L'aria era immota; in attesa della pioggia che pendeva sulla campagna, in quel silenzio sospeso che precede la caduta delle prime grosse gocce. Non crollava foglia. La raffica si levò d'improvviso a tradimento, appena lui accese il fascetto di paglia raccolta per terra; lo teneva in mano come una torcia; nell'abbassarlo per dar fuoco al formicajo, la raffica, investendolo, portò le faville a quel covone rimasto davanti la porta, e subito il covone avvampando appiccò il fuoco agli altri covoni riparati dentro la casa, dove l'incendio d'un tratto divampò crepitando e riempiendo tutto di fumo. Come un pazzo, urlando con le braccia levate, lui si cacciò dentro alla fornace, forse sperando di spegnerla. Quando dalla gente accorsa fu tratto fuori, fu uno spavento vederlo tutto orribilmente arso e non ancor morto, anzi furiosamente esaltato, annaspante con le braccia, le fiamme addosso, sugli abiti e nei ricci svolazzanti sul capo. Morì poche ore dopo all'ospedale, dove fu trasportato. Nel delirio, sparlava del vento, del vento e delle formiche. - Alleanza... alleanza... Ma già lo sapevano pazzo. E quella sua fine, sì, fu commiserata, ma pur con un certo sorriso sulle labbra.

QUANDO S'E' CAPITO IL GIUOCO

Tutte le fortune a Memmo Viola! E se le meritava davvero quel buon Memmone, che cacciava le mosche allo stesso modo con cui guardava la moglie, cioè con l'aria di dire: - Ma perché v'ostinate, santo Dio, a molestarmi così? Non sapete già, che non riuscirete mai a farmi stizzire? E dunque sciò, care; sciò... Le mosche, la moglie, tutte le noje piccole e grandi della vita, le ingiustizie della sorte, le malignità degli uomini, le stesse sofferenze corporali, non avrebbero potuto mai alterare la sua stanca placidità, né scuoterlo da quella specie di perpetuo letargo filosofico, che gli stava nei grossi occhi verdastri e gli ansimava nel nasone tra i peli dei baffi arruffati e quelli che gli uscivano a cespugli dalle narici. Perché Memmo Viola diceva di aver capito il giuoco. E quando uno ha capito il giuoco... Invulnerabile al dolore, però, impenetrabile anche alla gioja. E questo era un vero peccato, perché Memmo Viola era quel che suol dirsi un beniamino della fortuna. Forse però il giuoco, ch'egli diceva d'aver capito, era questo, che la fortuna lo favoriva tanto, appunto perché egli era così, appunto perché sapeva che egli non le sarebbe corso mai dietro, neppure se essa gli avesse profferto, dopo due gambate, tutti i tesori del mondo, e che non si sarebbe rallegrato né punto né poco, neanche se fosse venuta da sé a portarglieli in casa. Tutti i tesori del mondo, no; ma ecco che un giorno gli aveva proprio portato in casa la grossa eredità di chi sa qual vecchia zia, una vecchia zia sconosciuta, morta in Germania; per cui aveva potuto rinunziare all'impiego, che gli pesava tanto, sebbene, povero Memmo, come tutto il resto, da dieci anni lo sopportasse in santa pace. Poco tempo dopo, la moglie, stanca di vedersi guardata a quel modo e di non esser buona a farlo arrabbiare, per quante gliene facesse sotto gli occhi, di tutti i colori, gli aveva aperto, anzi spalancato la porta, e lo aveva spinto fuori, a vivere libero per conto suo, in un quartierino da scapolo; a patto, però, che egli lasciasse libera anche lei, allo stesso modo, e con un congruo assegno debitamente assicurato. Sì? E quando mai Memmo Viola s'era sognato di porre un limite o un freno alla libertà della moglie? Ma ella voleva così? AMEN. E con tutti i libri di scienze fisiche e matematiche e di filosofia, e tutte le stoviglie di cucina, che rappresentavano le due più forti passioni della sua vita, era andato ad allogarsi in tre stanzette modeste. Dopo aver dato allo spirito il nutrimento più gradito, attendeva a preparar da sé, con le sue mani, anche il più gradito nutrimento al suo corpo: cuoco dilettante e dilettante filosofo. Una vecchia serva veniva ogni mattina a fargli la spesa, gli apparecchiava la tavola, gli rigovernava la cucina, gli rifaceva il letto e la pulizia delle tre stanzette, e se ne andava. Se non che, dopo appena due mesi di questa seconda fortuna, una mattina per tempissimo, ch'egli se ne stava ancora a letto a fare il sonnellino dell'oro, sua moglie venne a svegliarlo di soprassalto nel suo quartierino con una furiosa scampanellata e, investendolo come una bufera, lo trascinò afferrato per il petto, povero Memmo, così in camicia come si trovava e con le brache ancora in mano, verso un angolo della camera, dietro un paraventino coperto di mussola rasata color di rosa, ove s'immaginò dovesse star nascosto il lavabo e, versandogli lei stessa, per non perder tempo, l'acqua nel catino, lo costrinse a lavarsi e poi subito a vestirsi, subito subito, perché doveva uscire, doveva correre, precipitarsi in cerca di due amici. - Ma perché? - Làvati, ti dico! - Ecco, mi lavo... Ma perché? - Perché tu sei sfidato! - Sfidato? io? Chi m'ha sfidato? - Sfidato... non so bene: o sei sfidato o devi sfidare. Non so di queste cose... so che ho qua il biglietto di quel mascalzone. Làvati, vèstiti, spìcciati, ma non mi star davanti con codest'aria di mammalucco intronato! Memmo Viola, venuto fuori dal paraventino con le mani bollicose di saponata, guardava veramente la moglie, se non come un mammalucco, certo come intronato.