Okay.” Il liquido fruscio del vetro di un finestrino chiuso automaticamente. La povera Mary ha taciuto come la pietra sotto la quale è sepolta.
Il collegamento è diventato più chiaro, poi c’è stata una lunga interruzione. Non parlo più tanto con la gente per telefono.
“Perché tutti i meteorologi sperano sempre in una cazzo di giornata di sole?” ha detto Arnie, ora lontano dal telefono. Aveva messo il viva voce e sembrava che parlasse dal passato.
“È nel loro Dna,” ho detto io dalla finestra sul davanti.
“Sì, sì.” Arnie ha emesso un raschiante sospirone. Là dov’era si sentivano sfrecciare delle automobili.
“Dove sei, Arnie?”
“Sono fermo sulla maledetta Garden State, vicino a Cheesequake. Sto andando giù a Sea-Clift, o a quel cazzo che ne resta.”
“Vedo,” ho detto. “La tua casa in che stato è?”
“Ah, tu vedi, Frank? Bene, sono lieto che tu veda, cazzo.”
Ai tempi lontani della pacchia della bolla immobiliare, poi scoppiata, ho venduto ad Arnie non solo una casa, ma la mia casa. A Sea-Clift. Un’imponente villa sulla spiaggia progettata da un architetto, tutta vetro e sequoia, costruita proprio davanti a quello che sembrava un mare benigno e luccicante. La seconda casa sognata da chiunque. Feci in modo che Arnie sputasse una bella sommetta (due virgola otto, senza commissione perché era una vendita tra privati). Sally e io avevamo deciso di spostarci nell’interno. Ero pronto a svitare la targhetta del campanello. Otto anni fa, in autunno: due settimane prima di Natale, come ora.
A mia difesa, avevo fatto varie telefonate a Hopatcong, alla residenza principale di Arnie, per sapere in che modo la sua/mia casa al mare aveva superato l’uragano. Avevo chiamato diversi vecchi clienti, compreso il mio ex socio nell’agenzia immobiliare. Tutte le notizie erano cattive, cattive, cattive. A Haddam, Sally e io abbiamo perso solo due piccole querce (una già morta), mezzo tetto della baracca per gli attrezzi, più il parabrezza incrinato della mia macchina. “Tanto chiasso per niente,” come diceva mia madre, prima di fare con le labbra, pfffttt, il rumore di una scoreggia, e di scoppiare in una sonora risata.
“Ti ho telefonato, forse tre volte, Arnie,” ho detto, sentendomi girare la testa e gelare il sangue dall’impressione di essere un bugiardo: anche se non lo sono, non in questo caso.
Il letturista dell’Elizabethtown, mentre andava verso il suo furgone, si è voltato dalla mia parte alzando i pollici. Il nostro consumo d’acqua a novembre: nessun problema.
“È come chiamare il cadavere per dire che ti spiace che sia morto.” La voce di Arnie, al viva voce, ora spariva e ora tornava nel suo tragitto da Cheesequake. “Cosa volevi propormi, Frank? Invitarmi a pranzo? Ricomprarti la casa? Non resta più nessuna casa quaggiù, idiota.”
Non avevo risposte. Il gesto più evidente di amicizia, commiserazione, partecipazione, empatia e comprensione per il dolore patito è soltanto un debole sostegno nella lotta contro una vera perdita. Avevo solo voluto sapere che non fosse successo il peggio: e non era successo, come avevo visto. Ma il posto dove si era abbattuto il colpo era Sea-Clift, come a Dunkerque. Impossibile schivare una pallottola.
“Non sto dando la colpa a te, Frank. Non è per questo che sono qui al megafono.” Arnie Urquhart è un ex Michigan Wolverine come me. Laureati del ’68. Hockey. Borsa di studio Rhodes. Associazione studentesca Lambda Chi. Croce della marina.
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