo scimmiottino!... Non sono più io!... Non sono più Pipì!... Mi hanno vestito da uomo... e sono diventato un mostro da far paura. Non voglio più star qui: voglio andarmene... voglio tornarmene a casa mia. Non voglio più questi vestitacci; no, no, no!...”.
E, gridando e avvoltolandosi per terra, si levò le scarpe e le buttò nel camminetto: tirò il cappello sul viso del sarto, si strappò il fazzoletto bianco dal collo: e spiccato un gran salto, uscì fuori dalla finestra e si dette a correre per i campi.
Povero Pipì! correva e correva: ma non aveva ancora fatto cento passi, che sentì afferrarsi per i calzoncini dalla parte di dietro, e si trovò sollevato da terra, in bocca a un grosso cane di Terranuova.
5. Pipì promette all'amico Alfredo di accompagnarlo in un lungo viaggio, ma promette, senza credersi obbligato a mantenere
Il cane di Terranuova era uno di quei cani pasticcioni, intelligenti, amorosi, che si affezionano al padrone, come l'amico all'amico.
Non gli mancava altro che la parola per essere quasi un uomo. Di soprannome lo chiamavano Filiggine, a motivo del suo pelame nero morato, come la cappa del camino.
Quando Alfredo si accorse che Pipì tirava a scappare, fece un fischio a Filiggine: e Filiggine, in quattro salti, raggiunse lo scimmiottino, e presolo, come già s'è detto, per i calzoncini dalla parte di dietro, lo riportò pari pari in casa del padrone.
“Perché volevi scappare?”, gli domandò Alfredo in tono di rimprovero.
“Perché... perché...”
“Su, su! Rispondi con franchezza.”
“Perché io voglio tornare a far lo scimmiottino insieme col mio babbo, con la mia mamma e coi miei fratelli... e non voglio mascherarmi da uomo...”
“E allora perché, poco fa, hai accettato di essere il mio compagno di viaggio?”
“Perché credevo che fosse una cosa... e invece è un'altra.”
“Vuoi dunque proprio andartene?”
“Anche subito... Ma lei mi faccia il piacere di non mandarmi dietro quel solito canaccio nero... perché se no, Filiggine, dopo cinque minuti, mi riporta di peso in questa stanza.”
“Non aver paura. Filiggine senza il mio comando, non si muove di qui. E quanto sei lontano da casa tua?”
“Dimolti, ma dimolti chilometri.”
“E prima di metterti in viaggio, non senti bisogno di mangiar qualche cosa?”
A dirla schietta, lo scimmiottino non aveva l'ombra della fame: ma tentato dalla sua gran ghiottoneria, rispose abbassando gli occhi e facendo finta di vergognarsi:
“Un bocconcino lo mangerei volentieri...”.
Alfredo sonò il campanello d'argento, e il servo portò in tavola un cestino pieno ricolmo di bellissime pesche.
Lo scimmiottino non le mangiò, ma le divorò in un baleno.
Dopo le pesche, vide presentarsi un canestro di ciliegie così grosse, così mature e così rilucenti, che facevano venire l'acquolina in bocca soltanto a guardarle.
Pipì se le sgranocchiò tutte, a tre e quattro per volta: ma non volendo passare per uno scimmiottino ineducato, lasciò nel canestro i nòccioli, le foglie e i gambi.
Quando si sentì pieno fino agli occhi, allora si alzò da tavola, e fatta una bella riverenza, disse al padroncino di casa:
“Arrivedella signor Alfredo: scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia.”
“Addio, Pipì. Fa' buon viaggio, e tanti saluti a casa.”
Lo scimmiottino si avviò per andarsene: ma in quel mentre vide entrare il cameriere con un paniere di frutta, che mandavano un odorino da far resuscitare un morto.
“E quelle che frutta sono?”, domandò, tornando due passi indietro.
“Quelle son nespole del Giappone”, rispose Alfredo. “Le avevo fatte preparare per la tua cena di stasera.”
Pipì rimase un po' pensieroso: e poi disse:
“Pazienza!”. E fattosi un animo risoluto, si avviò di nuovo per partire.
Giunto però sulla porta di sala, si trattenne alcuni minuti. Quindi, volgendosi al giovinetto, gli chiese:
“Scusi, signor Alfredo, che ore sono?”
“Mezzogiorno preciso.”
“Mezzogiorno?... A dir la verità, mi pare un po' tardi per mettersi in viaggio.”
“Tutt'altro che tardi. Ti restano ancora sette ore di giorno chiaro, e in sette ore si fa dimolta strada.”
“Ha ragione e dice bene. Dunque arrivedella, signor Alfredo, scusi tanto l'incomodo e mille grazie della sua cortesia.”
E questa volta partì davvero. Ma dopo un quarto d'ora Alfredo se lo vide ricomparire in sala, tutto ansante e trafelato.
“Che cosa c'è di nuovo?”, gli domandò il giovinetto.
“C'è di nuovo”, rispose Pipì, “che questo sole sfacciato mi dà una gran noia e mi fa abbarbagliare gli occhi. Non potrebbe, di grazia, prestarmi un ombrellino di tela da pararmi il sole?”
“Volentieri.”
Alfredo chiamò il cameriere: e il cameriere portò subito un grazioso parasole, dipinto con grandi fogliami di bellissimi colori azzurri e verdi.
Pipì prese l'ombrellino, l'aprì, e cominciò a girare intorno alla stanza, dando continuamente delle lunghissime occhiate al canestro delle nespole giapponesi.
“Amico mio”, disse allora Alfredo, “se indugi un altro poco, farai notte senza avvedertene, e ti toccherà a viaggiare al buio.”
“Io di giorno non so camminare”, rispose Pipì.
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