“Perdere una simile notte!” E guardava con rancore, oltre la finestra, quel cielo scoperto, ricco di stelle, quelle segnalazioni divine, quella luna, l’oro d’una simile notte di-lapidato.

Ma dal momento in cui l’aeroplano ripartì, quella notte per Rivière fu ancora commovente e bella. Essa portava nei suoi fianchi la vita. E Rivière era pieno di premure per lei.

«Che tempo incontrate?» fece chiedere all’equipaggio.

Passarono dieci secondi.

«Bellissimo.»

Poi giunse qualche nome di città su cui l’aeroplano era passato; e quei nomi erano per Rivière, in quella lotta, nomi di città che s’arrendevano.

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VII

Un’ora dopo, il radiotelegrafista del corriere di Patagonia si sentì sollevar dolcemente, come da una spalla. Guardò intorno a sé: nubi pesanti spegnevano le stelle. Si curvò verso la terra: cercava le luci dei villaggi, simili a quelle delle lucciole nascoste nell’erba, ma nulla brillava in quell’erba ne-ra.

E si sentì di malumore, prevedendo una notte difficile: marce, contro-marce, territori conquistati che bisognava rendere. Egli non capiva la tattica del pilota; gli pareva che più in là l’aeroplano dovesse urtare contro lo spessore della notte come contro un muro.

Ora scorgeva, in faccia all’apparecchio, un luccicore impercettibile a fior d’orizzonte: una luce di fornace. Il radiotelegrafista toccò la spalla di Fabien, ma quello non si mosse.

I primi risucchi dell’uragano lontano assalivano l’aeroplano. Dolcemente sollevate, le masse metalliche pesavano contro la carne stessa del radiotelegrafista, poi parevano svanire, fondersi; e, nella notte, per qualche secondo, egli ondeggiò solo. Allora s’aggrappò con le due mani ai longheroni d’acciaio.

E siccome non scorgeva più del mondo che la lampadina rossa della carlinga, rabbrividì per quel sentirsi scendere nel cuore della notte, senza soccorso, con la sola protezione d’una piccola lampada da minatore. Non osò disturbare il pilota per sapere che decisione avrebbe preso, e, con le mani serrate sull’acciaio, inclinato in avanti, verso il compagno, guardava quella nuca oscura.

Una testa e due spalle immobili emergevano, sole nel debole chiarore.

Quel corpo non era che una massa cupa, appoggiata un po’ a sinistra, col volto proteso verso l’uragano, senza dubbio lavato da ogni lampo. Ma il radiotelegrafista non vedeva nulla di quel volto. Tutto quello che quel volto esprimeva, sentimenti vigili per affrontare una tempesta, quella smorfia, quella volontà, quella collera, tutto quello che si scambiavano d’essenziale un volto pallido e, laggiù, quei rapidi splendori, restava impenetrabile per lui. Nondimeno, egli intuiva la potenza raccolta nell’immobilità di 25

quell’ombra, e l’amava. Senza dubbio essa lo portava verso l’uragano, ma, nello stesso tempo, lo difendeva da quello. Senza dubbio quelle mani, chiuse sui comandi, pesavan già sulla tempesta, come sulla nuca d’una belva, ma le spalle piene di forza rimanevano immobili, e si sentiva in essa la presenza d’una profonda riserva.

Il radiotelegrafista pensò che, in fin dei conti, il solo responsabile era il pilota. Ora, trascinato al galoppo verso l’incendio, assaporava quel che la forma cupa dinanzi a lui esprimeva di materiale e di durevole.

A sinistra, debole come un faro girante, una nuova fornace s’illuminò.

Il radiotelegrafista abbozzò un gesto per toccare la spalla di Fabien ed avvisarlo, ma lo vide girar lentamente la testa, e tenere per qualche secondo il viso voltato verso quel nuovo nemico, poi, lentamente, riprendere la posizione primitiva: le spalle sempre immobili, la nuca appoggiata allo schienale di cuoio.