Ma ebbe allora la ventura di ammalare, e gli uccellini che non trovarono più il pane cui erano usi, cinguettarono dappertutto: "Il pane che c'era sempre non c'è più, ed è un'ingiustizia, un tradimento". Allora una moltitudine di passeri si recò a quel posto ad ammirare la provvidenza che aveva cessato di manifestarvisi, e quando il benefattore risanò, non ebbe pane abbastanza per saziare tutti i suoi ospiti”.
È difficile di conoscere le origini di una favola. Il titolo solo rivela che questa dev'essere nata nella stanza dell'ammalato ove Mario aveva trovato il suo successo. Chi conosce le vie per cui si muove l'ispirazione, non si meraviglierà che dal successo tanto semplice avuto da Mario col fratello, si sia saltati a quel successo del buon diavolo della favola, che aveva avuto bisogno di ammalare per arrivarci. Non intenderà donde sieno venuti quegli uccellini tanto maliziosi che sapevano piangere in pubblico ma, per avarizia, tenevano celata ai compagni la loro buona fortuna, a meno non si supponga, ciò ch'è un po' difficile, che il poeta, quando scrive, sia chiaroveggente, e che nel proprio successo Mario abbia intuita la malizia di Giulio. Invece bisogna pensare che quando un uomo, nella posizione di Mario, si mette ad analizzare l'elemento successo, attribuisce della malvagità a tutti, anche agli uccellini.
La sera seguente Mario si fece pregare per riprendere la lettura. “Troppo presto ti addormentasti, - disse al fratello - ed ho paura di seccarti”. Ma Giulio non intendeva di rinunziare all'unica letteratura ch'era tanto immune dalla critica. Protestò che arrivava al sonno non per la noia, la quale anzi è nemica di esso, ma per il benessere assoluto che gli derivava dal piacere di sentire certi suoni e pensieri.
Perciò le cose avviate a questo modo proseguirono inalterate sino alla fine della guerra, e la guerra durò tanto che il romanzo - contrariamente a quanto aveva asserito l'unico critico che se ne fosse occupato - fu troppo corto. Ma nè per Giulio nè per Mario ciò fu una grande difficoltà. Giulio dichiarò: “Mi sono tanto bene abituato alla tua prosa che mi sarebbe difficile di sopportarne un'altra, di quelle irose ed enfatiche”. Mario, beato, ricominciò da capo, sicuro di non annoiarsi. La propria prosa è sempre la più adatta al proprio organo vocale. Si capisce: Una parte dell'organismo dice l'altra.
E Mario, passando di successo in successo, si esponeva più inerme alla trama che si doveva ordire a suo danno.
III
Mario aveva due vecchi amici di cui uno solo doveva rivelarsi suo acerrimo nemico.
L'amico, che doveva restar tale fino alla morte, era il suo capo ufficio, un uomo di poco più vecchio di lui, il signor Brauer. Un amico intimo perchè non si comportava da suo capo, ma veramente da collega. Tale rapporto di eguaglianza non era provenuto da amicizia istintiva o da convinzioni democratiche, ma dal lavoro stesso cui i due uomini da anni attendevano insieme, e nel quale ora l'uno ora l'altro era il superiore. Si sa che anche il più scalcinato dei letterati è capace di redigere una lettera meglio di chi mai s'intinse di letteratura. Restava superiore il Brauer finchè si trattava d'intendere un affare, ma cedeva il suo posto a Mario quando si doveva stendere sulla carta delle offerte o delle polemiche. Oramai la collaborazione s'era fatta tanto facile che i due impiegati sembravano gli organi della stessa macchina. Mario s'era abituato ad indovinare quello che il signor Brauer volesse quando gli chiedeva di scrivere una lettera in modo da far intendere una cosa senza dirla o dirla senz'impegnarsi. Il signor Brauer era sempre quasi, ma mai interamente soddisfatto, e rifaceva spesso tutta la lettera spostando le parole e le frasi di Mario che conservava immutate con un cieco rispetto. Correggendo, il signor Brauer si faceva più amabile che mai, e si scusava dicendo: “Voialtri letterati avete un modo troppo speciale di esprimervi. Non fa per gli uomini comuni che trafficano”. E Mario era tanto poco offeso da tale critica che faceva del suo meglio per meritarla: cacciava nelle sue lettere più preziosità che non nelle sue favole. Poi s'affrettava a riconoscere che la lettera rifatta dal Bauer era più commerciale della sua, perchè quello era il modo più sicuro di non sentir più parlare di quella lettera che l'annoiava.
Tanti capolavori fatti in collaborazione avevano creato fra i due una dolce intimità. Ambedue riconoscevano i meriti dell'altro. Ma c'era di più: nessuno dei due invidiava la superiorità dell'altro. Per il Brauer era una grande sventura quella di essere nato scrittore, e coloro cui era toccata senza nessuna colpa una disgrazia simile, avevano diritto ad ogni protezione da parte dei compagni più fortunati. Per Mario, poi, la capacità commerciale era proprio quella che egli non aveva mai ambita.
Soltanto Mario non era molto persuaso che il Brauer meritasse un salario tanto più alto del suo. Occorse tale invidia per far nascere la favola.
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