L’immutevole Uomo della storia è meravigliosamente adattabile, tanto per le sue capacità di sopportazione, quanto per il dono, che possiede, del distacco. Sembra, di fatto, che il giuoco del suo destino sia troppo grande per le sue paure, e troppo misterioso per il suo intelletto. Se improvvisamente suonasse la tromba del Giudizio Finale, in un giorno di lavoro, il musicista al suo pianoforte continuerebbe ad eseguire la Sonata di Beethoven, e il ciabattino al suo deschetto rimarrebbe al lavoro fino alla fine, senza che la sua fiducia nelle qualità del cuoio ne fosse turbata. E
avrebbero perfettamente ragione. Perché mai dovremmo lasciarci turbare dalla vindice musica di un angelo, troppo potente per le nostre orecchie e troppo orrida per i nostri terrori? Così accade che noi ci sentiamo subitamente colpiti dalla folgore dello sdegno divino. Il lettore continuerà a leggere, se il libro gli piace, e il critico continuerà a criticare, con quella facoltà di distacco che nasce forse da un senso di infinita piccolezza, e che è tuttavia la sola facoltà la quale sembri assimilare l’uomo agli dèi immortali.
Solo quando la catastrofe viene a somigliare alla naturale oscurità del nostro destino, anche i più alti rappresentanti della nostra razza vanno soggetti a perdere la virtù del distacco. È evidentissimo che all’arrivo del signor Jones, con quel suo atteggiamento da gentiluomo, di Ricardo, l’uomo dalla volontà così dritta, e del fedele Pedro, Heyst, pur essendo dotato del potere di sentirsi solo e staccato dal mondo intero, perde il suo dominio di sé, quel bell’atteggiamento davanti a ciò che è universalmente irrimediabile che porta il nome di stoicismo. È una questione di proporzioni. Per cose di questo genere, dovrebbe esserci un rimedio. Eppure un rimedio non c’è. Dietro questo esempio minuscolo dei rischi della vita, Heyst vede la potenza del cieco destino. Inoltre Heyst, in quel suo atteggiamento di bella serenità, aveva perso l’abitudine di affermare la propria personalità. Non dico il coraggio di affermare se stesso, tanto in senso morale che in quello fisico, ma semplicemente il modo di farlo, la tecnica della cosa, quella prontezza di spirito e quella destrezza di mano che vengono senza riflessione e portano l’uomo all’eccellenza nella vita, nell’arte, nel delitto, nella virtù, e, del resto, anche in amore. Pensare è il gran nemico della perfezione. L’abito della riflessione profonda, son costretto a dire, fra tutte le abitudini sviluppate dall’uomo civile è la più perniciosa.
Ma non vorrei mi si sospettasse, nemmeno lontanamente, di volermi far beffe di Axel Heyst. Egli mi è sempre piaciuto. Ricordo abbastanza bene l’individuo in carne ed ossa che sta dietro il personaggio del libro, a me infinitamente più familiare: lo ricordo come un misterioso svedese. Non sono altrettanto sicuro, anche, che fosse barone. Per parte sua, egli non pretese mai di avere questa distinzione. Il suo distacco da tutte le cose era troppo grande per accampare pretese di qualunque genere, grandi o piccole, alla credulità degli altri. Non dirò dove l’ho incontrato, perché temo che in tal modo darei ai miei lettori un’impressione errata, poiché, spesso, se c’è una discrepanza molto accentuata fra un uomo e l’ambiente nel quale si trova, questo costituisce una circostanza, che, con ogni facilità, ci porta un inganno. Per un certo tempo diventammo grandi amici, e non mi piacerebbe esporlo a sgradevoli sospetti, sebbene, per mio conto, io sia certo che egli sarebbe rimasto indifferente ai sospetti, così com’era indifferente a tutti gli altri inconvenienti della vita. S’intende che egli non era tutto Heyst; egli è solo il fondamento fisico e morale del mio Heyst, ritratto in base ad un breve periodo di conoscenza. Non fu certo colpa mia se si trattò di un periodo breve, poiché egli mi aveva affascinato per il semplice fatto che quel suo atteggiamento staccato era così attraente: un atteggiamento che, in questo caso, non posso fare a meno di pensare che fosse portato all’eccesso. Se ne andò dal suo appartamento senza lasciar traccia di sé. Allora mi domandai dove fosse andato, ma ora lo so. Egli svanì dal mio rifugio solo per venir a finire in questa avventura che, inevitabile, lo attendeva in un mondo che egli si ostinava a considerare come un’ombra malefica rotante nella luce del sole. Spesso, nel corso degli anni, un sentimento da lui espresso, il senso particolare di una frase udita per caso, me lo richiamavano alla mente, e perciò ho raccolto intorno a lui molte parole udite sulle labbra di altre persone e che appartegono ad atteggiamenti meno perfetti e meno commoventi del suo.
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