Ah-ah-ah-ah.”

Nelle ultime settimane ho iniziato a compilare un inventario personale di parole che, a mio avviso, non si dovrebbero più usare: nella conversazione o in qualunque forma. Questo, nella convinzione che la vita è materia di sottrazione graduale, che punta a un’essenza più solida, più-quasi-perfetta, dopodiché ogni attività mentale se ne va e noi proseguiamo per le nostre Chillicothe virtuali. Una scorta più ridotta di parole migliori potrebbe servire, credo, ed essere un esempio per un più lucido ragionare. Non è tanto diverso dal trasferirsi a Praga senz’aver imparato la lingua, così l’inglese che finisci col parlare per farti capire porta la speciale responsabilità di essere chiaro, semplice e con i piedi per terra. Quando diventi vecchio, come me, vivi comunque nelle accumulazioni della vita. Non che succedano grandi cose, a parte sul fronte della medicina. Meglio semplificare tutto. E cosa c’è di meglio che mettersi a semplificare le parole che scegliamo per esprimere i nostri pensieri, sempre più rari, sempre più errabondi? Sarebbe impegnativo, ad esempio, per una persona di madrelingua ceca apprezzare pienamente le parole popò o cazzarola, o la frase “Siamo incinti” o “Prendiamo qualcosa di pronto”. O anche, se è per questo, fico quando significa appena “tollerabile”. O primino o pupilla o strascico. O non c’è problema quando in realtà vuoi dire solo “Prego”. Analogamente, atterraggio morbido, obbligazione, idratare (quando significa semplicemente “bere”), fare arte, partecipare, aspirare, blablà usato verbalmente e... a proposito della Magic Zero-Zero-Sette: BOMBA EFFE. Fuck, per me, è ancora abbastanza utilizzabile come sostantivo, verbo o aggettivo, con le chiare e distinte colorazioni della sua già ricca storia. La lingua imita i tumulti popolari, diceva il poeta.2 E oggi cos’è la vita, se non una sommossa?

Ieri, appena passate le otto, una telefonata inattesa mi ha rovinato la mattina. Ha risposto mia moglie Sally, che però mi ha buttato giù dal letto per passarmi la chiamata. Ero sveglio, ancora coricato nel primo sole e nelle prime ombre, e fantasticavo sulla possibilità che in qualche posto, e in qualche modo, stesse succedendo qualcosa di bello che presto si sarebbe ripercosso su di me rendendomi felice, solo che non ne ero ancora a conoscenza. Da quando ho lasciato il mio lavoro di agente immobiliare (dopo decenni), un’aspettativa di questo genere è la cosa che mi manca di più. Anche se è l’unica cosa, dalla piega che ha preso il mercato e da tutto quello che è successo a me. Io sono contento di stare qui a Haddam, a sessantotto anni, a godermi la Prossima Età della vita, presumibilmente l’ultima: come dato statistico della classe che non ha carte sulla scrivania ed è libera di fare tutto il bene del mondo, se dovesse scegliere di farlo. In questo spirito, una volta la settimana vado su al Liberty di Newark con un gruppo di veterani ad accogliere i soldati stanchi e disorientati che tornano dall’Afghanistan e dall’Iraq dopo il loro anno di servizio. Non credo proprio che questo sia un “impegno”, o un vero “risarcimento”, perché non è una grande seccatura stare là in piedi con il sorriso sulle labbra e la mano tesa dichiarando ad alta voce: “Bentornato a casa, soldato (o marinaio o aviere)! Grazie per il servizio che hai reso!”. È più esibizionistico che serio, e in gran parte destinato a dimostrare che noi siamo ancora rilevanti, e dunque garantito che è la prova del contrario. In ogni caso, i miei sensori personali sono sempre all’erta per cogliere quel qualcosa in più di positivo che posso fare nel tempo che mi resta prima della fine dei miei giorni: altrimenti detto pensione.

“Frank? È Arnie Urquhart,” ha gracchiato al telefono una burbera voce maschile, troppo forte, vincendo lontani rumori del traffico. Sullo sfondo, chissà dove, c’era della musica: Peter, Paul & Mary che cantavano Lemon Tree, dal remoto ’65. “Le-mun tree, ve-ry pritty / and the lemun flower is sweet...”. Dov’ero io, in pigiama, davanti alla finestra che dà sulla strada, mentre il letturista dell’Elizabethtown Water veniva su per il vialetto a controllare il nostro consumo, la mia mente è volata a ritroso nel tempo fino al viso della sensualissima Mary: con la sua bocca crudele, la sua disinvoltura, i suoi biondi capelli sferzanti, la promessa, formulata dalla sua voce di contralto, di un coito spicciativo per il quale avresti rinunciato a tutta la tua dignità, pur sapendo benissimo che non avresti superato l’esame. Una bella differenza da come, anni dopo, finì la sua vita, imbruttita e irriconoscibile. (Chi degli altri due era il pipparolo? Uno si trasferì nel Maine.) “...but the fruit of the poor lemun is im-poss-i-bul to eat...”

“Abbassa qualcosa, Arnie,” ho detto attraverso la babele che mi separava da lui, ovunque fosse Arnie sul pianeta. “Non ti sento.”

“Oh, sì.