Dir niente, fare niente,

niente sapere, niente possedere

sono gran parte del vostro blasone,

di nobiltà, ch’è assai vicino a niente.

 

PAROLLES -

Va’, va’, che sei il solito gaglioffo.

 

LAVA -

Sarebbe stato meglio che diceste:

“Sei un gaglioffo in faccia ad un gaglioffo”,

ossia: “Gaglioffo tu, gaglioffo io”,

che sarebbe la santa verità.

 

PAROLLES -

Va’ va’, sei un buffone sotto spirito:

ecco che cosa sei; t’ho ben scoperto.

 

LAVA -

E m’avete scoperto da voi solo,

o ve l’ha indicato qualcun altro?

 

PAROLLES -

Da me, furfante.

 

LAVA -

Ah, sì, in casa vostra?

La ricerca v’ha dato buoni frutti,

allora, perché proprio in casa vostra,

è un tal buffone da spassare il mondo

e far crepare tutti dalle risa.

 

PAROLLES -

(A Elena)

Una buona canaglia, e ben nutrito.

Signora, il conte parte questa sera:

lo reclamano affari molto seri.

È cosciente dei grandi privilegi

e dei riti d’amore che quest’ora

imporrebbe siccome a voi dovuti;

ma indifferibili necessità

lo costringono ora a rinviarli;

questo differimento darà al tempo

di meglio distillar nel suo alambicco

le dolcezze, sicché l’ora ventura

trabocchi di letizia e di piacere.

 

ELENA -

Che cos’altro comanda il mio signore?

 

PAROLLES -

Che prendiate congedo istantemente

dal re, dicendogli che questa fretta

vien solo dalla vostra volontà,

corroborandola con quelle scuse

che pensiate la renda più plausibile.

 

ELENA -

Che altro mi comanda?

 

PAROLLES -

Che, una volta ottenuta tal licenza,

attendiate ulteriori sue istruzioni.

 

ELENA -

Farò tutto secondo il suo volere.

 

PAROLLES -

Glielo riferirò.

 

ELENA -

Sì, ve ne prego.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA V - La stessa.

 

Entrano BERTRAMO e LAFEU

 

LAFEU -

Voglio sperare che vossignoria

non lo consideri un buon soldato.

 

BERTRAMO -

Oh sì, e di valore a tutta prova.

 

LAFEU -

A prova solo delle sue parole.

 

BERTAMO -

E d’altri testimoni irrefutabili.

 

LAFEU -

Allora la mia bussola va male:

ho scambiato il fringuello per l’allodola.([51])

 

BERTRAMO -

Eppoi, signore, è uomo assai istruito

per quanto valoroso, v’assicuro.

 

LAFEU -

Avrò peccato contro il suo sapere

e trasgredito contro il suo valore,

allora: anima mia, sei in pericolo,

perché non sento proprio di pentirmi.

Ma eccolo. Vi prego intervenite

a far che mi diventi buon amico,

e io coltiverò quest’amicizia.

 

 

Entra PAROLLES

 

PAROLLES -

(A Bertramo)

Sarà tutto sbrigato, monsignore.

 

LAFEU -

(A Bertramo)

Signore, ditemi, chi è il suo sarto?

 

PAROLLES -

Signore!

 

LAFEU -

Ah, lo conosco. Già, “signore”,

lui, sì, buon artigiano, un bravo sarto.

 

BERTRAMO -

(A parte a Parolles)

È andata poi dal re?

 

PAROLLES -

Sì.

 

BERTRAMO -

Partirà?

 

PAROLLES -

Stasera, come le hai ordinato.

 

BERTRAMO -

La lettera a mia madre l’ho già scritta,

fatto il bagaglio e ordinato i cavalli;

sicché stanotte, quando dovrei prendere

possesso della sposa,

avrò finito prima d’iniziare.

 

LAFEU -

(A parte)([52])

Un grande viaggiatore

che al levar delle mense ti racconta

le avventure di viaggio, meno male;

ma uno che racconta fanfaluche

per due terzi del tempo, e ci rintrona

le orecchie di banalità arcinote

per gabellar le mille sue scemenze,

è da starlo a sentir solo una volta

e picchiarlo altre tre… Così costui.

(Forte a Parolles)

Salute, capitano!

 

BERTRAMO -

(A Lafeu)

C’è stato forse qualche dissapore

fra voi e questo signore, Monsieur?

 

PAROLLES -

Non so com’io possa aver meritato

di cadere in disgrazia con monsieur.

 

LAFEU -

Vi ci siete buttato anima e corpo,

con stivali, speroni e tutto il resto,

come uno ch’abbia voluto tuffarsi

in un mare di crema zabaione;

e adesso vi precipitate a uscirne

piuttosto che aspettar che vi si chieda

che diavolo ci state a far lì dentro.

 

BERTRAMO -

Forse lo avete giudicato male.

 

LAFEU -

E tale lo giudicherò per sempre,

dovessi pure coglierlo in preghiera.

Buona fortuna, conte, e, date retta:

sono noci senza gheriglio, queste.

Costui per anima ha il suo vestito:

non fategli fiducia,

almeno nelle cose più importanti.

Sono stato a contatto con più d’uno

di questi smidollati, e li conosco.

(A Parolles)

Addio, monsieur, ho parlato di voi

meglio di quanto abbiate meritato

o di quanto possiate meritare

ch’io lo faccia in futuro. Ma tant’è:

 

si deve rendere bene per male.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Un cervello un po’ ottuso, giurerei.

 

BERTRAMO -

Non m’è sembrato.

 

PAROLLES -

Che! Non lo conosci?

 

BERTRAMO -

Altro se lo conosco! E posso dirlo:

di lui parlano tutti con rispetto.

 

 

Entra ELENA

 

 

Ecco il mio piombo al piede.

 

ELENA -

Mio signore, ho parlato con il re,

secondo che m’avete comandato

ed ottenuto da lui la licenza

di partire da qui immediatamente.

Desidera però parlar con voi

in privato.

 

BERTRAMO -

Obbedisco al suo volere.

Non dovete meravigliarvi, Elena,

del mio contegno, che vi può sembrare

certamente non cònsono al momento,

né adempie alle funzioni ed ai doveri

 

che so d’essere miei. In verità

non ero preparato a un tale evento,

e sono stato colto alla sprovvista.

Ciò m’induce a pregarvi di partire

subito per la nostra residenza;

non domandatemi il perché di questo,

fatevene piuttosto una ragione

in voi stessa; perché le mie ragioni

son migliori di quanto non appiano,

ed i miei impegni sono più pressanti

di quanto può sembrare a prima vista,

a chi ne è all’oscuro, come voi.

Date questa a mia madre.

(Le dà una lettera)

Non ci vedremo prima di due giorni,

perciò vi affido alla vostra saggezza.

 

ELENA -

Signore, altra risposta non so darvi

che son la vostra umilissima serva…

 

BERTRAMO -

Su, su, basta così.

 

ELENA -

… e che sempre, con piena devozione,

cercherò di supplire a tutto ciò

che l’umili mie stelle m’han negato

con la nascita, per mostrarmi degna

della mia grande fortuna.

 

BERTRAMO -

Su, su,

lasciamo stare adesso. Ho molta fretta.

Tornate presto a casa. Arrivederci.

 

ELENA -

Di grazia, perdonate…

 

BERTRAMO -

Che c’è ancora?

 

ELENA -

Io non son degna di tanta ricchezza,

non oso dir nemmeno che sia mia…

però lo è… ma come un ladro timido,

mi struggo dalla voglia di rubare

sol quello che per legge m’appartiene.

 

BERTRAMO -

Che cosa, per esempio?

 

ELENA -

Qualcosa, o anche meno… nulla, nulla.

Non voglio dirvi quello che desidero,

mio signore… ma sì, sì, ve lo dico:

solo estranei e nemici, mio signore,

si separano senza darsi un bacio…

 

BERTRAMO -

Su, su, prego, non state ad indugiare,

mettetevi a cavallo.

 

ELENA -

Come volete voi, mio buon signore.

Dove sono i miei servi?

(A Parolles)

Addio, Monsieur.

 

 

(Esce)

 

BERTRAMO -

Va’, va’, vattene a casa,

dove sicuramente io non verrò

fintanto che potrò impugnare spada

ed udire un tamburo. A noi, andiamo.

 

PAROLLES -

Bravamente. Coraggio!

 

 

(Escono)

 

ATTO TERZO

 

SCENA I - Firenze, sala nel palazzo ducale.

 

Fanfara. Entrano il DUCA DI FIRENZE con scorta e due NOBILI francesi.

 

DUCA -

Così punto per punto avete udito

quali sono le cause essenziali

di questa guerra che già tanto sangue

ha fatto spargere, e che d’altro ha sete.

 

PRIMO NOBILE -

Sacrosanta ci pare la querela

di vostra grazia; nera ed infernale

quella accampata dalla parte avversa.

 

DUCA -

Perciò non è senza grande stupore

da parte nostra apprendere, signori,

che il nostro caro cugino di Francia

di fronte ad una causa tanto giusta

abbia chiuso il suo cuore alla richiesta

da parte nostra di mandarci aiuti.

 

SECONDO NOBILE -

Mio nobile signore,

io, in coscienza, di ragion di stato

non so parlare, se non nella veste

di un qualunque comune cittadino

che sta al di fuori delle procedure

del Consiglio del re

e può configurarsi nella mente

inadeguate o false congetture;

perciò non oso dire quel che penso,

perché mi son trovato troppe volte,

per scarsa conoscenza delle cose,

a indovinare e sbagliare di grosso.

 

DUCA -

Bah, faccia come vuole.

 

PRIMO NOBILE -

Sono certo però che molti giovani

che condividono le nostre idee,

stufi di starsene a poltrire in pace,

accorreranno qui di giorno in giorno

per la voglia di ritemprar le membra

nella guerra.

 

DUCA -

E saranno i benvenuti,

ed avranno da noi tutti gli onori

ch’è in nostra facoltà di conferire.

Voi conoscete già i vostri gradi;

quando se ne faranno di più alti,

saran per voi. Domani tutti in campo.

 

 

(Fanfara. Escono)

 

 

 

SCENA II - Rossiglione, il palazzo del conte.

 

Entrano LA CONTESSA con in mano una lettera e IL LAVA

 

CONTESSA -

È andata proprio come io volevo,

solo ch’egli non torna qui con lei.

 

LAVA -

A dir vero, il mio giovane signore

m’è apparso assai d’umore malinconico.

 

CONTESSA -

Da quali segni lo avresti capito?

 

LAVA -

Bah, sapete: si guarda gli stivali,

e canticchia; s’aggiusta la risvolta,

e canticchia; ti chiede qualche cosa,

e poi canticchia; si stuzzica i denti

e canticchia. Ho conosciuto un tale

che aveva questo umore malinconico

e s’è venduto un fastoso maniero

per una canzonetta.

 

CONTESSA -

Vediamo un poco che cosa mi scrive

e quando conta di tornare a casa.

 

 

(Apre con qualche difficoltà la lettera)

 

LAVA -

(A parte)([53])

Da quando son tornato da Parigi,

Isbel non mi va più.

I nostri baccalà e le nostre Isbel

qui di campagna, non son proprio niente

appetto ai baccalà ed alle Isbel

là della corte. Al mio bravo Cupido

è saltato il cervello, ora le donne

comincio veramente a vagheggiarle

come un vecchio il denaro: alla svogliata.

 

CONTESSA -

(Ha aperto la lettera e s’accinge a leggere)

Che dice qui?

 

LAVA -

Dice quello che dice!

 

 

(Esce)

 

CONTESSA -

(Legge)

“V’ho mandato una nuora:

“ha risanato il re,

“e rovinato me.

“L’ho sposata, ma non l’ho posseduta,

“e giuro che il mio “no” sarà per sempre.

“Vi diranno che son fuggito via:

“sappiatelo da me

“prima che ve ne giunga altrui notizia.

“Se per me ci sarà abbastanza spazio

“nel vasto mondo, mi terrò lontano

“più che potrò. Con tutto il mio rispetto,

“Bertramo, vostro sfortunato figlio”.

 

 

Non è per niente bello,

precipitoso e sbrigliato ragazzo,

fuggir così dai favori d’un re

tanto buono, attirando sul tuo capo

il suo sdegno per aver tu sdegnato

una fanciulla fin troppo virtuosa

per il rispetto d’un imperatore.

 

 

Rientra IL LAVA

 

LAVA -

Signora, brutte notizie in arrivo:

due soldati e la mia giovane dama.

 

CONTESSA -

Che c’è?

 

LAVA -

Però c’è qualcosa di buono

nelle notizie, qualcosa di buono:

che vostro figlio non sarà ammazzato

così presto com’io avrei creduto.

 

CONTESSA -

E perché dovrebb’essere ammazzato?

 

LAVA -

È quel che dico anch’io,

dato che, come dicono, è scappato.

Il pericolo sta nel farsi avanti,

perché è così che si perdono gli uomini,

anche s’è quello il modo di far figli.([54])

Eccoli, ne saprete più da loro.

Per parte mia, tutto quello che so

è che è scappato e basta.

 

 

(Esce)

 

 

Entra ELENA con due NOBILI francesi

 

PRIMO NOBILE -

Che Dio vi salvi, amabile signora.

 

ELENA -

Madama, il mio signore

se n’è andato, per sempre.

 

SECONDO NOBILE -

Oh, non così!

 

CONTESSA -

(A Elena)

Abbi pazienza.

(Ai nobili)

Signori, vi prego…

ho dovuto sentire in vita mia

troppe fitte di gioia e di dolore,

perché al sopravvenir dell’una o l’altro

non mi comporti più da vera donna.

Dov’è mio figlio, prego?

 

SECONDO NOBILE -

Signora, è andato a mettersi al servizio,

in Italia, del Duca di Firenze;

l’incontrammo ch’era diretto là,

donde veniamo e dove torneremo

dopo sbrigati alcuni affari a corte.

 

ELENA -

(Leggendo la lettera)

“Quando tu sarai in grado

“d’infilare al mio dito quell’anello

“che mai più dovrò togliere,

“e di mostrarmi un figlio da te nato

“e da me generato,

“solo allora potrai dirmi tuo sposo;

“ma io scrivendo “allora” scrivo “mai”.

È una condanna a morte.

 

CONTESSA -

Avete voi recato questa lettera,

signori?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, signora,

e sentendone ora il contenuto,

ci duole molto che così sia stato.

 

CONTESSA -

(A Elena)

Ti prego, cara, cerca di far cuore;

se ti accaparri tu tutta la pena,

me ne rubi metà. Era mio figlio.

Ma ne cancello il nome dal mio sangue,

e adesso tu sei l’unica mia figlia.

(Ai nobili)

A Firenze è diretto?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, signora.

 

CONTESSA -

Per arruolarsi?

 

SECONDO NOBILE -

Tale è il suo proposito;

e il Duca gli conferirà, credetemi,

ogni onore che a lui si converrà.

 

CONTESSA -

Voi tornate in Italia?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, signora,

al più presto che ci sarà possibile.

 

ELENA -

(Seguitando a leggere la lettera)

“E fino a quando non avrò più moglie,

“in Francia non avrò nulla di mio.”

Quale amarezza!

 

CONTESSA -

C’è scritto così?

 

ELENA -

Proprio così, signora, letterale.

 

PRIMO NOBILE -

Questa è forse soltanto avventatezza

della sua mano, alla quale il suo cuore

non consentiva.

 

CONTESSA -

Non ha nulla in Francia,

fintanto che non avrà più una moglie!

Qui non c’è nulla che sia troppo buono

per lui tranne costei, che per marito

meriterebbe un nobile signore,

cui venti ragazzacci come lui

potrebbero far solo da valletti,

chiamando lei, ad ogni ora, “padrona”.

E, ditemi, chi andava insieme lui?

 

PRIMO NOBILE -

Un suo servo ed un certo gentiluomo

che mi pare d’aver visto altre volte.

 

CONTESSA -

Parolles?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, buona signora, lui.

 

CONTESSA -

Un individuo molto scostumato,

e pieno di perfidia.

Mio figlio sotto la sua influenza

corrompe la bennata sua natura.

 

PRIMO NOBILE -

Certo, gentil signora,

il personaggio ha molto di quel troppo

che gli conviene per trarne profitto.([55])

 

CONTESSA -

Benvenuti, comunque, miei signori.

Vi prego, quando vedrete mio figlio,

ditegli che la spada

non potrà riacquistargli quell’onore

ch’egli perde così; molte altre cose

gli dirò per iscritto in una lettera

che pregherò voi stessi di recargli.

 

SECONDO NOBILE -

Disponete di noi, signora, in questo

e in tutto quanto vi piaccia affidarci.

 

CONTESSA -

Ma solo a patto che mi sia possibile

ricambiarvi le vostre cortesie.

Seguitemi, vi prego.

 

 

(Escono la contessa e i due nobili)

 

ELENA -

E fino a quando non avrò più moglie,

non avrò nulla in Francia”…

“Finché non avrò più una moglie in Francia…”

Non avrai più una moglie, Rossiglione,

nessuna moglie in Francia, sta’ tranquillo,

così potrai riavere tutto il tuo!

Son io dunque, mio povero signore,

che ti costringo fuor dal tuo paese,

che espongo le tue membra delicate

agli eventi rischiosi d’una guerra

che nessuno risparmia?

Son io la causa che ti fa fuggire

la vita ed i piaceri della corte

dov’eri sol bersaglio di begli occhi,

per renderti bersaglio di moschetti

dalle bocche fumanti?

O voi, violenti plumbei messaggeri,

che cavalcate i corsieri del fuoco,

deviate la vostra traiettoria,

colpite solo l’aria invulnerabile

che canta quando voi la trapassate,

 

e lasciate intoccato il mio signore!

Chiunque sparerà contro di lui,

son io la responsabile

d’aver fatto di lui il suo bersaglio;

chiunque lo potrà colpire in petto,

son io la sciagurata

che lo costringe lì; e se ad ucciderlo

non sarò io, sarò io sempre stata

la causa di sua morte.

Quanto meglio per me sarebbe stato

affrontare un leone

ruggente sotto i morsi della fame;

quanto meglio per me,

se tutte le disgrazie di natura

fossero riversate sul mio capo!…

No, Rossiglione, no,

torna a casa da lì, dove l’onore

può conquistarsi tanto una ferita,

quanto perdere tutto. Me ne andrò.

Se ciò che ti costringe a star lontano

è soltanto la mia presenza qui,

come poss’io restare, a questo prezzo?

No, no, spirasse pur su questa casa

aura di paradiso e fossero angeli

tutti i suoi servitori! Me ne andrò,

sì che voci pietose, a tuo conforto,

possano riportare ai tuoi orecchi

 

il lieto annuncio della mia scomparsa.

Cala, notte; finisci presto, giorno.

Al calar delle tenebre, furtiva

nel buio, come una povera ladra,

Elena si dileguerà.

 

 

(Esce)

 

 

 

SCENA III - Firenze, davanti al palazzo ducale.

 

Trombe. Entrano il DUCA DI FIRENZE, BERTRAMO, PAROLLES

e soldati con tamburi e bandiere

 

DUCA -

Ti abbiamo nominato generale

della nostra cavalleria, Bertramo,

e, pieni di speranza,

noi riponiamo in te il nostro affetto

e la nostra fiducia

sulle promesse della tua fortuna.

 

BERTRAMO -

Troppo pesante compito, signore,

per le mie forze, ma ci adopreremo

ad assolverlo per il vostro onore

fino all’estremo limite del rischio.

 

DUCA -

Avanti dunque! E possa la fortuna

giocare sul tuo elmo prosperoso

come la tua propiziatoria amante.

 

BERTRAMO -

Eccelso Marte, io entro nei tuoi ranghi

oggi stesso, e ti chiedo solo questo:

rendi il mio braccio pari ai miei pensieri,

ed io mi mostrerò del tuo tamburo

amante e dell’amore spregiatore.

 

 

(Fanfara. Escono tutti)

 

 

 

SCENA IV - Rossiglione, il palazzo del conte.

 

Entrano la CONTESSA e RINALDO; questi ha in mano una lettera.

 

CONTESSA -

Ahimè, e ti sei prestato suo latore

di questa lettera? Non hai pensato

che avrebbe fatto quello ch’ella ha fatto

dandoti quella lettera per me?

Leggimela di nuovo.

 

RINALDO -

(Legge)

Mi faccio pellegrina di San Giacomo,

“colà mi reco. Un amore ambizioso

“ha sì peccato in me, ch’io ora scalza

“calpesto il freddo suolo ad emendare

“con sacri voti questo mio errore.

“Scrivete ora, scrivete a vostro figlio,

“mio diletto padrone, che ritorni

“dal sangue e dai perigli della guerra.

“E quando sarà a casa, beneditelo,

“mentr’io, lontana, in fervoroso zelo

“invocherò in preghiera il nome suo.

“Chiedete voi per me il suo perdono

“per i duri disagi cui s’è esposto,

“ch’io sola fui, sua sdegnosa Giunone,

“a spingerlo lontano dalla corte

“per accamparsi tra nemiche schiere,

“là dove rischio e morte

“azzannano i calcagni del valore.

“Troppo egli è buono e bello

“per la morte e per me, che morte abbraccio

“per ridonargli intera libertà.”

 

CONTESSA -

Ah, quali acuti spilli pel mio cuore

anche le sue più tenere parole!

Rinaldo, mai sei stato sì maldestro

come adesso, a lasciarla andar così!

Se le avessi potuto parlare io,

sarei ben riuscita a dissuaderla

dal porre in atto simili propositi;

com’ella invece ha fatto.

 

RINALDO -

Signora, perdonatemi.

Se v’avessi potuto consegnare

questa sua lettera di prima sera,

forse c’era ancor tempo per raggiungerla;

però anche così, da quanto scrive,

sarebbe stato inutile inseguirla.

 

CONTESSA -

Quale angelo mai benedirà

questo indegno marito?

 

Non gli potrà venire nessun bene,

a meno che le preghiere di lei,

che son sì accette al cielo, non riescano

a proteggerlo dalla giusta collera

della superna giustizia.

Scrivi, scrivi, Rinaldo, a quel marito

davvero indegno d’una tale moglie,

ed abbia ogni parola che tu scrivi

tutto il peso dei meriti di lei,

ch’ei valuta con troppa leggerezza.

Esprimigli la mia immensa ambascia,

anche se in lui non avrà molta presa.

Spedisci il più veloce dei corrieri.

Forse quando saprà che se n’è andata,

farà ritorno a casa;

e io spero che anch’ella, nell’apprenderlo,

ritornerà al più presto, qui sospinta

dal suo amore sincero.

Quale di loro due mi sia più caro

non so. Procura tu questo corriere.

Ho un grande peso al cuore,

che la debole età mia non sopporta;

il dolore vorrebbe solo lacrime,

ma l’ambascia m’impone di parlare.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA V - Firenze, davanti alle mura della città.

 

Entrano l’anziana VEDOVA fiorentina con la figlia DIANA,

le amiche VIOLENTA e MARIANA e altri cittadini.

Squillo di tromba in lontananza.

 

VEDOVA -

Sbrighiamoci. Se entrano in città

ci perderemo tutto lo spettacolo.

 

DIANA -

Ho sentito che quel conte francese,

s’è fatto grande onore in questa guerra.

 

VEDOVA -

Si dice che abbia preso prigioniero

il comandante in capo dei nemici,

e che abbia ucciso il fratello del duca.

 

 

(Altro squillo di tromba all’interno, più vicino)

 

 

Ah, fatica sprecata!…

Se ne vanno in un’altra direzione.

Sentite, si capisce dalla tromba.

 

MARIANA -

Non ci rimane che tornare indietro

e contentarci che ce lo raccontino…

Diana, tieniti in guardia,

mi raccomando, dai corteggiamenti

di quel conte francese; una ragazza

non possiede altro onore che il suo nome,

e l’onestà è la più ricca dote.

 

VEDOVA -

(A Diana)

Ho raccontato alla nostra vicina

di come un gentiluomo suo compagno

abbia tentato approcci su di te.

 

MARIANA -

Lo conosco quel tipo, che l’impicchino!

Certo Parolles: un basso paraninfo

degli osceni capricci del padrone!

Guàrdati, Diana, da loro: promesse,

lusinghe, giuramenti, regalucci

e simili strumenti di lascivia

sono ben altro da quello che appaiono.

Sono molte a lasciarsene sedurre;

ed il tragico è che certi esempi

di come facilmente si distrugga

una verginità, pur sì terribili,

non valgono per nulla a dissuadere

tutte l’altre dal farlo ed a cadere

anche loro invischiate nella pania.

Ma voglio proprio sperar che per voi

non abbisognino altri consigli:

spero cioè che la vostra onestà

 

vi faccia rimanere come siete,

anche se ciò comporti il solo rischio

di apparire immodesta e invereconda.

 

DIANA -

Quanto a me, non avete da temere.

 

 

Entra ELENA vestita da pellegrina

 

VEDOVA -

Lo spero bene… Toh, una pellegrina!

So che cercherà alloggio a casa mia:

si passano la voce… Glielo chiedo.

(A Elena)

Il cielo vi protegga, pellegrina!

Dove siete diretta?

 

ELENA -

A San Giacomo Grande.([56]) Per favore,

dov’è che alloggiano qui i pellegrini?

 

VEDOVA -

A San Francesco, qui, presso la porta.([57])

 

ELENA -

Da quella parte?

 

VEDOVA -

Sì, giusto, di là.

 

 

(Marcia militare da lontano)

 

 

Sentite? Vengono da questa parte.

Se aspettate, devota pellegrina,

finché vediamo passare i soldati,

poi v’accompagno io al vostro alloggio;

tanto più perché credo di conoscere

quanto me stessa chi deve ospitarvi.

 

ELENA -

Sareste voi?

 

VEDOVA -

Con vostra buona pace.

 

ELENA -

Vi ringrazio. Starò quanto vi piaccia.

 

VEDOVA -

Venite dalla Francia, mi figuro?

 

ELENA -

Infatti.

 

VEDOVA -

Qui vedrete ora sfilare

un cavaliere vostro conterraneo

che s’è portato valorosamente.

 

ELENA -

Come si chiama?

 

DIANA -

Conte Rossiglione.

Lo conoscete?

 

ELENA -

Per averne udito,

e se ne parla molto nobilmente;

ma di persona non l’ho visto mai.

 

DIANA -

Chiunque sia, qui è considerato

un prode combattente.

Si dice sia fuggito dalla Francia

perché quel re gli aveva dato moglie

contro sua volontà. Può esser vero?

 

ELENA -

Verissimo, conosco la sua sposa.

 

DIANA -

Un gentiluomo al seguito del conte

dice di lei tutto il male possibile.

 

Elena -

Sapete il nome?

 

DIANA -

Sì, monsieur Parolles.

 

ELENA -

Son d’accordo con lui,

ché in quanto a doti personali e meriti

se confrontata col nobile conte,

ella è davvero di troppo inferiore,

perché si debba solo nominarla.

Suo unico pregio, questo sì,

è una intemerata castità

su cui, ch’io sappia, non c’è da ridire.

 

DIANA -

Ah, povera signora!

Dev’essere ben dura schiavitù

esser sposata ad uno che l’aborre!

 

VEDOVA -

Chiunque sia, la povera creatura,

deve portare un grosso peso al cuore…

Però questa ragazza, se volesse,

(Indica Diana)

potrebbe renderle un bel servizio.

 

ELENA -

Che intendete? Che il conte, infatuato,

la tenterebbe con proposte illecite?

 

VEDOVA -

Appunto. E fa ricorso a tutti i mezzi

adatti in simili corteggiamenti

a corrompere la fragilità

d’una fanciulla. Ma, per sua fortuna,

ella è ben corazzata e sa tenersi

con lui in onestissima difesa.

 

MARIANA -

E Dio ne guardi se così non fosse!

 

 

Entrano, sfilando con tamburi e bandiere, BERTRAMO, PAROLLES con tutto l’esercito

 

VEDOVA -

Eccoli, arrivano!… Quello è Antonio,

il figlio primogenito del duca.

Quell’altro è Escalo.([58])

 

ELENA -

Qual è il Francese?

 

DIANA -

Eccolo, quello col pennacchio in testa.

Uno assai coraggioso. E vorrei tanto

che volesse anche bene alla sua moglie!([59])

Se fosse anche più onesto,

sarebbe un uomo davvero adorabile.

Non è un bel tipo?

 

ELENA -

Sì, mi piace molto.

 

DIANA -

Peccato che non sia altrettanto onesto.

E quell’altro è il furfante ch’è con lui

e che gli fa da guida in certi posti.

Foss’io sua moglie, darei del veleno

a quel fior di canaglia.

 

ELENA -

Ma qual è?

 

DIANA -

Quello scimmiotto, là, con quelle sciarpe

che gli svolazzano di qua e di là.

Però lo vedo alquanto rabbuiato.

 

ELENA -

Forse è stato ferito combattendo.

 

PAROLLES -

(Sfilando, come parlando a se stesso)

Noi perdere il tamburo!… Dannazione!

 

MARIANA -

Dev’esser dispiaciuto per qualcosa.

Ci ha viste.

 

VEDOVA -

(A Parolles che sfila)

Impiccati, accidenti a te!

 

MARIANA -

Te e le tue smancerie, ruffianaccio!

 

 

(Escono marciando Bertramo, Parolles e soldati)

 

VEDOVA -

Son passati. Venite, pellegrina,

vi guido dove troverete ostello.

In casa mia ce ne son già quattro o cinque,

anche loro diretti in penitenza

a San Giacomo Grande.

 

ELENA -

Vi ringrazio.

Non vorreste dividere con me

la cena? Ed anche voi, gentil fanciulla.

È un picciol segno di riconoscenza

che v’offro; e, ad ulteriore ricompensa,

vedrò di dare a questa brava giovane

un qualche non inutile consiglio.

 

VEDOVA e DIANA -

Accettiamo di cuore il vostro invito.

 

 

(Escono tutte)

 

 

 

SCENA VI - Accampamento davanti a Firenze.

 

Entrano BERTRAMO e DUE NOBILI francesi

 

PRIMO NOBILE -

Eh, no, mio buon signore, questa volta

voi lo dovete mettere alla prova,

e lasciare che faccia a modo suo.

 

SECONDO NOBILE -

E se alla fine vostra signoria

non scoprirà che quello è un gran cialtrone,

mi neghi pure tutto il suo rispetto.

 

PRIMO NOBILE -

Parola mia, signore, un bubbolone.

 

BERTRAMO -

Diamine, mi sarei tanto ingannato

sul suo conto?

 

PRIMO NOBILE -

Credetemi, signore,

per mia propria diretta conoscenza,

lo dico senza alcuna cattiveria

e come se parlassi di un parente:

quello è un fior di vigliacco,

un grosso, inesauribile bugiardo,

mancator di parola a tutte l’ore,

sprovvisto di qualsiasi qualità

per cui si possa dire meritevole

di conservar la vostra simpatia.

 

SECONDO NOBILE -

Sarebbe bene che lo conosceste

per quel che è; se no, facendo credito

ad una integrità che non possiede,

vi potreste trovare a mal partito

a causa sua in qualche grossa impresa

o in circostanze di grave pericolo.

 

BERTRAMO -

Già, metterlo alla prova; ma in che modo?

 

SECONDO NOBILE -

Il miglior modo è di lasciarlo andare

a riprendersi in campo il suo tamburo,

come lo avete udito menar vanto

di voler fare con tanta baldanza.

 

PRIMO NOBILE -

E là io, con tre - quattro fiorentini,

gli salteremo addosso di sorpresa;

sceglierò uomini che non conosce,

sì che si creda in mano di nemici.

Lo legheremo, lo incappucceremo,

da fargli creder d’esser trasportato

verso l’accampamento del nemico,

e sarà invece nelle nostre tende.

Vossignoria dovrà soltanto assistere

all’interrogatorio che faremo:

s’egli, davanti alla nostra promessa

di fargli salva la vita, se parla,

punto da vil paura, non dirà

d’esser pronto a tradirvi e a spiattellarci

tutte le informazioni in suo possesso

sopra di voi, giurando e spergiurando

sulla salvezza dell’anima sua,

non fidatevi più del mio giudizio.

 

SECONDO NOBILE -

Oh, ci sarà da ridere.

Mandiamolo a riprendersi il tamburo.

Lui dice già d’avere sottomano

un suo particolare stratagemma.

Quando avrete assistito, monsignore,

al fallimento di questa sua impresa

e constatato di che falsa lega

è composta questa pepita d’oro,

se non lo caccerete a bastonate([60])

come l’ospite più indesiderato,

vuol dire che la vostra compiacenza

è proprio immarcescibile. Ma eccolo.

 

 

Entra PAROLLES

 

PRIMO NOBILE -

Ah, se volete farvi due risate,

non impeditegli di aver l’onore

di attuare il suo piano; in ogni caso,

che si vada a riprendere il tamburo.

 

BERTRAMO -

(A Parolles)

Ehilà, monsieur! Allora il tuo tamburo

t’è rimasto davvero in gola, eh?

 

SECONDO NOBILE -

Al diavolo! Non ci pensate più!

Alla fine non è poi che un tamburo.

 

PAROLLES -

E un tamburo per voi non vuol dir niente?

E perduto, per giunta, in questo modo?

Che razza di comando!

Dare l’ordine alla cavalleria

di far impeto contro le stesse ali

del nostro schieramento, e sbaragliare

in tal modo le nostre stesse truppe!

 

SECONDO NOBILE -

Non se ne può far carico al comando:

sono di quegli incerti

che càpitano in tutte le battaglie;

nemmeno Cesare avrebbe potuto

impedire che si verificasse

se fosse stato lui il comandante.

 

BERTRAMO -

Beh, non possiamo troppo lamentarci

del successo ottenuto, dopo tutto;

solo la perdita di quel tamburo

non ci ha recato onore; ma tant’è,

recuperarlo ormai sarà impossibile.

 

PAROLLES -

Poteva essere recuperato.

 

BERTRAMO -

Poteva; il fatto è che non lo è stato.

 

PAROLLES -

Quel tamburo dev’essere ripreso.

Se non fosse che in guerra

raramente l’onore di un’impresa

è attribuito a colui che la compie,

io, quel tamburo o un altro qualsivoglia,

mi sentirei capace di riprenderlo,

a costo d’un “hic jacet”.([61])

 

BERTRAMO -

Bene, monsieur, se proprio te la senti,

forza! Se pensi che la tua maestria

in materia di arcani stratagemmi

possa far ritornare alla sua sede

quello strumento d’onore, sii grande,

gettati nella grande impresa e va’!

Onorerò questo tuo tentativo

come una degna azione. Se riesce,

il Duca ne farà pubblico elogio

e ti darà fino all’ultima sillaba

tutti i dovuti riconoscimenti

che si convengono alla sua grandezza.

 

PAROLLES -

Giuro su questa mano di soldato

che sono pronto a farlo.

 

BERTRAMO -

Bravo, però senza dormirci sopra.

 

PAROLLES -

Subito; questa sera.