Il muro posteriore, da cui entravo una volta attraverso una porta rossa (scomparsa), è senza il garage da due posti e orbo di tutti gli impianti (tubi, tondino, elettricità), i cui filamenti penzolanti, insieme a qualunque altra cosa l’avesse mai collegato al resto del mondo, ciondolano afflosciati dal “sedere” nudo della casa, che un tempo non si poteva vedere. Il biondo camino in muratura è scomparso, mentre c’è ancora il focolare di pietra, visibile dallo squarcio nella parete del soggiorno. La scala esterna con la ringhiera non c’è più. Il terrazzo panoramico, dove ho passato notti felici guardando costellazioni che non sapevo identificare, è piegato all’ingiù e rimane attaccato alla sovrastruttura sconquassata con i bulloni a staffa che stringevo ogni autunno. Tutto ciò che allora era di vetro, adesso è un buco. Si vedono anche i bulloni dello “spazio aperto” dove in anni ormai lontani trascorrevano, dolci e bisbiglianti, le ore tarde del giorno con Sally, o allegre serate di bevute con qualche vecchio amico del Michigan che si era presentato inaspettatamente con una bottiglia di Pouilly-Fuissé... in altri termini, dove la vita continuava.
Quella che è rimasta intatta è la bigia gettata di cemento delle fondamenta: una fossa rettangolare sorprendentemente piccola con una scala di legno che non va da nessuna parte. La grossa pompa di calore Trane è ancora al suo posto nell’acqua fredda che si è raccolta. Ma tutti gli altri oggetti che si trovavano nel seminterrato – biciclette, casse di corredi, vecchie uniformi, generazioni di scarpe, rastrelliere per il vino, valigie sfondate di proprietà del padre di qualcuno, scatole e scatole e scatole di roba di cui avresti dovuto liberarti decenni fa – tutto questo è stato risucchiato e sparso sul campo di qualche agricoltore a Lakehurst, per essere ritrovato, magari restituito, o altrimenti messo in un museo per commemorare il timore reverenziale che incute madre natura quando si mette in testa di prenderti per il culo.
Le altre case lungo Poincinet sono semplicemente sparite, tutt’e quattro, lasciando solo cantine vuote come la mia. Anche se, liberando lo spazio che occupavano così poco tempo fa, queste case hanno riconfigurato una nuova e bella vista: l’oceano e la spiaggia com’erano una volta, in un tempo immemorabile. C’è solo un pescatore con gli stivaloni fino all’inguine che cerca spigole con la lunga canna tesa verso la marea in arrivo. Porta un pesante maglione con le trecce, grossi guanti e un berretto di lana arancione, e sembra che non abbia preso niente. Al largo, tra la terra e il banco di nebbia, a una distanza incommensurabile dal mio posto dietro il volante, una grande nave da crociera bianca – con i dodici ponti che rollano pesantemente – spicca immobile sul grigio dello sfondo. Carnival, Princess, norvegese: una di quelle. Ho l’impressione che i passeggeri, affacciati ai parapetti, stiano scrutando quello che una volta era il New Jersey, facendo con i telefonini fotografie da inviare a casa, ad Ashtabula e Boise, mentre continuano a bordeggiare verso Great Abaco. Non sono così certo che riescano a immedesimarsi nella nostra vita sulla costa.
Io, però, sono colpito da una cosa che prima non avevo mai pensato, anche nel mio ruolo di specialista residenziale in cerca di asilo per i bisognosi. E la cosa è questa: che poca differenza fa una casa quando non c’è più. Con quale prontezza, per non dire fluidità, il mondo torna a far valere i suoi diritti e ridiventa se stesso. La gente si torce le mani e prorompe in vivaci proteste quando sorge una nuova vistosa struttura che proietta la sua ombra sgraziata; o quando un parcheggio dietro la Pathway copre di cemento il sacro cumulo preistorico degli scomparsi Lenape o una palude dove nidificavano gli aironi e le anatre sostavano per riposarsi. Come se questi mali durassero in eterno. Non è così. Forse non tutto è vanità (anche se molte cose lo sono); ma non c’è nulla che metta radici per sempre. Di un bell’uragano che va per le spicce si può dire che rimette la vita in prospettiva. Vale sempre la pena di notarlo, quando non ci sentiamo precisamente come credevamo che ci saremmo sentiti. Facile a dirsi, naturalmente, dal momento che io non abito più qui.
Dalla spiaggia, aperta dall’assenza di quelle che erano le case della gente, la vista spazia fino a Ortley Beach e oltre, dove le ossa del vecchio otto volante giacciono abbandonate nell’acqua di mare. Due figure minuscole e remote portano a spasso un cane lungo la battigia. Una ruspa – sento il suo lontano biiip attraverso il finestrino – sta riportando sulla spiaggia la sabbia che ha coperto le strade. Sento – oltre le dune, invisibili – uno strepito di martelli che battono sul legno, e l’allegro ronzio dello spagnolo. Com’è strana la vita. Un giorno Reynoso, il giorno dopo Sea-Clift.
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