Comunque, non volendo tradire una preoccupazione che difficilmente avrebbe potuto nascondere, sussurrò a Bababalouk, il capo dei suoi eunuchi: — Vedi che enormi risultati egli raggiunge in ogni campo; quali sarebbero le conseguenze se si interessasse delle mie mogli! Va', e raddoppia la tua vigilanza, e abbi cura soprattutto delle mie circasse che più delle altre risponderebbero forse al suo gusto.

L'uccello del mattino aveva tre volte ripetuto il suo canto, quando fu annunciata l'ora del Divano. Vathek, che aveva promesso di esservi presente per gratitudine verso i suoi sudditi, immediatamente si alzò da tavola e si avviò all'udienza appoggiandosi al visir che lo reggeva appena; tanto il povero principe era stravolto dal vino che aveva bevuto e più dalle stravaganti facezie del suo selvaggio ospite.

I visir, gli ufficiali della corona e della legge, si disposero in semicerchio intorno al sovrano e mantennero un rispettoso silenzio; mentre l'indiano, che aveva un aspetto fresco come se fosse rimasto digiuno, si sedette senza cerimonie su uno dei gradini del trono, ridendo fra sé dell'indignazione che quell'atto talmente temerario aveva suscitato fra gli astanti.

Intanto il califfo, che aveva le idee confuse e la testa pesante, cominciò ad amministrare giustizia a caso; finché il primo visir, accortosi della situazione, escogitò un improvviso espediente per interrompere l'udienza e salvare la dignità del suo padrone, sussurrandogli all'orecchio: — Signore, la principessa Carathis, che ha trascorso la notte consultando i pianeti, vi informa che essi annunziano sventura e che il pericolo è urgente. State attento che questo straniero, che voi avete cosi munificamente ricompensato per i suoi magici ninnoli, non abbia in animo qualche attentato alla vostra vita; il suo liquore, che in principio sembrava potervi curare, può essere nient'altro che un veleno di prossimo effetto. Non disprezzate questo consiglio; domandategli almeno di che cosa era composto, dove se l'è procurato; e ricordatevi le sciabole che sembrate aver dimenticato.

Vathek, per il quale l'aria insolente dello straniero diventava ogni momento più insopportabile, fece capire al visir con un cenno d'acquiescenza che avrebbe adottato il suo consiglio; e rivolgendosi a un tratto all'indiano disse: — Alzati e dichiara in pieno Divano di che droghe era composto il liquore che mi hai fatto prendere, perché si sospetta che fosse un veleno; dammi anche quella spiegazione che io ho cosi ardentemente desiderato circa le sciabole vendute da te; cosi mostrerai la tua gratitudine per i favori di cui sei stato fatto segno.

Dopo aver pronunciato queste parole con un tono per quanto era possibile moderato, aspettò in silenzio una risposta. Ma l'indiano, restando seduto, ricominciò a ridere rumorosamente e fece le stesse smorfie che aveva fatto prima, senza concedere una parola di risposta. Vathek, che non era più in grado di sopportare una simile insolenza, con una pedata lo buttò giù dai gradini; quindi scese dal trono, gli assestò un altro calcio e continuò con tale assiduità da indurre tutti quelli che erano presenti a seguire il suo esempio. Ogni piede si sollevò e colpi l'indiano, e non appena uno dei presenti gli aveva dato un calcio si sentiva costretto a ripetere il colpo.

Lo straniero dava a tutti un notevole incitamento perché, piccolo e grasso, si era ridotto simile a una palla e rotolava da tutte le parti sotto i calci degli assalitori, i quali si affannavano a corrergli dietro con un'assiduità incredibile e crescevano sempre di numero. La palla infatti, passando da un appartamento all'altro, si tirava dietro chiunque si trovasse sulla sua strada, tanto che l'intero palazzo fu messo a soqquadro e risonò di un tremendo clamore. Le donne dell'harem, sorprese dallo strepito, corsero alle porte per scoprirne la causa; ma appena ebbero visto il passaggio della palla, incapaci di trattenersi si liberarono dalle strette degli eunuchi, i quali invano le pizzicavano a sangue per fermarle. Essi stessi, pur tremando per la fuga delle loro pupille, non erano meno incapaci di resistere a quella forza d'attrazione.

Dopo avere traversato gli atrii, le gallerie, le camere, le cucine, i giardini e le stalle del palazzo, l'indiano continuò la sua corsa attraverso i cortili; mentre il califfo, inseguendolo più da vicino di tutti gli altri, gli assestava quanti più calci poteva; non senza ricevere di quando in quando quelli che i suoi competitori nella loro precipitazione destinavano alla palla.

Carathis, Morakanabad e due o tre vecchi visir la cui saggezza aveva fino allora contenuto l'impulso a correre, volendo evitare che Vathek si esponesse cosi in presenza dei sudditi, si buttarono per terra a impedire l'inseguimento; ma Vathek, noncurante degli intralci, passò sopra le loro teste e continuò come prima. Essi ordinarono allora ai muezzin di chiamare il popolo alla preghiera, se non altro per allontanare la gente e per stornare con implorazioni la calamità; ma nessuno di questi espedienti si mostrò efficace. La vista della fatale palla bastava a trascinare qualunque spettatore. Gli stessi muezzin, benché la vedessero da lontano, si precipitavano giù dai minareti e si mescolavano alla folla che cresceva in modo cosi sorprendente che in ultimo, non un solo abitante rimase a Samarah, eccetto i vecchi, i malati costretti a letto e i lattanti, le cui nutrici potevano correre più spedite senza di loro. Anche Carathis, Morakanabad e gli altri erano ormai della partita. Gli urli acutissimi delle donne che erano fuggite dai loro appartamenti e non sapevano liberarsi dalle spinte della folla, insieme con quelli degli eunuchi che si accalcavano dietro, terrificati al pensiero di perdere di vista il loro tesoro; le maledizioni dei mariti che accorrevano e si minacciavano a vicenda; calci dati e ricevuti; inciampi e cadute a ogni passo; in una parola la confusione che universalmente si diffuse, rese Samarah simile a una città presa dal turbine o abbandonata al saccheggio. In ultimo il maledetto indiano, che manteneva la sua rotondità di figura dopo essere passato attraverso tutte le strade e le piazze pubbliche e averle lasciate vuote, rotolò verso la piana di Catoul e imboccò la vallata ai piedi della montagna delle quattro fontane.

Siccome la caduta continua dell'acqua aveva scavato nella valle una immensa voragine, chiusa alle due parti da ripide scarpate, il califfo e i suoi compagni temettero che la palla potesse andare a finire in quel baratro e per impedirlo raddoppiarono i loro sforzi; ma invano. L'indiano continuò nella folle corsa; e, come si temeva, spiccato il volo dall'orlo del precipizio con la rapidità di un fulmine, si perse nella voragine sottostante.

Vathek avrebbe seguito il perfido Giaurro se una forza invisibile non avesse arrestato la sua corsa. La folla che si spingeva dietro a lui fu di colpo fermata allo stesso modo; e istantaneamente regnò la calma. Tutti si guardarono in faccia con aria attonita; e benché i veli e i turbanti perduti, gli abiti stracciati e la polvere mista al sudore costituissero uno spettacolo dei più comici, non si vide un sorriso. Al contrario, con sguardi di confusione e di tristezza, ritornarono tutti in silenzio a Samarah e si ritirarono nei loro appartamenti più segreti, senza riflettere che era stato un potere invisibile a costringerli a quelle stravaganze che ora si rimproveravano. E del resto è giusto che gli uomini, i quali cosi spesso si arrogano come merito proprio un bene di cui non sono che strumenti, si attribuiscano assurdità che non è stato in loro potere evitare.

Il califfo fu l'unica persona che rifiutò di lasciare la vallata. Ordinò che si piantassero là le sue tende e si fermò giusto sull'orlo del precipizio, a dispetto delle recriminazioni di Carathis e di Morakanabad, i quali gli facevano presente il pericolo che quella propaggine franasse, e l'altro della vicinanza al mago che cosi crudelmente lo aveva tormentato. Vathek rise di tutte le loro rimostranze; e dopo aver fatto accendere mille torce e ordinato ai suoi compagni di continuare a far luce, si curvò sul ripido orlo e tentò con l'aiuto di questo splendore artificiale di guardare in quelle tenebre che tutti i fuochi dell'empireo non sarebbero bastati a rischiarare. Ora egli fantasticava di voci che salissero dalle profondità del baratro; ora credeva di distinguere gli accenti dell'indiano; ma non era altro che il cupo mormorio delle acque e l'eco delle cascate che correvano da una balza all'altra lungo i fianchi della montagna.

Dopo aver passato la notte in questa crudele agitazione, allo spuntare del giorno il califfo si ritirò nella sua tenda; là, senza prendere il minimo nutrimento, rimase assopito finché si alzarono di nuovo i vapori dell'imbrunire. Riprese quindi a vegliare e continuò regolarmente per varie notti. Alla fine, stanco di una fatica cosi sterile, cercò sollievo nel mutamento. Talvolta si aggirava a rapidi passi per la pianura, lanciando furibonde occhiate alle stelle, cui rimproverava di averlo tratto in inganno; quando un giorno il cielo azzurro gli apparve segnato da grandi strisce di sangue che dalla valle arrivavano a coprire la città di Samarah. Poiché questo spaventoso fenomeno sembrava raggiungere la sua torre, Vathek pensò sulle prime di accorrere laggiù per vederlo più da vicino; ma sentendo di non potere andare avanti, sopraffatto dall'inquietudine, nascose il volto nelle pieghe della veste.

Per quanto terrificanti fossero questi prodigi, l'impressione che produssero su di lui era appena momentanea e servi solo a stimolare il suo amore del meraviglioso. Perciò, invece di tornare al palazzo, egli si tenne fermo nella decisione di non muoversi dal luogo dove era scomparso l'indiano. E cosi una notte, mentre come al solito vagava per la pianura, la luna e le stelle si eclissarono a un tratto e sopravvenne l'oscurità totale.