La terra tremò sotto di lui e si udì una voce, la voce del Giaurro; che con accenti più sonori del tuono cosi lo apostrofava: — Sarai devoto a me? Adorerai gli influssi terrestri e rinnegherai Maometto? A queste condizioni ti guiderò al Palazzo del Fuoco Sotterraneo. Là vedrai in immense provvigioni i tesori che le stelle ti hanno promessi e che ti concederanno quelle intelligenze che saprai renderti propizie. Là io presi le sciabole e là riposa Soliman Ben Daoud, circondato dai talismani che controllano il mondo.

Il califfo, attonito, rispose tremando, ma in uno stile che mostrava come non fosse novizio in avventure soprannaturali: — Dove sei? Presentati ai miei occhi, dissipa le nebbie che mi confondono e di cui sospetto tu sia la causa. Dopo tante torce che ho bruciate per scoprirti,

potresti almeno concedermi la vista della tua orribile faccia. — Abiura dunque Maometto, — rispose l'indiano, — e promettimi prove di piena sincerità; altrimenti, non mi vedrai mai più.

L'infelice califfo, mosso da un'implacabile curiosità, prodigò le sue promesse senza riserve. Il cielo immediatamente si schiari e alla luce dei pianeti che parevano quasi ardere Vathek vide la terra aprirsi, e in fondo a un immenso baratro nero, una porta d'ebano davanti a cui era fermo l'indiano con una chiave d'oro che batteva contro la toppa.

— Come posso scendere fino a te? — gridò Vathek. — Vieni, prendimi; apri subito quella porta. — Non cosi presto, impaziente califfo! — rispose l'indiano. — Sappi che io sono bruciato dalla sete e che non posso aprire questa porta finché la mia sete non sarà placata. Ho bisogno del sangue di cinquanta bambini. Scegli i più avvenenti fra i figli dei visir e dei grandi del tuo regno, o la mia sete e la tua curiosità non saranno mai soddisfatte. Torna a Samarah, procurami questa libagione che mi è necessaria; poi presentati ancora qui, gettala nel baratro e vedrai.

Dopo aver parlato in tal modo l'indiano voltò le spalle al califfo, che incitato dalle suggestioni dei dèmoni si decise all'orribile sacrificio. Fece mostra di avere riconquistato la sua tranquillità e parti per Samarah fra le acclamazioni della gente che ancora lo amava e che non poteva non rallegrarsi al pensiero ch'egli avesse ricuperato la ragione. Con tanta fortuna Vathek riusci a nascondere la sua emozione, che anche Carathis e Morakanabad furono ingannati come gli altri. Non si parlava d'altro che di feste e d'allegrezza. La fatale palla che nessuno fino ad allora aveva osato ricordare fu riportata sul tappeto. Scoppiò una risata generale, benché molti, ancora nelle mani del chirurgo per i calci ricevuti in quella memorabile avventura, non avessero grandi motivi di ilarità.

Il prevalere del buon umore fu cosa assai gradita a Vathek che si rendeva conto di come questo favorisse il suo disegno. Egli continuò a mostrarsi affabile con tutti, ma in particolare con i suoi visir e con i grandi della corte, a cui non manco di offrire un sontuoso banchetto, durante il quale portò insensibilmente la conversazione sui bambini degli ospiti. Quand'ebbe chiesto, con aria di benevolenza, chi di loro avesse la fortuna dei figli più belli, ogni padre sostenne i meriti dei propri e la disputa si fece cosi accanita che niente li avrebbe trattenuti dal venire alle mani se non la profonda reverenza per la persona del califfo. Allora, col pretesto di mettere d'accordo i disputanti, Vathek avocò a sé la decisione, e a questo fine ordinò che si facessero portare i fanciulli.

Dopo non molto fece il suo ingresso un gruppo di questi infelici bambini, curati dalle mani affettuose delle madri e coperti di quegli ornamenti che potevano dare maggior rilievo alla loro bellezza e mettere in luce nel modo migliore la grazia dell'età. Ma mentre questa brillante riunione attirava lo sguardo e il cuore di tutti i presenti, il califfo, con una malvagia avidità che pareva attenzione, li scrutava uno per uno e sceglieva fra loro i cinquanta che secondo lui il Giaurro avrebbe preferito.

Sempre con lo stesso tono benevolo, Vathek propose di celebrare una festa nella pianura per divertire i giovani favoriti che, egli disse, tanto più avrebbero avuto ragione di rallegrarsi della sua riacquistata salute, se avessero immaginato i favori che egli preparava per loro.

La proposta del califfo fu accolta con la più grande letizia e presto resa nota in tutta la città. Si prepararono lettighe, cammelli e cavalli. Donne, bambini, vecchi e giovani, ciascuno scelse il posto che preferiva. La cavalcata parti scortata da tutti i confettieri della città e dei dintorni; il popolino, che seguiva a piedi, formò una folla stupefacente facendo non poco chiasso. Tutto era gioia; e nessuno si ricordava di quanto ciascuno di loro avesse sofferto l'ultima volta che avevano fatto quella strada ora percorsa cosi allegramente.

La sera era serena, l'aria fresca, il cielo chiaro, e i fiori esalavano i loro profumi. I raggi del sole declinante, che in un mite splendore posava sulle cime della montagna, diffondevano un riflesso di rossa luce sui verdi declivi e sui bianchi armenti che vi pascolavano. Non si udiva altro suono che il rumore delle quattro fontane e le voci e le grida dei pastori che si chiamavano da una cima all'altra.

I graziosi innocenti, destinati al sacrificio, contribuivano non poco all'allegria della scena. Comparvero nella pianura pieni di festevolezza, alcuni inseguendo farfalle, altri raccogliendo i fiori e i sassolini lucenti che attiravano la loro attenzione. Di quando in quando fuggivano leggeri l'uno dall'altro per il piacere di essere ripresi, e si facevano a vicenda mille carezze.

II terribile baratro, nel cui fondo stava la porta di ebano, cominciò ad apparire da lontano. Appariva come una nera striscia che attraversasse la pianura.