Una terza si meravigliava che la mosca, l'animale più ricco d'occhi, veda tanto imperfettamente. Infine una raccontava di un uomo che, dopo di aver schiacciato una mosca noiosa, le gridò: “Ti ho beneficata; ecco che non sei più una mosca”. Con tale sistema era facile di avere ogni giorno la favola pronta col caffè del mattino. Doveva venire la guerra ad insegnargli che la favola poteva divenire un'espressione del proprio animo, il quale così inseriva la mummietta nella macchina della vita, quale un suo organo. Ed ecco come avvenne.
Allo scoppio della guerra italiana, Mario temette che il primo atto di persecuzione che l' I. e R. Polizia avrebbe esercitato a Trieste, sarebbe venuto a colpire lui - uno dei pochi letterati italiani restati in città - con un bel processo che forse l'avrebbe mandato a penzolare dalla forca. Fu un terrore e nello stesso tempo una speranza che lo agitò, facendolo ora esultare ed ora sbiancare dal terrore. Egli si figurava che i suoi giudici, tutto un consiglio di guerra composto dei rappresentanti di tutte le gerarchie militari, dal generale in giù, avrebbe dovuto leggere il suo romanzo, e - se ci doveva essere giustizia - studiarlo. Poi certamente sarebbe giunto un momento un po' doloroso. Ma se il consiglio di guerra non era composto di barbari, si poteva sperare che, dopo letto il romanzo, per premio, la vita gli sarebbe stata risparmiata. Perciò egli scrisse molto durante la guerra, rabbrividendo di speranza e di terrore ancora più di un autore che sa che c'è un pubblico che aspetta la sua parola per giudicarla. Ma, per prudenza, scrisse solo delle favole dal senso dubbio, e, nella speranza e nella paura, le piccole mummie gli si vivificarono. Il consiglio di guerra non avrebbe mica potuto condannarlo facilmente per la favola che trattava di quel gigante grosso e forte che combatteva su una palude contro degli animali più leggeri di lui, e che periva, sempre vittorioso, nel fango che non sapeva sostenerlo. Chi avrebbe potuto provare che si trattava della Germania? E perchè pensare alla stessa Germania a proposito di quel leone, che vinceva sempre, perchè non s'allontanava di troppo dalla propria grande, bella tana, finchè non si scopriva che la grande, bella tana si prestava ad un affumicamento d'esito sicuro?
Ma così Mario s'abituò a moversi nella vita sempre accompagnato dalle favole, come se fossero state le tasche del suo vestito. Progresso letterario ch'egli doveva alla polizia, la quale però si dimostrò del tutto ignorante della letteratura paesana, e lasciò in pace, per il corso di tutta la guerra, il povero Mario disilluso e rassicurato.
Poi ci fu un altro piccolo progresso nella sua opera con la scelta di protagonisti più adatti. Non più gli elefanti, tanto lontani, nè le mosche dagli occhi privi di ogni espressione, ma i cari, piccoli passeri ch'egli si prendeva il lusso (grande lusso, a Trieste, di quei giorni) di nutrire nel suo cortile con briciole di pane. Ogni giorno egli spendeva qualche tempo a guardarli moversi, ed era quella la parte più brillante della giornata, perchè la più letteraria, forse più letteraria delle stesse favole che ne risultavano. Se desiderava addirittura di baciare le cose di cui scriveva! Di sera, sui tetti vicini e su un alberello intristito nel cortile, sentiva cinguettare i passeri, e pensava che prima di piegare sulla schiena al sonno la testina, si dicessero le avventure della giornata. Al mattino era lo stesso cicaleccio vivo e sonoro. Si dicevano certamente i sogni della notte. Come lui stesso vivevano fra le due esperienze, quella della vita reale e quella dei sogni. Erano infine degli animali che avevano una testa in cui potevano annidarsi dei pensieri, e avevano dei colori, degli atteggiamenti eppoi anche una debolezza da far compassione, e delle ali da destare l'invidia, perciò la vera e propria vita. La favola restò tuttavia la piccola mummia irrigidita da assiomi e teoremi, ma almeno la si potè scriver sorridendo.
E la vita di Mario s'arricchì di sorrisi. Un giorno scrisse:
“Il mio cortile è piccolo, ma, con l'esercizio, vi si potrebbero spendere dieci chilogrammi di pane al giorno”. Un vero sogno di poeta cotesto. Dove trovare in quell'epoca dieci chilogrammi di pane per gli uccellini privi di tessera? Un altro giorno: “Vorrei saper abolire la guerra sul piccolo ippocastano nel mio cortile, la sera, quando i passeri cercano il miglior posto per la notte, perchè sarebbe un buon segno per l'avvenire dell'umanità”.
Mario coperse di tante idee i poveri passeri da celarne le esili membra. Il fratello Giulio che abitava con lui, e pretendeva di amare la sua letteratura, non sapeva amarla abbastanza per includervi anche gli uccelletti. Pretendeva che mancassero d'espressione. Ma Mario spiegava ch'erano essi stessi un'espressione della natura, un complemento delle cose che giacciono o camminano, al disopra di esse, come l'accento sulla parola, un vero segno musicale.
L'espressione più lieta della natura: negli uccellini neppure la paura è verde e abietta come nell'uomo, e non mica perchè celata dalle pene, chè appare anzi evidente, ma non altera in alcun modo il loro elegante organismo.
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