Ho tanta fame!”.
Golasecca, invece di rispondere, si accarezzò la sua lunghissima barba di caprone, e raddoppiando il passo, tirò diritto per i fatti suoi.
Ma dopo pochi minuti, ecco la solita vocina, che diceva raccomandandosi:
“Sor assassino, che mi darebbe un chicco d'uva, o una ciliegia, o anche una mezza pera solamente? Sono digiuno da tanti giorni, e sento che lo stomaco mi va via. Lo creda, sor assassino, ho una fame così grande, che la vedo anche al buio!...”.
“Se hai fame”, rispose Golasecca, ridendo di un riso sguaiato e canzonatore, “fruga nella mia tasca, e ci troverai tante ghiottonerie, da prendere un'indigestione.”
“Sono tre giorni che frugo: ma non mi riesce di trovarci nulla.”
“Allora mangia la fodera della mia tasca.”
“La prima fodera l'ho bell'e mangiata: la seconda è troppo dura e non mi riesce di roderla.”
“L'hai mangiata davvero?”, urlò Golasecca, andando su tutte le furie. “Brutto scimmiottino! Lasciami arrivare all'Osteria delle Mosche, e non dubitare che aggiusteremo i nostri conti!...”
Intanto si era fatto notte.
E che notte orribile e indiavolata! Il cielo appariva tutto coperto di nuvoloni; lampeggiava e tonava: e gli alberi della foresta, sbatacchiati da un violentissimo vento, si divincolavano, cigolavano e urlavano, come tante anime disperate.
A mezzanotte in punto, Golasecca arrivò dinanzi all'Osteria delle Mosche: ma l'osteria era chiusa.
Picchiò alla porta una volta, due volte, tre volte: e nessuno rispose.
Allora, con quanto fiato aveva ne' polmoni, si diè a gridare:
“Apri, Moccolino!... Apri!... Sono io!”.
Moccolino era il nome dell'oste; e tutti lo chiamavano così, perché a cagione della sua figura sottile sottile, lunga lunga, e sbiancata sbiancata, somigliava tale e quale a un moccolino di cera gialla.
La sua osteria stava aperta solamente di giorno. Appena si faceva notte, Moccolino a scanso di seccature e di dispiaceri, chiudeva prudentemente la porta, spengeva il fornello e i lumi e se ne andava a letto.
E una volta entrato a letto, non apriva più a nessuno, anche se fosse rovinato il mondo. Dato il caso che qualche disgraziato, smarritosi di nottetempo nella foresta, avesse bussato all'osteria, Moccolino non se ne dava per inteso: o dormiva o faceva finta di dormire.
Quando Golasecca si accorse che l'oste, prendendosi gioco di lui, si ostinava a non volergli aprire, che cosa fece? Cominciò a distendere le braccia e le gambe, e a furia di distendersi e di allungarsi, diventò di una statura così alta e gigantesca, che il tetto dell'osteria gli arrivava appena a mezza vita.
Allora, lavorando con tutte e due le mani, si dette a scoperchiare il tetto; e i mattoni, gli embrici e i tegoli volavano via, come foglie portate dal vento.
Moccolino, impaurito da tutto quel fracasso infernale, cacciò il capo fuori delle lenzuola, e fingendo di essersi svegliato lì per lì, gridò con voce tremante:
“Chi è che mi chiama?”
“Sono io”, rispose Golasecca, piegandosi e infilando il capo dentro la buca che aveva aperta nel tetto.
Per l'appunto questa buca rispondeva nella stanza dove dormiva l'oste, il quale sentì gelarsi il sangue, quando al fioco chiarore del lumino da notte, vide affacciata al soffitto della sua camera la minacciosa ghigna del terribile capo-masnada.
“Che cosa volete da me, maestro Golasecca?”, domandò Moccolino, che dallo spavento non aveva più fiato in corpo.
“Che cosa voglio?... Voglio prenderti per un ciuffo dei capelli e scagliarti lontano mille miglia.”
“Deh! non lo fate!... Abbiate pietà di me.”
“Non meriti pietà.”
“Abbiate almeno pietà del mio bambino. Povero Guiduccio! Se rimanesse solo in questa casa, me lo mangerebbero i lupi.”
“No, no... io non voglio essere mangiato... dai lupi”, disse fra il sonno il figlioletto dell'oste, che dormiva nella stessa camera del babbo, in un lettino a parte.
Alle parole di quel bambino, Golasecca mutò fisonomia: e preso un tono di voce un po' più umano, disse all'oste:
“Su da bravo! Salta subito il letto e preparami da cena.”
Moccolino ubbidì alla prima: ma era tanta la paura e la confusione che aveva addosso, che non sapeva nemmeno lui come fare a vestirsi. Credé di aver preso le calze, e invece si ostinava a infilare i piedi nel berretto da notte. Accortosi dell'errore, si messe le scarpe, e sopra alle scarpe infilò le calze. Poi infilò la giacchetta, e sulla giacchetta la camicia, e sulla camicia la sottoveste, finché trovandosi in mano i calzoni e non rammentandosi più a che cosa servivano, li ripiegò perbene e li chiuse dentro l'armadio.
Scese quindi al pianterreno e aprì la porta dell'osteria.
Golasecca, che aveva ripresa la statura d'un uomo comune, entrò dentro scotendosi i panni che gocciolavano: e postosi a sedere dinanzi a una tavola apparecchiata, domandò all'oste:
“Che cosa mi dai per cena?”.
“Tutto quello che desidera Vostra Signoria. Non deve far altro che comandare.”
“Che cosa c'è di carne?”
“Nulla di carne.”
“E di formaggio?”
“Nulla di formaggio.”
“E di pane?”
“Nulla di pane.”
“Che cosa posso dunque mangiare?”, domandò l'assassino, tentennando il capo e cominciando a perdere la pazienza.
“Se Vostra Signoria desidera della frutta...”
“Che cos'hai di frutta?”
“Ciliegie, mandorle e pesche.”
“Dammi un bel piatto di pesche.”
“E a me, un bel piatto di ciliegie”, disse una vocina, che uscì dalle tasche del vestito di Golasecca.
“Chi è che ha chiesto le ciliegie?”, balbettò l'oste, tutto impaurito e maravigliato.
“Sono io”, rispose la solita vocina.
“Non dubitare”, interruppe Golasecca, e digrignando i denti, “non dubitare, Pipì, che le ciliegie te le darò io... e ti darò qualcos'altro! A buon conto, esci subito fuori, e facciamo i nostri conti.”
“Così dicendo, il capo-masnada sbottonò la tasca della sua giacca, e lo scimmiottino, senza tanti complimenti, saltò in mezzo alla tavola e si pose a sedere sopra una zuppiera di porcellana.
10. Come andò che Nanni, il gatto dell'Osteria delle Mosche, prese il posto di Pipì nella tasca dell'assassino
Allora Golasecca voltandosi a Pipì con un cipiglio da far paura, gli domandò:
“Chi è che ha mangiato la fodera della mia tasca?.”
Lo scimmiottino, come se non dicessero a lui, cominciò a guardare in qua e in là: ma poi, fissando i suoi occhietti mobilissimi e irrequieti in faccia al capo-masnada, disse con voce carezzevole:
“Vi contentate, sor assassino, che vi parli sinceramente? Io non ho veduto mai una barba così bella come la vostra! Voi avete la più bella barba del mondo!”.
“Lasciamo star la barba e rispondiamo a tono: chi è che ha mangiato la fodera della mia tasca?”
“E se fosse la barba solamente, vorrebbe dir poco”, soggiunse lo scimmiottino. “Egli è che tutti dicono che voi siete la più buona pasta d'uomo di questo mondo! Un vero cuor di Cesare! La perfetta cortesia travestita da brigante!...”
“Lasciamo stare il buon cuore e la cortesia: chi è che ha mangiato la fodera della mia tasca?”
“E se foste buono soltanto, sarebbe poco o nulla: egli è che siete anche bello! Volete che ve lo dica? Degli uomini belli ne ho veduti dimolti; ma un uomo bello come voi, non l'ho visto mai!”
“Bisognava avermi visto trent'anni fa!”, replicò Golasecca lisciandosi i baffi e il barbone e ingegnandosi di apparire grazioso. “Allora ero bello davvero! Eh, Moccolino? Ditelo voi.”
“La prima volta, che vi ho conosciuto io, eravate un sole! un sole di mezzogiorno!”, rispose l'oste.
“Oggi siete un sole sul tramonto!”, soggiunse Pipì, “ma un tramonto magnifico! un tramonto che val più di un'aurora!...”
“Mi avvedo, caro scimmiottino, che tu hai molto spirito e molto ingegno: e per questo ti voglio bene” disse Golasecca commosso. “Scendi giù dalla zuppiera e vieni a sederti accanto a me. Ceneremo insieme. Moccolino! Porta subito in tavola un piatto di pesche e un piatto di ciliegie per il mio amico Pipì. L'amico Pipì è uno scimmiottino sincero e amante della verità, e se per caso incontra un uomo veramente bello, non ha nessuna paura a dirgli in viso: "Tu sei il più bell'uomo di questo mondo!"”.
Fatto sta che mangiarono tutt'e due con grande appetito: e la cena fu piuttosto lunghetta.
Sul finir della cena, lo scimmiottino domandò al capo-masnada:
“Se non fossi troppo indiscreto, potrei sapere dove volete portarmi?”.
“A casa della Fata dai capelli turchini.”
“E che vuole da me questa buona donna?”
“Essa è adirata.”
“E la ragione?”
“Perché dice che tu avevi promesso di accompagnare il suo figlio Alfredo in un lungo viaggio: e che poi hai mancato alla tua promessa.”
“Quanto è lontana di qui la casa della Fata?”
“Più di mille chilometri.”
“Io non ci voglio venire.”
“Padrone tu di non volerci venire” rispose Golasecca, facendosi serio “ma io ti ci porterò per forza!”
“Voi non mi ci porterete...”
“Perché?”
“Perché io scapperò!”
“Scapperai?”, urlò l'assassino, mugghiando come un toro ferito. “A buon conto, rientra subito dentro la mia tasca, e domani all'alba partiremo.”
Così dicendo, Golasecca abbrancò con una mano lo scimmiottino e lo ripose al buio, assicurando la tasca con quei soliti tre bottoni grandi e spropositati, come tre ruote da carrozza. Poi, cavatasi la giacca, la gettò sopra una sedia: e appoggiando il capo al muro, disse a Moccolino:
“Io farò un sonnellino su questa panca: e tu bada bene all'alba di venirmi a svegliare.”
“Dormite tranquillo”, rispose l'oste: e presa la candela, se ne tornò su, nella sua cameretta.
Ora bisogna sapere che Golasecca aveva un bruttissimo vizio: quello cioè di russare: e russando, faceva con la bocca un certo fischio lamentevole e prolungato, come quello che fanno gli uccellini quando vedono calare il falco.
Nel sentir questo fischio, Nanni, il bellissimo gatto soriano di Moccolino, entrò in punta di piedi nella stanza, annusando qua e là, forse con la speranza di trovare qualche uccelletto scappato di gabbia.
Ma, invece dell'uccelletto, trovò una giacca sopra una seggiola, e sentì che dalla tasca della giacca usciva un calduccino e uno strano odorino di carne.
"Che animale ci sia rinchiuso qui dentro?", cominciò allora a dire fra sé: "Un topino, no dicerto: perché sarebbe troppo grosso. Forse un pezzo di vitella arrosto? Nemmeno, perché questo non è odore di carne cotta. O dunque?...".
E tornò ad annusare: e dopo avere annusato e annusato, quell'odore era per lui come un libro stampato: non ci capiva nulla.
Ma intanto che stava lì almanaccando e leccandosi le basette, gli parve di udire un piccolissimo rumore. Rizzò subito gli orecchi e postosi in ascolto, sentì dentro la tasca un canto fioco fioco, che fece:
“Chicchirichì!”.
“È un galletto”, disse allora Nanni, miagolando dalla gran contentezza, “è un galletto di certo. L'odore veramente non parrebbe di carne gallinacea; ma questi gallettacci sono così furbi e traditori!... Mi ricordo sempre che una volta sul palcoscenico d'un teatro, portai via un galletto cotto in umido con le patate; e, nell'andare a casa, mi diventò ripieno di stoppa, di borraccina e di altre porcherie.”
“Chicchirichì!”, si udì fare una seconda volta.
“Mi chiami, eh?”, disse Nanni dentro di sé.
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