A buon conto prima di partire per questo gran viaggio, voglio rivedere la mia mamma e i miei fratellini.”
Detto fatto, montò sulla finestra, e spiccando un gran salto, si buttò di sotto. Allora si sentì un tonfo, come quello di un grosso pietrone cascato in un fosso pieno d'acqua e di mota.
“Babbo mio, aiutatemi, se no son morto!” grido Pipì con urlo disperato.
Che cos'era avvenuto?
Era avvenuto che la terra di quel campo, a cagione delle grandi piogge dei giorni precedenti, era così rammollita e fangosa, che lo scimmiottino, cadendovi sopra, vi era rimasto affondato fino alla gola.
Per buona fortuna suo padre fece in tempo a salvarlo: ma quando Pipì uscì fuori dal pantano, non aveva più in piedi gli stivaletti. Gli stivaletti erano rimasti seppelliti un metro sotto terra.
“Pazienza!”, disse ridendo. “Me ne ricomprerò un altro paio, prima di montare sul bastimento.”
E senza stare a perder tempo, babbo e figliolo presero una viottola lungo il campo, e cominciarono a correre. Ma non avevano ancora fatto venti passi, che Pipì sentì volarsi al disopra della testa un uccello notturno, il quale con una beccata gli portò via il berrettino da viaggio.
“Uccellaccio del mal'augurio, rendimi subito il mio berretto”, urlò lo scimmiottino.
“Cucù!”, fece l'uccello, e continuò il suo volo.
“Pazienza! Mi ricomprerò un altro berrettino prima di montare sul bastimento.”
E babbo e figliolo ripresero a correre: ma sul più bello, un grosso pruno uscito dalla siepe, afferrò co' suoi spunzoni i calzoncini e il giubbettino di Pipì, e li ridusse in minutissimi stracci.
“Ora eccomi qui senza calzoni e senza giubbettino!...”
“Pazienza!”, gli disse il suo babbo. “Te li ricomprerai prima di montare sul bastimento.”
“Oh povero me! povero me!”, gridò lo scimmiottino simulando un gran dispiacere. “Di tutto il mio bel vestiario da viaggio, non mi è rimasto altro che la camicia e il fazzoletto da collo.”
E nel dir così, fece l'atto di cercarsi la camicia, ma invece della camicia si trovò addosso un camiciotto di foglie d'ortica. Tastò con le mani per accertarsi se almeno il fazzoletto da collo c'era sempre, ma invece del fazzoletto sentì sgusciarsi fra le dita una serpe grossa come un'anguilla di mare.
7. Pipì comincia a pentirsi di aver mancato alla sua promessa
Il povero Pipì, nel toccar quella serpe, che si trovò avvoltolata al collo invece della cravatta, fu preso da uno spavento indicibile.
Avrebbe voluto urlare, ma la lingua gli era rimasta appiccicata al palato: avrebbe voluto correre e fuggir via, ma le gambe gli facevano giacomo-giacomo, ossia gli ciondolavano avanti e indietro, tale e quale come se fossero le gambe d'un morto, che si fosse provato a camminare.
Alla fine, non potendosi più reggere in piedi, si lasciò cascare per terra come un cencio, dicendo con un fil di voce:
“Muoio!...”.
“Che cosa ti senti?”, gli domandò suo padre, tutto sgomento.”
“Un gran male!...”
“E dove lo senti?”
“In tutta la persona.”
“E che male sarebbe?...”
“Il male della paura!...”
“Un gran brutto male, bambino mio: l'unico male per il quale i medici non abbiano saputo trovare ancora una medicina. Prova a farti un po' di coraggio...”
“Ho provato.”
“E ora come ti par di stare?”
“Peggio di prima.”
“Ma qual è la cagione di tutto questo spavento?”
“Una gran disgrazia, babbo mio, sta per cascarmi addosso!”
“E come fai a saperlo?”
“Ho avuto, in pochi minuti, troppi indizi... troppi segnali. Vi ricordate i miei stivaletti nuovi rimasti affogati nella mota? E il giubbettino e i calzoni fatti in pezzi da quel dispettosaccio di pruno? E la camicia di tela fina diventata, tutt'a un tratto, di foglie di ortica? E quella brutta serpe, che or ora mi è scappata di mano? Eccola sempre lì, eccola sempre lì!... Guardatela!...”
“Chi?”
“La serpe...”
Il babbo di Pipì si voltò a guardare verso il punto indicato, e vide difatti in mezzo alla profonda oscurità della notte, una grossa serpe, che risplendeva tutta di vivissima luce rossa, come se fosse stata una serpe di cristallo, con in corpo un lampione acceso da tranvai.
La serpe, stando a collo ritto, teneva i suoi occhi fissi in quelli dello scimmiottino.
“Che cosa vuoi da me?”, gli domandò Pipì, facendosi un coraggio da leone.
“Vengo a portarti i saluti del signor Alfredo”, rispose la serpe.
“Povero signor Alfredo!... È forse partito per il suo viaggio?”
“È partito pochi minuti fa, e mi ha raccontato che tu avevi promesso di accompagnarlo.”
“È vero, è vero, è vero!... Domani forse partirò anch'io e spero di poterlo raggiungere in alto mare.”
“Speriamolo davvero! A buon conto, ricordati, scimmiottino mio bello, che quando si promette una cosa, bisogna mantenerla! Hai capito?”
Appena dette queste parole, la serpe sparì nel buio della notte e non si vide più.
Allora Pipì, tormentato in cuore da una specie di rimorso, fu quasi sul punto di dire addio a suo padre e di prendere la strada più corta, che menava alla spiaggia del mare: ma mentre stava lì per decidersi, vide lontano lontano alcune fiaccole accese, che si movevano in qua e in là, e sentì una musica allegra di pifferi, di tamburi e di mandolini.
“Che cos'è quella musica e quei lumi?”, domandò tutto meravigliato.
“Come? Non ti riesce d'indovinarlo?”
“No.”
“Sono i tuoi fratellini, che vengono a incontrarti con la fiaccolata e a suon di banda!...”
“Oh che piacere! Oh che bello spettacolo! Corriamo, babbo, corriamo...”
E tutti e due si dettero a correre lungo la viottola: e Pipì, che aveva riacquistata in un attimo la forza delle sue gambine svelte e sottili, non solo correva, ma si sarebbe detto che volava come un uccello.
E ora chi mi dà le parole adatte per descrivere la scena del primo incontro? Credetelo a me: fu una scena così affettuosa e commovente, che è impossibile immaginarsela senza averla veduta coi propri occhi. Basti dire che l'allegrezza dei quattro fratelli nel rivedere il loro fratellino minore, che oramai credevano perduto per sempre, fu così tempestosa e smodata, che gli saltarono addosso tutti insieme e ci corse poco che non lo soffocassero sotto un diluvio di baci, di abbracciamenti e di carezze.
Quand'ebbero sfogati gli affetti del loro cuore, cominciarono a strillare in coro: curacà! curacà! curacà! (nel dialetto familiare delle scimmie bisogna sapere che curacà vuol dire: a cena! a cena! a cena!). Detto fatto, si posero seduti per terra intorno a una gran cesta di pesche, di albicocche e di fichi d'India, e lì, ridendo, grattandosi e facendo con la bocca mille smorfie e mille versacci in segno di grande esultanza, mangiarono a più non posso, come se fossero digiuni da due settimane.
E non solo mangiarono, ma bevvero allegramente: e bevvero un certo liquore spiritoso, fatto d'uva rossa strizzata, che somigliava come due gocciole d'acqua al nostro vino. E ne bevvero così a spugna, che dopo mezz'ora, dormivano tutti e russavano come tante marmotte.
Quand'ecco che, sul più bello del sonno, furono svegliati da un'orribile voce che gridò: “Guai, a chi si muove!...”.
8. Il terribile assassino Golasecca e i suoi compagni. Golasecca si mette in tasca il povero Pipì e lo porta via
Lascio ora pensare a voi come rimanessero, quando, balzando in piedi e spalancando gli occhi, si videro circondati da una masnada di brutti figuri, neri come l'inchiostro e tutti armati di sciabole e di bastoni.
“Pover'a noi, siamo bell'e morti!”, gridarono gli scimmiottini.
“Che morti e non morti?”, replicò Pipì. “Per vostra regola, a morire c'è sempre tempo.”
“Ma chi saranno quei ceffi affumicati?”, domandò un di loro.
“Ci vuol poco a indovinarlo: saranno assassini” rispose un altro.
“E che cosa vogliono da noi?”
“Ci vorranno derubare.”
“Derubare?”, disse Pipì, ridendo. “Scusate, miei cari fratelli: quanti quattrini avete?”
“Nemmen'uno.”
“Allora il più ricco di tutti sono io...”
“O tu quanto hai?”
“A me”, rispose Pipì, “mi mancano solamente cinque centesimi per fare un soldo.” Poi continuò, grattandosi il naso: “Che assassini originali! Nessuno di loro ha il coraggio di farsi avanti”.
E diceva la verità.
Difatti, tutti que' brutti figuri, che riuniti assieme formavano una specie di cerchio, se ne stavano lì ritti impalati, senza fare un gesto, senza batter occhio, senza brontolare una mezza parola.
Allora Pipì, avanzandosi in mezzo, disse con bella maniera:
“Scusino, signori assassini; che ci farebbero il piacere di lasciarci passare?”.
Nessuno rispose: nessuno fiatò.
“Grazie tante della loro cortesia”, soggiunse lo scimmiottino. “Debbono dunque sapere che noi siamo una povera famiglia: il babbo, la mamma, e cinque figlioli, e vorremmo tornare a casa nostra: che si contentano lor signori?”
Al solito, nessuna risposta.
“Ho capito: e grazie tante della loro cortesia. Su, babbo, da bravo! Poiché questi signori sono contenti, spiccate un bel salto, e passando loro di sopra al capo, andate ad aspettarci sulla strada.”
Lo scimmione fece il salto: e dopo lui, lo fece la moglie: poi i quattro figlioli.
“Ora tocca a me”, disse Pipì, che era rimasto solo in mezzo al cerchio formato dagli assassini: ma quando fu sul punto di prendere la rincorsa e di slanciarsi... che è, che non è... tutti quegli assassini diventarono così lunghi e così alti, che parevano tanti campanili.
“Pipì! Pipì!”, gridavano di fuori i suoi fratelli, chiamandolo con urli disperati.
Ma il povero scimmiottino non aveva più fiato di rispondere.
“Che cosa pensi di fare?”, gli domandò allora il capo della masnada, uscendo finalmente dal suo ostinato silenzio.
“Penso di tornarmene a casa mia...”
“T'inganni, povero Pipì! Tu non tornerai a casa.”
“Pazienza! Resterò qui.”
“Nemmeno: tu verrai con me...”
“Con lei?... Neanche se mi fa legare...”
“Tu verrai con me.”
“Neanche se mi regala cento panieri di ciliegie.”
“Tu verrai con me.”
“Neanche morto!”
Il capo della masnada, senza aggiungere altre parole, si chinò, e preso il povero scimmiottino per la collottola, se lo pose nella tasca della sua casacca. Poi abbottonò la tasca con tre bottoni, che parevano tre ruote da carrozza.
“Ora possiamo andare”, disse ai suoi compagni: e tutti insieme si avviarono verso la strada maestra.
È impossibile ridire la disperazione, i pianti e gli urli dei fratellini di Pipì. Lo chiamavano con acutissime grida: ma non ebbero altra consolazione che quella di vedere le zampettine del povero scimmiottino, che uscivano fuori dalla tasca del capomasnada, e si movevano con una lestezza vertiginosa, come se volessero raccomandarsi e chiedere aiuto.
9. All'Osteria delle Mosche.
Quando gli assassini si furono allontanati una ventina di chilometri, il terribile Golasecca (era questo il soprannome del capo-masnada) si fermò in mezzo a un campo e, voltandosi ai suoi compagni, disse loro con una vociaccia roca, che pareva il brontolio d'un tuono lontano:
“Ora potete ritornarvene alla Capanna Nera. Aspettatemi là, e fra quattro o cinque giorni ci rivedremo”.
“Scusate, maestro”, gli domandò uno di quei brutti ceffi, “avete pensato a portare con voi qualche cosa da mangiare?”
“Non ho portato nulla.”
“Male! E se per la strada vi viene un po' d'appetito?”
“Pazienza! Se non trovo altro, mi rassegnerò a mangiare questo scimmiottino, che ho qui in tasca.”
Il povero Pipì, udendo tali parole, cominciò dalla passione a grattarsi il naso e gli orecchi.
“Ma se voi mangiate lo scimmiottino”, riprese il solito brutto ceffo, “che cosa vi dirà la Fata dai capelli turchini?”
“La Fata non potrà farmi nessun rimprovero: perché io le ho promesso di portarglielo vivo o morto. In ogni caso se mi verrà voglia di mangiarmelo per la strada, serberò intatta la pelle, perché la Fata possa vederla con i propri occhi e accertarsi così che ho adempito lealmente i suoi comandi.”
“Avete ragione, maestro. Dunque buon viaggio e sollecito ritorno.”
Appena gli assassini ebbero preso congedo dal loro condottiero, si attaccarono sotto le braccia delle grandi ali di tela incerata e, spiccato il volo, si alzarono in aria con grandissimo fracasso, come un branco di corvi spaventati.
Golasecca, rimasto solo, seguitò il suo viaggio attraverso ai campi, ai fiumi, e alle boscaglie, senza fermarsi mai, mai, mai!
Dopo aver camminato due giorni e due notti, sentì uscire dalla tasca della sua giacca una vocina soffocata, che pareva venisse di sottoterra, la quale disse con tono di piagnisteo:
“Ho fame!...
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