Ma forse, anzi molto probabilmente, quei due giovanotti erano dei domestici che avrebbero dovuto alzarsi di lì a poco per via dei clienti, e per questo dormivano vestiti. In tal caso non era certo molto dignitoso dormir con loro, però era meno pericoloso. Soltanto che, sinché la cosa non fosse stata del tutto chiara, egli non doveva in nessun caso mettersi a dormire.
Sotto uno dei letti c'era una candela con dei fiammiferi, che Karl andò a prendere cercando di far molto piano. Non aveva scrupoli ad accendere la luce, perché per ordine del locandiere quella stanza era tanto sua quanto degli altri due, che per di più avevano già dormito metà della notte e, per il fatto di avere dei letti, erano incomparabilmente avvantaggiati rispetto a lui. Del resto, camminando e muovendosi con cautela, naturalmente fece di tutto per non svegliarli.
Innanzitutto voleva esaminare la valigia per avere un'idea delle sue cose, di cui ormai aveva solo un ricordo confuso e delle quali sicuramente poteva già esser andato perduto quanto c'era di maggior valore. Perché quando Schubal mette le mani su qualcosa, c'è poca speranza di riaverlo indietro intatto. Quello certamente poteva sperare in una grossa mancia dello zio, d'altra parte però se fosse mancato qualcosa avrebbe sempre potuto gettar la colpa sul vero custode della valigia, il signor Butterbaum.
Alla prima occhiata che diede aprendo la valigia, Karl restò inorridito. Quante ore aveva speso durante la traversata a mettere e rimettere continuamente in ordine quella valigia, mentre adesso tutto vi era stato pigiato dentro così disordinatamente, che aprendo la serratura il coperchio scattò su da solo.
Ma presto Karl si avvide con gioia che il motivo del disordine era dovuto soltanto al fatto che era stato ficcato dentro anche il vestito che aveva indossato durante il viaggio e che naturalmente la valigia non avrebbe potuto contenere. Non mancava nulla. Nella tasca segreta della giacca c'era non soltanto il passaporto, ma anche il denaro portato da casa, sicché con l'aggiunta di quello che aveva addosso, Karl per il momento era ben provvisto. C'era anche la biancheria che indossava al momento dell'arrivo, ben lavata e stirata. Subito depose anche orologio e denaro nella fida tasca segreta. L'unica cosa spiacevole era che il salame di Verona, che era rimasto anch'esso nella valigia, aveva impregnato del suo odore ogni cosa. Se non lo si fosse potuto eliminare in qualche modo, Karl aveva la prospettiva di girare per mesi avvolto in quel profumo.
Nel tirar fuori alcuni oggetti che erano sul fondo — una Bibbia tascabile, della carta da lettere e la fotografia dei genitori — il berretto gli cadde nella valigia. Vedendolo accanto agli altri oggetti familiari lo riconobbe subito, era il suo berretto, quello che sua madre gli aveva dato come berretto da viaggio. Lui però previdentemente non lo aveva usato sulla nave, perché sapeva che in America si usa portare il berretto invece del cappello, e non aveva voluto sciupare il suo ancor prima di arrivare. Certamente il signor Green se n'era servito per divertirsi alle sue spalle. Oppure lo zio lo aveva incaricato anche di questo? E con un gesto involontario di rabbia urtò il coperchio della valigia, che si richiuse rumorosamente.
Ormai il guaio era fatto, i due dormienti si erano svegliati. Prima si stirò e sbadigliò uno dei due, e subito l'altro gli fece seguito. Intanto quasi tutto il contenuto della valigia era sparso sul tavolo; se quelli erano dei ladri, avevano soltanto da avvicinarsi e da scegliere. Non solo per prevenire quest'eventualità, ma anche per vederci subito chiaro, Karl si avvicinò ai letti con la candela in mano e spiegò a quale diritto si trovava lì. Pareva che i due non si aspettassero nessuna spiegazione perché, ancora troppo insonnoliti per parlare, lo guardavano senz'ombra di sorpresa. Erano tutti e due molto giovani, ma un duro lavoro oppure la miseria avevano prematuramente scavato i loro volti, sul mento avevano una barba incolta, sulle loro teste si arruffavano i capelli non più tagliati da molto tempo, ed essi, ancora mezzo addormentati, si stropicciavano e si premevano gli occhi incavati con le nocche delle dita.
Karl volle profittare della loro momentanea debolezza e disse: «Mi chiamo Karl Rossmann e sono tedesco. Per favore, dal momento che abbiamo la stanza in comune, mi dicano anche loro il loro nome e la nazionalità. Dichiaro subito che non ho nessuna pretesa di avere un letto, dal momento che sono arrivato così tardi e che soprattutto non ho intenzione di dormire. Inoltre non facciano caso al mio bel vestito, io sono poverissimo e senza speranze».
Il più piccolo dei due — quello che aveva gli stivali — fece capire coi movimenti delle braccia, delle gambe e con l'espressione del viso che tutto questo non Io interessava affatto, e che non era proprio il momento per simili discorsi, si coricò e si riaddormentò subitó; anche l'altro, che era scuro di pelle, si ricoricò, ma prima di riprender sonno disse tendendo indolentemente una mano: «Questo qui si chiama Robinson ed è irlandese, io mi chiamo Delamarche, sono francese e ora la prego di far silenzio». Pronunciate che ebbe queste parole, con gran spreco di fiato spense la candela di Karl e ripiombò sul cuscino.
«Dunque per il momento il pericolo è scongiurato», si disse Karl tornando al tavolino. Se il loro sonno non era un pretesto, era tutto a posto. Seccante era solo che uno dei due fosse irlandese. Karl non sapeva più bene in quale libro avesse letto, quand'era a casa sua, che in America bisognava star attenti agli irlandesi.
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