Torrismondo

TORQUATO

ORQUA TASSO

Torrismondo

a cura di Emilio Piccolo La Biblioteca di Don Quijote DEDALUS

TORQUATO TASSO

Torrismondo

a cura di Emilio Piccolo DEDALUS

Dedalus Napoli, 2000

No copyright

Dedalus, Studio di progettazioni ipermediali vico Acitillo 124, 80128 Napoli email: [email protected] I edizione: 2000

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Torrismondo

Torquato Tasso

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Torrismondo

Interlocutori

Nutrice

Alvida

Torrismondo, re de’ Goti Consigliero

Coro

Messaggiero primo

Rosmonda

Regina madre

Germondo, re di Suezia Cameriera

Indovino

Frontone

Messaggiero secondo

Cameriero

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Torquato Tasso

Atto 1, scena 1

NUTRICE

Deh qual cagione ascosa, alta regina, sì per tempo vi sveglia? Ed or che l’alba nel lucido oriente a pena è desta, dove ite frettolosa? E quai vestigi di timore in un tempo e di desio veggio nel vostro volto e ne la fronte?

Perch’a pena la turba interno affetto, o pur novella passion l’adombra, ch’io me n’aveggio. A me, che per etate, e per officio, e per fedele amore, vi sono in vece di pietosa madre, e serva per volere e per fortuna, il pensier sì molesto ormai si scopra, che nulla sì celato o sì riposto dee rinchiuder giamai ch’a me l’asconda.

ALVIDA

Cara nudrice e madre, egli è ben dritto ch’a voi si mostri quello ond’osa a pena ragionar fra se stesso il mio pensiero; perch’a la vostra fede, al vostro senno più canuto del pelo, al buon consiglio, meglio è commesso ogni secreto affetto, ogni occulto desio del cor profondo, ch’a me stessa non è. Bramo e pavento, no ‘l nego, ma so ben quel ch’i’ desio; quel che tema, io non so. Temo ombre e sogni, ed antichi prodigi, e novi mostri, promesse antiche e nove, anzi minacce 8

Torrismondo

di fortuna, del ciel, del fato averso, di stelle congiurate; e temo, ahi lassa, un non so che d’infausto o pur d’orrendo, ch’a me confonde un mio pensier dolente, lo qual mi sveglia e mi perturba e m’ange, la notte e ‘l giorno. Oimè, giamai non chiudo queste luci già stanche in breve sonno, ch’a me forme d’orrore e di spavento il sogno non presenti; ed or mi sembra che dal fianco mi sia rapito a forza il caro sposo, e senza lui solinga gir per via lunga e tenebrosa errando; or le mura stillar, sudare i marmi miro, o credo mirar, di negro sangue; or da le tombe antiche, ove sepolte l’alte regine fur di questo regno, uscir gran simolacro e gran ribombo, quasi d’un gran gigante, il qual rivolga incontra al cielo Olimpo, e Pelia, ed Ossa, e mi scacci dal letto, e mi dimostri, perch’io vi fugga da sanguigna sferza, una orrida spelunca, e dietro il varco poscia mi chiuda; onde, s’io temo il sonno e la quiete, anzi l’orribil guerra de’ notturni fantasmi a l’aria fosca, sorgendo spesso ad incontrar l’aurora, meraviglia non è, cara nutrice.

Lassa me, simil sono a quella inferma che d’algente rigor la notte è scossa, poi su ‘l mattin d’ardente febre avampa; perché non prima cessa il freddo gelo del notturno timor, ch’in me s’accende l’amoroso desio, che m’arde e strugge.

Ben sai tu, mia fedel, che ‘l primo giorno che Torrismondo agli occhi miei s’offerse, detto a me fu che dal famoso regno de’ fieri Goti era venuto al nostro de la Norvegia, ed al mio padre istesso, per richiedermi in moglie; onde mi piacque tanto quel suo magnanimo sembiante e quella sua virtù per fama illustre, 9

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ch’obliai quasi le promesse e l’onta.

Perch’io promesso aveva al vecchio padre di non voler, di non gradir pregata nobile amante, o cavaliero, o sposo, che di far non giurasse aspra vendetta del suo morto figliuolo e mio fratello; e ‘l confermai nel dì solenne e sacro, in cui già nacque e poi con destro fato ei prese la corona e ‘l manto adorno, e ne rinova ogni anno e festa e pompa, che quasi diventò pompa funebre.

Quante promesse e giuramenti a l’aura tu spargi, Amor, qual fumo oscuro od ombra!

Io del piacer di quella prima vista così presa restai, ch’avria precorso il mio pronto voler tardo consiglio, se non mi ritenea con duro freno rimembranza, vergogna, ira e disdegno.

Ma poiché meco egli tentò parlando d’amore il guado, e pur vendetta io chiesi; chiesi vendetta, ed ebbi fede in pegno di vendetta e d’amor; mi diedi in preda al suo volere, al mio desir tiranno, e prima quasi fui, che sposa, amante; e me n’avidi a pena. E come poscia l’alto mio genitor con ricca dote suo genero il facesse; e come in segno di casto amor e di costante fede la sua destra ei porgesse a la mia destra; come pensasse di voler le nozze celebrar in Arane, e côrre i frutti del matrimonio nel paterno regno, e di sua gente e di sua madre i prieghi mi fosser porti e loro usanza esposta, tutto è già noto a voi. Noto è pur anco che pria ch’al porto di Talarma insieme raccogliesse le navi, in riva al mare, in erma riva e ‘n solitaria arena, come sposo non già, ma come amante, ei fece le fuitive occulte nozze, 10

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che sotto l’ombre ricoprì la notte, e ne l’alto silenzio; e fuor non corse la fama e ‘l suono del notturno amore, ch’in lui tosto s’estinse; e nullo il seppe, se non forse sol tu, che nel mio volto de la vergogna conoscesti i segni.

Or poi che giunti siam ne l’alta reggia de’ magnanimi Goti, ov’è l’antica suocera, che da me nipoti attende, che s’aspetti non so, né che s’agogni; ma si ritarda il desiato giorno.

Già venti volte è il sol tuffato in grembo, da che giungemmo, a l’ocean profondo, e pur anco s’indugia; ed io fratanto (deggio ‘l dire o tacer?) lassa mi struggo, come tenera neve in colle aprico.

NUTRICE

Regina, come or vano il timor vostro e ‘l notturno spavento in voi mi sembra, così giusta cagion mi par che v’arda d’amoroso desio; né dee turbarvi il vostro amor; che giovanetta donna, che per giovane sposo in cor non senta qualche fiamma d’amore, è più gelata che dura neve in orrida alpe il verno.

Ma la santa onestà temprar dovrebbe, e l’onesta vergogna, ardor soverchio, perch’ei s’asconda a’ desiosi amanti.

Ma non sarà più lungo omai l’indugio, che già s’aspetta qui, se ‘l vero intendo, de la Suezia il re di giorno in giorno.

ALVIDA

Sollo, e più la tardanza ancor molesta me per la sua cagion. Così vendetta veggio del sangue mio? Così del padre consolar posso l’ostinato affanno, e placar del fratel l’ombra dolente?

Posso e voglio così? Non lece adunque premere il letto marital, se prima a noi d’Olma non viene il re Germondo, 11

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di tutta la mia stirpe aspro nemico?

NUTRICE

Amico è del tuo re; né dee la moglie amare e disamar co ‘l proprio affetto, ma con le voglie sol del suo marito.

ALVIDA

Siasi come a voi pare; a voi concedo questo assai volentier, ch’io voglio e deggio d’ogni piacer di lui far mio diletto, Così potessi pur qualche favilla estinguer del mio foco e de la fiamma, o piacer tanto a lui, ch’ad altro intende, ch’egli pur ne sentisse eguale ardore.

Lassa, ch’in van ciò bramo, e ‘n van l’attendo, né mi bisogna ancor pungente ferro, che nel letto divida i nostri amori e i soverchi diletti. Ei già mi sembra schivo di me per disdegnoso gusto: perché da quella notte a me dimostro non ha segno di sposo, o pur d’amante.

Madre, io pur ve ‘l dirò, benché vergogna affreni la mia lingua e risospinga le mie parole indietro. A lui sovente prendo la destra e m’avicino al fianco: ei trema, e tinge di pallore il volto, che sembra (onde mi turba e mi sgomenta) pallidezza di morte, e non d’amore; o ‘n altra parte il volge, o ‘l china a terra, turbato e fosco; e se talor mi parla, parla in voci tremanti, e co’ sospiri le parole interrompe.

NUTRICE

O figlia, i segni

narrate voi d’ardente, intenso amore.

Tremare, impallidir, timidi sguardi, timide voci, e sospirar parlando, scopron talora un desioso amante.

E se non mostra ancor l’istesse voglie, che mostrò già ne le deserte arene, sai che la solitudine e la notte sono sproni d’amore, ond’ei trascorra; 12

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ma lo splendor del sole, il suon, la turba del palagio real, sovente apporta lieta vergogna, in aspettando un giorno che per gioia maggior tanto ritarda.

E s’egli era in quel lido amante ardito, accusar non si dee, perch’or si mostri modesto sposo ne l’antica reggia.