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III
Il suono di quel motore lontano diventava sempre più denso. Maturava.
Furono accesi i fuochi. Le lampade rosse delle segnalazioni disegnarono un hangar, delle antenne radiotelegrafiche, un campo quadrato. Era come se si preparasse una festa. «Eccolo!»
L’aeroplano correva già nei fasci di luce dei fari, così brillante da sembrar nuovo. Ma, quando finalmente si fu fermato dinanzi all’hangar, mentre i meccanici e gli uomini di manovra gli si affollavano intorno per scaricare la posta, il pilota Pellerin non si mosse.
«Ebbene? Cosa aspetta per scendere?»
Il pilota, occupato in qualche misterioso lavoro, non si degnò di rispondere. Probabilmente egli ascoltava ancora tutto il rumore del volo passare in lui. Scuoteva lentamente la testa, e, chinato in avanti, manipolava Dio sa cosa. Finalmente si volse verso i campi e i camerati, e li osservò gravemen-te, come se fossero cose di sua proprietà. Pareva li contasse, li misurasse e li pesasse; pensava che se li era ben guadagnati, e, con essi, quell’hangar illuminato a festa e quel solido cemento e, più in là, quella bella città col suo movimento, le sue donne e il suo calore. Egli teneva quel popolo nelle sue larghe mani, come se fosse composto di sudditi suoi, poiché poteva toccarlo, ascoltarlo e insultarlo. E, prima di tutto, pensò appunto ad insul-tarli, quegli uomini, pel fatto che erano lì, tranquilli, sicuri di vivere, in ammirazione della luna; ma, invece, fu bonario:
«… pagherete da bere?»
E discese.
Poi volle raccontare il suo viaggio: «Se sapeste!»
Ma evidentemente giudicò d’aver detto anche troppo, e scappò a levarsi la giacca di cuoio.
Quando la vettura lo trasportò verso Buenos Aires insieme con un ispettore cupo e con Rivière silenzioso, egli divenne triste: è bello uscir di pericolo, e rimettendo piede a terra in perfetta salute lanciare qualche ingiuria.
Che gioia potente! Ma, poi, quando si ricorda, si dubita senza saper di che.
11
La lotta nel ciclone, questa, almeno, è una cosa franca, leale. Ma non il volto delle cose, quel volto che esse assumono quando credono di essere sole. Egli pensava:
“E proprio come in una rivolta: visi che impallidiscono appena, ma cambiano talmente…”
Fece uno sforzo per ricordare.
Valicava, tranquillo, la Cordigliera delle Ande su cui le nevi dell’inverno pesavano con tutta la loro pace. Le nevi dell’inverno avevan fatto la pa-ce su quella massa, come i secoli nei castelli morti. Su duecento chilometri di spessore, non un uomo, non un soffio di vita, non uno sforzo, ma creste verticali, che a seimila metri di quota si sfiorano, mantelli di pietra che ca-don dritti e una formidabile tranquillità.
Fu nei dintorni del Picco Tupungato…
Egli rifletté. Sì, fu proprio là ch’egli si trovò ad essere testimonio d’un miracolo.
Da principio non aveva visto nulla, ma s’era sentito semplicemente impacciato, come qualcuno che si crede solo, e invece non è più solo e lo guardano. Troppo tardi e senza capir come, s’era sentito circondato di collera. Ecco. Donde veniva quella collera?
Cosa gli faceva indovinare ch’essa trasudava dalle pietre, ch’essa trasudava dalla neve? Perché nulla pareva venire verso di lui, nessuna cupa tempesta era in cammino. Ma, sui luoghi, un mondo appena diverso usciva dall’altro.
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