La stessa osservazione, mutatis mutandis, si potrebbe applicare al signor Jones, che è costruito in base ad una conoscenza molto più fugace. Il signor Jones (o quale che fosse il suo nome) non si allontanò da me svanendo come un’ombra. Mi voltò invece le spalle e uscì dalla stanza. Fu in un alberghetto nell’isola di St. Thomas, nelle Indie Occidentali (nell’anno 1875) che, in un pomeriggio rovente, lo trovammo disteso su tre sedie, tutto solo in mezzo al ronzio intenso delle mosche, cui la sua immobilità e il suo aspetto cadaverico davano un significato estremamente macabro. La nostra invasione dovette spiacergli, poiché si levò bruscamente dalle sedie e se ne andò, lasciandomi un’impressione indelebilmente strana, e quasi sinistra, dei suoi stinchi esili. Uno di quelli che erano con me disse che quel tipo era il più disperato giocatore che avesse mai incontrato. Dissi: «Un baro di professione?» e ottenni per risposta: «Spaventevole; ma debbo dire che, fino a un certo punto, è uno che fa giuoco onesto…» Mi domando quale fosse quel punto. Non lo rividi mai più, perché credo se ne andasse direttamente a bordo di un battello postale che partiva, meno di un’ora dopo, per altri porti di attracco in direzione di Aspinall. L’insolenza caratteristica del signor Jones appartiene ad un altro uomo di tipo del tutto diverso. Dell’origine della sua mentalità non dirò nulla, perché non intendo fare ammissioni che possano offendere.

Si dette il caso che proprio in quell’anno Ricardo - il Ricardo fisico - fosse mio compagno di viaggio a bordo di uno schooner estremamente piccolo ed estremamente sudicio, durante una traversata di quattro giorni tra due località del Golfo del Messico, i cui nomi non hanno importanza. Per lo più egli stava sdraiato in coperta a poppa, come chi dicesse ai miei piedi, e, di tanto in tanto sollevandosi sul gomito, si metteva a parlare di se stesso, e tirava avanti a parlare, non precisamente con me, o nemmeno a me (non levava nemmeno gli occhi, ma li teneva sempre fissi sul ponte), ma piuttosto come se tenesse conversazione, a voce bassa, con il suo demone familiare. Di tanto in tanto mi dava un’occhiata, e agitava in una maniera curiosa i peli dei suoi piccoli baffi rigidi. Aveva gli occhi verdi, e, ancor oggi, ogni gatto che vedo mi fa ricordare il contorno esatto del suo volto. Non mi confidò mai perché viaggiasse, o quali fossero gli affari suoi nella vita. Per dire la verità il solo passeggero a bordo di quello schooner che avrebbe potuto parlare apertamente delle sue attività e dei suoi intendimenti era un frate, estremamente brusco ma piacevolissimo nella conversazione, che era il Superiore di un convento, ed era accompagnato da un giovanissimo confratello laico, il cui atteggiamento era particolarmente feroce. Avevamo anche con noi, che giaceva prostrato nella tuga buia e innominabile di quello schooner, un vecchio gentiluomo spagnolo, proprietario di molto bagaglio, e, a quanto mi assicurava Ricardo, davvero malatissimo. Sembrava che Ricardo fosse un servitore o il confidente di quell’invalido anziano e dall’aria distinta, il quale, all’inizio dei viaggio, ebbe una lunga conversazione, sottovoce, con il frate, dopo di che non fece altro che gemere debolmente, fumar sigarette e, di tanto in tanto, chiamare Martin con una voce piena di sofferenza. Allora quello che nel libro è diventato Ricardo scendeva in quel buco orrendo e fetido, ci rimaneva misteriosamente per un certo tempo, e tornando poi in coperta con una faccia sulla quale era impossibile leggere alcuna cosa, il più delle volte ricominciava, per mia edificazione, ad esporre il suo atteggiamento morale nei confronti della vita, illustrandolo con particolari esempi molto sorprendenti, e del tipo più atroce. Voleva forse spaventarmi? O sedurmi, o meravigliarmi? O

suscitare la mia ammirazione? Tutto quello che otteneva era di suscitare la mia divertita incredulità. Per essere un tipo di mascalzone, non era affatto noioso. E del resto, a quel tempo la mia innocenza era così grande che non riuscivo a prendere sul serio la sua filosofia. Sempre tendeva un orecchio verso la tuga, nell’atteggiamento del servo devoto, ma io avevo l’impressione che, in qualche modo, egli avesse imposto queste sue attenzioni all’invalido per un qualche scopo recondito e suo. Il lettore, perciò, non si meraviglierà di sentire che una mattina mi venne detto dal capitano dello schooner, senza alcuna particolare emozione, che «il ricco» laggiù era morto: era morto quella notte. Non mi ricordo che mai la fine desolata di una persona a me del tutto estranea mi abbia tanto commosso. Guardai giù per l’osteriggio, ed ecco là il devoto Martin che si dava da fare a legare con funi le valigie di pelle di bue che appartenevano al defunto, la cui barba bianca e il naso adunco, erano le sole parti di lui che riuscissi a distinguere nelle oscure profondità di un’orribile e afosa cabina.

Poiché durante quel pomeriggio venne bonaccia, e la bonaccia continuò per tutta la notte e per il terribile giorno infiammato che seguì, il defunto «uomo ricco» dovette esser gettato a mare al tramonto, benché di fatto fossimo già in vista della costa bassa e pestilenziale, folta di manghi, cui eravamo destinati. L’eccellente Padre Superiore mi accennò, con un’aria di immensa commiserazione: «Il poveretto ha lasciato una figlia giovane». Chi dovesse occuparsi di lei, non so, ma vidi il devoto Martin che portava a terra i bauli, con grande cura, subito prima che andassi a terra io stesso.