REGINA MADRE
Piaccia a Dio che sia vero. Io pur fra tanto, poi ch’altro non mi lece, almen conforto dal rimirarlo prendo. Or vengo in parte ov’egli star sovente ha per costume, in queste adorne logge o ‘n questo campo, ov’altri i suoi destrier sospinge e frena, altri gli muove a salti o volge in cerchio.
NUTRICE
Altra stanza, regina, a voi conviensi, vergine ancor, non che fanciulla e donna.
Ben ha camere ornate il vostro albergo, ove potrete, accompagnata o sola, spesso mirarlo dal balcon soprano.
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Torquato Tasso
Atto 1, scena 2
NUTRICE
Non so ch’in terra sia tranquillo stato o pacifico sì, che no ‘l perturbi o speranza, o timore, o gioia, o doglia; né grandezza sì ferma, ó nel suo merto fondata, o nel favor d’alta fortuna, che l’incostante non atterri o crolli, o non minacci. Ecco felice donna pur dianzi, e tanto più quanto men seppe di sua prosperità, che, nata a pena, fu in alto seggio di fortuna assisa.
Ed or, quando parea che più benigno le fosse il cielo e più le stelle amiche, per l’alte nozze sue teme e paventa, e s’adira in un tempo e si disdegna.
Ma dove amor comanda, è l’odio estinto, e cedon l’ire antiche al novo foco.
E s’al casto e soave e dolce ardore si dilegua lo sdegno, ancor si sgombri il sospetto e la tema; e poi ch’elegge d’amar quel ch’ella deve, amor le giovi.
Ami felicemente; e ‘l lieto corso di questa vita, che trapassa e fugge, non l’interrompa mai l’invida sorte, che far subito suole il tempo rio.
Ma temo del contrario, e mi spaventa del suo timor cagione antica occulta, non sol novo timor, ch’è quasi un segno di futura tempesta; e l’atre nubi 14
Torrismondo
risolver si potranno al fin in pianto, se legitimo amor non solve il nembo.
Ma ecco il re, cui la regina aspetta.
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Torquato Tasso
Atto 1, scena 3
TORRISMONDO
Ahi, quando mai la Tana, o ‘l Reno, o l’Istro, o l’inospite mare, o ‘l mar vermiglio, o l’onde caspe, o l’ocean profondo, potrian lavar occulta e ‘ndegna colpa, che mi tinse e macchiò le membra e l’alma?
Vivo ancor dunque, e spiro, e veggio il sole?
Ne la luce del mondo ancor dimoro?
E re son detto, e cavalier m’appello?
La spada al fianco io porto, in man lo scettro ancor sostegno, e la corona in fronte?
E pur v’è chi m’inchina e chi m’assorge, e forse ancor chi m’ama: ahi, quelli è certo che del suo fido amor coglie tal frutto.
Ma che mi giova, oimè, s’al core infermo spiace la vita, e se ben dritto estimo ch’indegnamente a me questa aura spiri e ‘ndegnamente il sole a me risplenda; se ‘l titolo real, la pompa e l’ostro, e ‘l diadema gemmato e d’or lucente, e la sonora fama, e ‘l nome illustre di cavalier m’offende, e tutti insieme pregi, onori, servigio io schivo e sdegno; e se me stesso in guisa odio ed aborro che ne l’essere amato offesa io sento?
Lasso, io ben me n’andrei per l’erme arene solingo, errante; e ne l’Ercinia folta e ne la negra selva, o ‘n rupe o ‘n antro riposto e fosco d’iperborei monti, 16
Torrismondo
o di ladroni in orrida spelunca, m’asconderei dagli altri, il dì fuggendo, e da le stelle e dal seren notturno.
Ma che mi può giovar, s’io non m’ascondo a me medesmo? Oimè, son io, son io, quel che fuggito or sono e quel che fuggo: di me stesso ho vergogna e scorno ed onta, odioso a me fatto e grave pondo.
Che giova ch’io non oda e non paventi i detti e ‘l mormorar del folle volgo, o l’accuse de’ saggi, o i fieri morsi di troppo acuto o velenoso dente, se la mia propria conscienza immonda altamente nel cor rimbomba e mugge, s’ella a vespro mi sgrida ed a le squille, se mi sveglia le notti e rompe il sonno e mille miei confusi e tristi sogni?
Misero me, non Cerbero, non Scilla così latrò come io ne l’alma or sento il suo fiero latrar; non mostro od angue ne l’Africa arenosa, od Idra in Lerna, o di Furia in Cocito empia cerasta, morse giamai com’ella rode e morde.
CONSIGLIERO
Se la fede, o signor, mostrata in prima ne le fortune liete e ne l’averse porger può tanto ardire ad umil servo, ch’osi pregare il suo signor tal volta, perch’i pensieri occulti a lui riveli, io prego voi che del turbato aspetto scopriate la cagion, gli affanni interni, e qual commesso abbiate errore o colpa, che tanto sdegno in voi raccolga e ‘nfiammi contra voi stesso, e sì v’aggravi e turbi; che di lungo silenzio è grave il peso in sofferendo, e co’l soffrir s’inaspra, ma si consola, in ragionando, e molce; ed uom, ch’al fin deporre in fidi orecchi il noioso pensier parlando ardisca, l’alma sua alleggia d’aspra e dura salma.
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Torquato Tasso
TORRISMONDO
O mio fedele, a cui l’alto governo di mia tenera età conceder volle il re mio padre e signor vostro antico, ben mi ricordo i detti e i modi e l’opre, onde voi mi scorgeste; e quai sovente mi proponeste ancor dinanzi agli occhi d’onestà, di virtù mirabil forme, e quai di regi o di guerrieri essempi, che ne l’arti di pace o di battaglia furon lodati; e qual acuto sprone di generosa invidia il cor mi punse, e qual di vero onor dolce lusinga invaghir mi solea. Ma troppo accresce questa dolce memoria il duolo acerbo, che quanto io dal sentier, che voi segnaste, mi veggio traviato esser più lunge, tanto più contra me di sdegno avampo.
E s’ad alcun, fra quanti il sol rimira o la terra sostiene o ‘l mar circonda, per vergogna celar dovessi il fallo, esser voi quel devreste: alti consigli da voi già presi, e poi gittai e sparsi.
Ma ‘l vostro amor, la fede un tempo esperta, l’etate e ‘l senno e quella amica speme, che del vostro consiglio ancor m’avanza, conforti al dir mi son; benché paventa e ‘norridisce a ricordarsi il core, e per dolor rifugge, onde sdegnosa s’induce a ragionar la tarda lingua; però in disparte io v’ho chiamato e lunge.
Devete rammentar ch’uscito a pena di fanciullezza, e di quel fren disciolto che già teneste voi soave e dolce, fui vago di mercar fama ed onore; onde lasciai la patria e ‘l nobil padre, e gli eccelsi palagi, e vidi errando vari estrani costumi e genti strane; e sconosciuto e solo io fui sovente, ove il ferro s’adopra e sparge il sangue.
In quelli errori miei, com’al Ciel piacque, 18
Torrismondo
mi strinsi d’amicizia in dolce nodo co ‘l buon Germondo, ch’a Suezia impera, giovene anch’egli, e pur di gloria ardente, e pien d’alto desio d’eterna fama.
Seco i Tartari erranti e seco i Moschi, cercando i paludosi e larghi campi, seco i Sarmati i’ vidi, e i Rossi, e gli Unni, e de la gran Germania i lidi e i monti; seco a l’estremo gli ultimi Biarmi vidi tornando, e quel sì lungo giorno a cui succede poi sì lunga notte; ed altre parti de la terra algente, che ghiaccia a’ sette gelidi Trioni, tutta lontana dal camin del sole.
Seco de la milizia i gravi affanni soffersi, e seco ebbi commune un tempo non men gravi fatiche e gran perigli che ricche prede e gloriose palme, da nemici acquistate e da tiranni; onde sovente in perigliosa guerra egli scudo mi fe’ del proprio petto e mi sottrasse a dispietata morte, ed io talor, là dove amor n’aguaglia, la vita mia per la sua vita esposi.
Ma, dapoi che moriro i padri nostri, sendo al governo de’ lasciati regni richiamati ambodue, gli offici e l’opre non cessâr d’amicizia, anzi disgiunti di loco, e più che mai di core uniti, cogliemmo ancor di lei frutti soavi.
Misero, or vengo a quel che mi tormenta.
Questo mio caro e valoroso amico, pria che facesse elezione e sorte noi de l’arme compagni e degli errori, trasse in Norvegia a la famosa giostra, ond’ebbe ei poscia fra mille altri il pregio.
Ivi in sì forte punto agli occhi suoi si dimostrò la fanciulletta Alvida, ch’egli sentissi in su la prima vista l’alma avampar d’inestinguibil fiamma.
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