Rimanga escluso

ch’io sia tanto arrogante da pretendere

di sceglierlo fra la regal progenie

di Francia, con l’intento di innestare

il mio modesto ed umile casato

ad un qualsiasi ramo o simulacro

del tuo ceppo; ma uno, un tuo vassallo,

ch’io sappia d’esser libera di chiedere,

come tu di concedere.

 

RE -

D’accordo,

eccoti la mia mano.

Attuate che avrai le tue promesse,

il tuo volere mi troverà pronto

a soddisfarlo. Scegli tu il momento,

ché ormai son ben deciso

ad affidarmi a te e alle tue cure.

Di te vorrei però saper di più,

anche se ciò non gioverebbe molto

ad accrescere in te la mia fiducia:

da dove vieni, con chi sei venuta…

Ma no, rimani pur la benvenuta

senza interrogatorio, e benedetta

senza sospetto.

(Ai servi)

Ehi, voi, sorreggetemi.

(A Elena)

Se il tuo procedere nei miei riguardi

sarà all’altezza della tua parola,

i miei atti saranno ad esso pari.

 

 

(Trombe. Escono)

 

 

 

SCENA II - Rossiglione il palazzo del conte.

 

Entrano la CONTESSA e IL LAVA

 

CONTESSA -

Orsù, voglio vedere, signor mio,

fino a che punto sei bene istruito.

 

LAVA -

Ben nutrito potrete ben vedermi,

signora; bene istruito, un po’ meno.

Del resto tutto quel che devo fare

se non si tratta che d’andare a corte…

 

CONTESSA -

E già, “a corte!” Perché, c’è altro luogo

che consideri più altolocato,

per parlarne con tanta degnazione?

“Se non si tratta che d’andare a corte…”

 

LAVA -

Bah, signora: se uno ha avuto in dono

dal Padreterno un po’ di gentilezza,

unita a un poco di buone maniere,

gli sarà facile spacciarle a corte;

ma chi non sa come fare un inchino,

scoprirsi il capo, baciarsi le dita

e spiccicare due parole insieme,

vuol dire che non ha ginocchia, mani,

labbra o cappello, e, a dirla francamente,

a corte se la caverebbe male.

Ma io, per me, ho una risposta a tutto.

 

CONTESSA -

Vergine santa, chi sa che risposta

sarà, di quanto abbondante in larghezza,

per adattarsi a tutte le domande!

 

LAVA -

È come il seggiolone del barbiere

che va bene per tutti i deretani:

il pizzuto, il robusto, lo spianato,

qualsiasi deretano.

 

CONTESSA -

Sarebbe a dire che la tua risposta

s’adatta bene a qualsiasi domanda?

 

LAVA -

Sì, come dieci grosse([34])

alla mano di un basso mozzorecchi,

o la corona francese([35]) alla zucca

d’una sgualdrinelluccia in taffettà;

o l’anello di giunco di Pierina

al dito di Pierino;

o come la frittella al Carnevale;

o come la moresca al primo maggio;([36])

il chiodo al buco, le corna al cornuto,

la bisbetica all’uomo attaccabrighe,

come le labbra d’una monachina

alla bocca d’un frate… che dir più?

come la carne insaccata alla pelle.

 

CONTESSA -

Insomma, dico, avresti una risposta

per chiunque ti faccia una domanda?

 

LAVA -

Dal duca in giù, fino all’ultimo sbirro.

 

CONTESSA -

Dev’essere davvero una risposta

di dimensioni quanto mai mostruose,

per adattarsi a tutte le domande.

 

LAVA -

Macché, una bagattella, v’assicuro,

se fosse un istruito a definirla.

Eccola a voi, con annessi e connessi:

chiedetemi se sono un cortigiano;

non vi farà alcun danno ad impararla.

 

CONTESSA -

Vediamo: tanto per tornare giovane

- magari lo potessimo! - da sciocca

ti faccio allora io quella domanda

nella speranza che la tua risposta

mi comunichi un grano di saggezza:

“Signore, prego, siete un cortigiano?”

 

LAVA -

(Imitando i modi leziosi di un cortigiano)

“Oh, là là, mio signore!”… Questo è niente,

un primo assaggio… Ancora, ancora, cento…

 

CONTESSA -

“Signore, sono un vostro umile amico

che vi vuol bene…”

 

LAVA -

(c.s.)

“Oh, là là, mio signore!”…

Su, su, incalzatemi, senza risparmio!

 

CONTESSA -

“Credo, signore, che non mangerete

di questo cibo troppo casalingo”.

 

LAVA -

“Oh, là, là”… Sotto, sotto, sempre più,

mettetemi alle strette, e sentirete.

 

CONTESSA -

“V’hanno frustato bene ultimamente,

credo, signore”.

 

LAVA -

“Oh, là là, signore!”…

Su, su non risparmiatemi! Insistete!

 

CONTESSA -

Sicché a uno che ti fustigasse

risponderesti: “Oh, là, là, signore!”

con l’aggiunta di : “Su, non risparmiatemi”?

Quel “là là” segue bene le frustate,

risponderesti bene alle frustate,

se volessi tenerti a quelle frasi.

 

LAVA -

Questo “Oh, là là, signore!”

non m’è andato mai male in vita mia

come ora con voi;

certe cose, bisogna riconoscerlo,

possono funzionare anche per molto,

ma non per sempre ed in ogni occasione.

 

CONTESSA -

Ma io sto recitando con il tempo

la parte della nobile anfitriona,

passandolo così svagatamente

con un buffone.

 

LAVA -

“Oh, là là, signora!”…

Ecco, stavolta ha funzionato bene!

 

CONTESSA -

Basta, torniamo a quel che devi fare.

Rècati a corte([37]) e porta questo ad Elena,

(Gli consegna una lettera chiusa)

e di’ che ti dia subito risposta.

Salutami mio figlio e i miei parenti.

Non mi pare poi molto.

 

LAVA -

Non è molto che cosa: il salutarli?

 

CONTESSA -

No, tutto quanto quel che devi fare.

Hai capito il concetto?

 

LAVA -

Pienamente.

Sono già là, prima delle mie gambe.

 

CONTESSA -

E ritorna con pari speditezza.

 

 

(Escono da parti opposte)

 

 

 

SCENA III - Parigi, il palazzo reale.

 

Entrano BERTRAMO, LAFEU e PAROLLES;

questi sfoggia intorno al collo sciarpe di colori diversi

 

LAFEU -

Dicono che i miracoli

son cose che avvenivano in passato,

ora che abbiamo i nostri sapientoni

a renderci correnti e quotidiane

cose che un tempo gli uomini tenevano

per soprannaturali ed inspiegabili.

Sicché oggidì noi ci facciamo scherno

dei terrori dei nostri padri antichi,

rifugiandoci in una conoscenza

che tuttavia è soltanto apparente,

quando sarebbe giusto sottostare

comunque alla paura dell’ignoto.

 

PAROLLES -

Eh, sì, in coscienza, questa guarigione

è la più straordinaria meraviglia

di cui si sia parlato tra la gente

nel mondo da gran tempo a questa parte.

 

BERTAMO -

Infatti, sì.

 

LAFEU -

Dopo che tutti i medici

l’avevano già dato per spacciato…

 

PAROLLES -

Già, i vari Galeno e Paracelso

di casa nostra…

 

LAFEU -

… e tutti i più sapienti

e addottorati…

 

PAROLLES -

Eh, no? Lo dico anch’io.

 

LAFEU -

… che lo consideravano incurabile…

 

PAROLLES -

Già, questo è il punto.

 

LAFEU -

… irrimediabilmente.

 

PAROLLES -

… come se ormai non gli restasse più…

 

LAFEU -

La vita è incerta e sol la morte è certa.

 

PAROLLES -

Eh, me l’avete tolto dalla bocca.

 

LAFEU -

Posso affermare in tutta verità

che mai si vide al mondo cosa simile.

 

PAROLLES -

Appunto; ed a volerne la conferma,

si può leggerla in quel… come si chiama…

 

LAFEU -

(Citando a memoria)

Dimostrazione di un divino effetto

“su soggetto terrestre”.

 

PAROLLES -

Per l’appunto:

l’avevo sulla punta della lingua.

 

LAFEU -

Eccolo là, più vispo di un delfino.

In quanto a me, parlando con rispetto…

 

PAROLLES -

È strano, molto strano, questo è il fatto,

detto in parole povere;

e sarebbe perverso non vederci…

 

LAFEU -

… la mano stessa del cielo…

 

PAROLLES -

Sì, giusto.

 

LAFEU -

… che s’è manifestata nel più debole…

 

PAROLLES -

… e nel più umile dei suoi ministri

con tal potere, con tal trascendenza

da indurci a ripensare d’impiegarla

oltre la guarigione d’un sovrano,

sì da poter riscuotere, io dico…

 

LAFEU -

… un riconoscimento universale.

 

 

Entra il RE con ELENA e seguito

 

PAROLLES -

Giusto, così dicevo. Ma ecco il re.

 

LAFEU -

Lustig”,([38]) come direbbe un olandese.

Finché avrò denti in bocca, giuraddio,

voglio amare le donne alla follia.

Guardalo là, sarebbe ora capace

di ballare con lei una corrente!([39])

 

PAROLLES -

Mort du vinaigre!”([40])… Quella non è Elena?

 

LAFEU -

Perdio, direi di sì.

 

RE -

(A uno del seguito)

Va’ a dire a tutti i nobili di corte

di radunarsi qui, davanti a me.

 

 

(Esce il servo)

 

 

(A Elena)

Siedi, mia salvatrice, accanto a me,

vicino al tuo paziente risanato,

e da questa mia mano

i cui perduti sensi hai richiamato

ricevi un’altra volta ufficialmente

la conferma del dono a te promesso.

Devi soltanto pronunciare il nome.

 

 

(Entrano alcuni giovani NOBILI)

 

 

Bella fanciulla, guàrdati ora intorno:

questa accolta di giovani signori

pende dalla mia bocca

di sovrano e paterno lor tutore

per prender moglie. Sono tutti scapoli.

Scegli liberamente tra di loro.

Da me tu hai la facoltà di scegliere,

non essi quella di dirti di no.

 

ELENA -

A ciascuno di voi possa toccare,

quando nel vostro cuore spiri amore,

sposa bella e virtuosa. Tranne ad uno.

 

LAFEU -

(A parte)

Darei il mio baio e tutti i finimenti

per avere la dentatura sana

e la barba di questi giovanotti

così poco spinosa.

 

RE -

(Ad Elena)

Guardali bene. Non ce n’è nessuno

tra loro che non abbia un padre nobile.

 

ELENA -

Gentiluomini, il cielo, per mio tramite

ha ridonato la salute al re.

 

PRIMO NOBILE -

Ne siamo consapevoli,

e ne rendiamo grazie a Dio e a voi.

 

ELENA -

Io non sono che una fanciulla vergine,

e in questo sta tutta la mia ricchezza:

nel dichiararmi una fanciulla vergine.

Piaccia a vostra maestà, io ho finito.

Il rossore che avvampa le mie guance

sento che mi sussurra: “Sono qui,

perché tu sei di fronte ad una scelta,

ma se sarai respinta, al posto mio

scenda per sempre sopra le tue guance

il bianco della morte”.

 

RE -

Fa’ intanto la tua scelta. Poi vedremo.

Chi respinge il tuo amore

respinge insieme ad esso il mio favore.

 

ELENA -

Diana, ecco, io fuggo dal tuo altare,([41])

e volgo i miei sospiri

all’Amore, imperiale, eccelso iddio.

(Al Primo Nobile)

Signore, siete pronto ad ascoltare

la mia richiesta?

 

PRIMO NOBILE -

Ed anche ad esaudirla.

 

ELENA -

Grazie, signore. Il seguito è silenzio.([42])

 

LAFEU -

(A parte)

Perdio, mi giocherei la vita ai dadi,

a costo di buttare giù due assi,

per potermi trovare in mezzo a loro!([43])

 

ELENA -

(Al Secondo Nobile)

La fierezza che v’arde, mio signore,

in quei begli occhi prima ancor ch’io parli,

è una risposta troppo minacciosa.

Amore faccia le vostre fortune

venti volte al disopra di colei

che qui ve l’augura e del suo umile

modesto amore.

 

SECONDO NOBILE -

Non chiedo di meglio.

 

ELENA -

Vogliate dunque accettare i miei voti

e il cielo li esaudisca. Vi saluto.

 

LAFEU -

(c.s.)

Possibile che tutti la ricusino?

Fossero figli miei li frusterei,

o li manderei tutti dal Gran Turco,

per farne eunuchi per il suo serraglio.

 

ELENA -

(Al Terzo Nobile)

Non abbiate timore, cavaliere,

ch’io voglia prendere la vostra mano.

V’ho riguardo. Non vi farò mai torto.

Il cielo benedica i vostri voti,

e possiate trovar nel vostro letto

più vaga sorte, se vi sposerete.([44])

 

LAFEU -

(c.s.)

Questi ragazzi son fatti di ghiaccio:

non la vuole nessuno. Son bastardi

di padre inglese, costoro, è sicuro.

I Francesi non fan figli così.

 

ELENA -

(Al Quarto Nobile)

Voi siete troppo giovane,

troppo gioviale e troppo altolocato

per regalarvi un figlio dal mio sangue.

 

QUARTO NOBILE -

Non lo credo, bellezza.

 

LAFEU -

(A parte, osservando Bertramo)

Resta un chicco dal grappolo,

e tuo padre, son certo, amava il vino;

e tu non sei un asino, lo so,

com’io non sono più uno scolaretto

quattordicenne: ti conosco già.

 

ELENA -

(A Bertramo)

Non oso dir: “Vi prendo”,

ma che dono me stessa e i miei servigi

per tutta la mia vita al tuo potere

e alla tua guida. Sire, questo è l’uomo.

 

RE -

Bertramo, prendila, dunque, è tua moglie.

 

BERTRAMO -

Mia moglie, sire! La vostra maestà

vorrà concedermi in questa faccenda

ch’io mi faccia aiutare dai miei occhi.

 

RE -

Non sai quello che ha fatto ella per me?

 

BERTRAMO -

Sì, signore, lo so;

ma non spero di poter mai sapere

perché la dovrei prendere per moglie.

 

RE -

Sai che m’ha fatto alzare

dal mio letto di atroce sofferenza.

 

BERTRAMO -

E dovrebbe discenderne,

che l’aver fatto ella alzare voi

dovrebbe far calare in basso me?

Io la conosco bene: ella è cresciuta

in casa mia, a spese di mio padre.

Io, prenderla per moglie!

Sia causa il mio rifiuto di costei

piuttosto di perenne mia disgrazia

mio signore!

 

RE -

S’è solo la mancanza

in lei d’un titolo che tu disdegni,

io posso facilmente rimediarvi.

È ben strano che il sangue di noi uomini,

per colore, per peso e per calore

in tutti identico, se mescolato

l’un con l’altro sarebbe indistinguibile,

e si debbano invece attribuire

ad esso tali e tante differenze.

S’ella assomma in se stessa ogni virtù

salvo quella che dici di sdegnare

(esser lei figlia d’un povero medico)

tu sdegni la virtù per un blasone.

Non farlo. Quando opere virtuose

procedono da origine modesta

la loro origine trae dignità

da chi le compie, non dai suoi antenati.

E dove in titoli gonfi e sfarzosi

 

non alberga virtù, l’onore è idropico.

Il bene è bene da sé, senza nome;

così il male; la qualità è stimata

per quel che è, non pel nome che porta.

Ella è giovane, giudiziosa, bella,

e questi doni ha tutti ereditati

direttamente da madre natura,

e son essi che generano onore.

È un onore da burla, per converso,

quello di chi si vanta d’esser figlio

dell’onore, e non è come suo padre.

Fiorisce onore quando dai nostri atti

ci viene, più che da quelli degli avi.

Onore è termine anche spregevole,

quando è buttato, mendace epitaffio,

su ogni pietra tombale, su ogni tomba;

e spesso muto laddove la polvere

e un maledetto oblio coprono ossa

veramente onorate. Che più dirti?

Se ti senti di amar questa creatura

per la fanciulla semplice che è,

io, per lei, sono pronto a fare il resto.

 

Ella e la sua virtù son la sua dote;

ricchezza e titolo li avrà da me.

 

BERTRAMO -

Non mi sento di amarla,

e non voglio forzar me stesso a farlo.

 

RE -

Ma fai torto a te stesso

se pretendessi di scegliere altrove.([45])

 

ELENA -

Io son felice di avervi guarito,

signore. Al resto non pensiamo più.

 

RE -

È in gioco il mio onore,

e per difenderlo sono deciso

ad usare la mia autorità.

Su, prendila per mano,

orgoglioso e protervo giovinotto,

indegno d’un tal dono prelibato,

che cerchi, con spregevoli pretesti,

di mettere alla gogna l’onor mio

e i meriti di lei; non pensi tu

che se mettiamo la nostra persona

sul suo più alto piatto, la bilancia

farebbe tracollare quello tuo

fino al soffitto? Sai ch’è in noi il potere

di piantare la pianta del tuo onore

sul terreno sul quale piace a noi

di farlo crescere. Vedi perciò

di saper contenere il tuo disprezzo.

Obbedisci alla nostra volontà

che s’adopra soltanto pel tuo bene.

Non dar retta all’orgoglio;

rendi alle tue fortune l’obbedienza

che il dovere di suddito t’impone

e che la nostra potestà reclama,

ch’io non abbia ad escluderti per sempre

dalle mie cure, e lasciarti in balìa

dell’incurante e vacillante gorgo

dell’ignoranza e della gioventù,

scatenando su te la mia vendetta

e il mio odio, nel nome della legge,

senza il minimo senso di pietà.

Parla. La tua risposta.

 

BERTRAMO -

Mio grazioso signore, perdonatemi;

assoggetto il mio interno impulso

al vostro modo di vedere, sire.

Consapevole del potere vostro

di procurare grandezza ed onore

a pro di chi e dovunque lo vogliate,

io scopro che colei che ancor poc’anzi

il mio nobile animo pensava

infima, è ora l’eccelsa del re;

così nobilitata, ella ai miei occhi

è lo stesso che fosse nata nobile.

 

RE -

E allora avanti, prendila per mano,

dille che è tua, e lei la mia promessa

di titoli di proprietà e di grado

farà pesare almeno quanto te,

se non di più.([46])

 

BERTRAMO -

Accetto la sua mano.

 

RE -

La buona sorte e il favore del re

sorridano benigni a questo patto

che sarà celebrato senza indugio,

con rito breve, senza cerimonie,

stasera stessa. Il ritual festino

potrà aver luogo più in là, a suo tempo,

in attesa di amici ora lontani.

(A Bertramo)

Se tu l’ami, il tuo amore per me è sacro;

se no, sei un eretico.

 

 

(Escono tutti meno LAFEU e PAROLLES)

 

LAFEU -

Una parola, monsieur… m’ascoltate?

 

PAROLLES -

V’ascolto, monsignore.

 

LAFEU -

Bene ha fatto il signore tuo padrone

a rimangiarsi tutto.

 

PAROLLES -

Rimangiarsi!…

Il mio signore, eh? Il mio padrone!

 

LAFEU -

Sì, il tuo padrone: che linguaggio parlo?

 

PAROLLES -

Un linguaggio assai scabro, che a comprenderlo

avrebbe conseguenze sanguinose.

Il mio padrone!

 

LAFEU -

Che volete dire?

Siete voi pari al conte Roussillion?

 

PAROLLES -

A quello e a tutti i conti,

io sono pari, a tutto ciò che è uomo.

 

LAFEU -

A tutto ciò che sia uomo del conte;

il padrone del conte è altra roba.

 

PAROLLES -

Eh, siete troppo vecchio, signor mio,

rassegnatevi, siete troppo vecchio.

 

LAFEU -

Sono un uomo, messere, e dico “un uomo”,

un titolo che a te manco l’età

potrà dare, campassi anche cent’anni!([47])

 

PAROLLES -

Mi trattengo dal far verso di voi

cosa che mi sarebbe troppo facile.

 

LAFEU -

Per quel paio di volte,

che ci siamo trovati insieme a tavola,([48])

t’ho creduto persona di buon senso;

facevi tollerabilmente vanto

dei tuoi viaggi: il che può anche andare.

Ma le troppe fusciacche e bandierine

di cui sei sempre tutto pavesato

m’han dissuaso dal considerarti

un vascello di troppo grossa stazza.

Adesso poi ti sei scoperto tutto

e se ti perdo, non mi metto a piangere;

perché sei uno che non sa far altro

che porre cervellotiche domande,

ed anche in questo vali poco assai.

 

PAROLLES -

Se non vi proteggesse il privilegio

della vecchiaia…

 

LAFEU -

Non scaldarti troppo,

se non vuoi affrettare la tua prova,

altrimenti… Che Dio abbia pietà

di te e delle galline come te!

È meglio che ci salutiamo: addio,

faccione da vetrina di taverna!([49])

Non ho bisogno d’aprir le tue ante,

ché ti vedo attraverso. Qua la mano.

 

PAROLLES -

Signore, voi mi fate villania

in sommo grado.

 

LAFEU -

E con tutto il mio cuore,

è sempre meno di quanto ne meriti.

 

PAROLLES -

Non ne merito punto.

 

LAFEU -

Ah, sì, in coscienza,

fino all’ultimo decimo di grammo,

e non te ne torrò nemmeno un briciolo.

 

PAROLLES -

Bene, vuol dire che starò più accorto.

 

LAFEU -

E deciditi a farlo senza indugio,

perché dovrai mandar giù qualche rospo.

Quando con una di quelle tue sciarpe

sarai legato e picchiato a dovere,

allora capirai che voglia dire

farsi bello con tutti quei legacci.

Voglio restar comunque in relazione

con te, voglio anzi conoscerti meglio

sì che quando ti troverai nei guai

io possa dire: “È uno che conosco”.

 

PAROLLES -

Voi mi trattate in modi insopportabili,

monsignore.

 

LAFEU -

Vorrei, per il tuo bene,

che fossero le pene dell’inferno,

ed io a propinartele in eterno;

ma sono ormai fuori combattimento;

per cui ti pianto in asso,

con la più premurosa speditezza

consentitami dalla mia età.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Va’ va’, mi rifarò verso tuo figlio

di questi insulti, vecchio bofonchioso

ed immondo signore!

Per ora mi conviene pazientare,

non è possibile mettere in ceppi

l’autorità. Ma gliele suonerò,

se mi capita l’occasione giusta,

foss’egli il doppio del doppio più nobile!

 

 

Rientra LAFEU

 

LAFEU -

Ci sono novità per te, messere.

Il tuo padrone, nonché tuo signore,

ha preso moglie. Una buona notizia!

Ora avrai anche una nuova padrona.

 

PAROLLES -

Debbo sinceramente scongiurare

un’altra volta vostra signoria

di trattenersi dal recarmi offesa.

Il conte è il mio signore.

Il padrone che servo sta più in alto.

 

LAFEU -

Chi, Dio?

 

PAROLLES -

Appunto.

 

LAFEU -

Il tuo padrone è il diavolo.

Perché ti leghi quelle giarrettiere

alle maniche? Porti certe maniche

che paiono due braghe.

Fan così anche gli altri servitori?

 

Tanto varrebbe che ne andassi in giro

col deretano al posto della faccia.([50])

Foss’io più giovane, non dico tanto,

d’un paio d’ore, ti bastonerei.

Perché tu, a mio avviso, in quell’arnese,

sei davvero un’offesa universale,

e le dovresti prendere da tutti.

Tu sei stato creato, a mio parere,

perché il mondo s’alleni a schiaffeggiarti.

 

PAROLLES -

Questo è un brutale modo di parlare

ch’io non merito affatto, monsignore.

 

LAFEU -

Va’ là, messere, ch’io so che in Italia

l’hai prese sode per aver rubato

un acino da un melograno, un chicco;

tu sei un vagabondo,

altro che il grande e noto viaggiatore

che ti vanti di essere. Coi nobili

 

e con l’altre persone d’alto rango

ti permetti di prenderti licenze

più di quanto non te diano titolo

la tua nascita e quello che tu vali.

Se volessi sprecare la parola,

ti chiamerei canaglia. Ti saluto.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Bene, benissimo… dunque è così.

Pel momento, facciam finta di niente…

 

 

Entra BERTRAMO

 

BERTRAMO -

Rovinato! Inguaiato per la vita!

 

PAROLLES -

Che succede, dolcezza?

 

BERTRAMO -

Succede che benché l’abbia giurato

solenne e sacrosanto avanti al prete,

quella, a letto con me, non ce la porto!

 

PAROLLES -

Come, come, dolcezza?

 

BERTRAMO -

Parolles, amico mio, m’han dato moglie!

In Toscana io vado, a far la guerra,

ma quella, a letto io non me la porto!

 

PAROLLES -

Oh, hai ragione, sì, via dalla Francia!

È una buca da cani, questa Francia,

e non merita più che piede umano

la calpesti. Alla guerra, sì, alla guerra!

 

BERTRAMO -

Ho qui una lettera da casa mia.

È di mia madre, non l’ho ancora aperta.

 

PAROLLES -

Ci sarà tempo a leggerla.

Ora si va alla guerra, giovanotto.

Custodisce l’onore in un astuccio

chi resta ozioso a casa a non far altro

che stringer tra le braccia la sua bella,

sprecando in braccio a lei quel vigor maschio

che dovrebbe servirgli a controllare

gli scarti e le impennate del destriero

rutilante di Marte. Ad altre prode!

Questa Francia è una stalla,

e noi che ci restiamo dei ronzini.

Perciò, alla guerra!

 

BERTRAMO -

Ed io così farò.

La rispedisco a casa da mia madre,

non senza aver informato costei

di quanto io detesti quella donna,

e che appunto per questo son partito.

E da lontano poi scriverò al re

tutto quello che non ho avuto l’animo

di dirgli in faccia. Così apprenderà

che questo bel servizio che m’ha fatto

sarà solo servito a incoraggiarmi

a partire per quei campi italiani

dove si scontrano nobili spiriti.

La guerra è cosa di poca fatica,

a fronte di una casa manicomio

in compagnia d’una moglie aborrita.

 

PAROLLES -

Sei sicuro che questo tuo capriccio

ti durerà nel tempo?

 

BERTRAMO -

Vieni con me in camera e consigliami.

La spedisco via subito. Domani,

io alla guerra, e lei al suo rammarico

di zitella.

 

PAROLLES -

Eh, là, là, palla e rimpallo!

Un bel pasticcio! Giovane ammogliato,

uomo inguaiato. Perciò via, coraggio,

piantala e va’! Il re t’ha fatto torto?

Così è, zitto e mosca!

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA IV - Parigi, altra sala del palazzo reale.

 

Entrano ELENA leggendo una lettera e IL LAVA

 

ELENA -

Mia madre mi saluta. Ben gentile.

Sta bene?

 

LAVA -

Proprio bene non direi;

ma sta in salute, tutta vispa e allegra;

però bene non sta; ma, grazie al cielo,

sta benissimo e non le manca nulla.

Però, bene non sta.

 

ELENA -

Se sta benissimo,

che cos’ha, da non farla stare bene?

 

LAVA -

Ecco, in coscienza, starebbe benissimo,

tranne che per due cose.

 

ELENA -

Quali cose?

 

LAVA -

Una, che non è in cielo;

e piaccia a Dio di chiamarcela presto;

e due, che invece è in terra,

donde Dio voglia toglierla al più presto.

 

 

Entra PAROLLES

 

PAROLLES -

Fortunata signora, Dio vi salvi!

 

ELENA -

Spero trovarvi sempre premuroso

della mia buona fortuna, signore.

 

PAROLLES -

Ho pregato perché così l’aveste,

e seguito a pregare

ch’essa così vi duri conservata.

 

 

(Al Lava)

Ehi là, tu qui, furfante?

E la mia vecchia dama come sta?

 

LAVA -

Sta così: che se avessimo noi due

voi le sue rughe in faccia,

io i suoi soldi, avrei tanto piacere

che stesse come avete detto voi.

 

PAROLLES -

Io non ho detto niente.

 

LAVA -

E avete fatto bene a non dir niente,

perché più d’un padrone

è stato rovinato dalla lingua

dei suoi servi.