In quanto scepsi gnoseologica, la filosofia moderna è, occultamente o apertamente, “anticristiana”: sebbene, sia detto per orecchie più delicate, non sia in alcun modo antireligiosa. Una volta, infatti, si credeva all’«anima», come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva, «io» è condizione, «penso» è predicato e condizionato - il pensare è un’attività per la quale un soggetto “deve” essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario:
«penso» condizione, «io» condizionato; «io» dunque soltanto una sintesi che viene “fatta” dal pensiero stesso. “Kant” voleva dimostrare, in fondo, che partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato - e neppure l’oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota la possibilità di una “esistenza apparente”
del soggetto, quindi dell’«anima», quel pensiero cioè, che come filosofia del Vedanta già una volta e con un immenso potere è esistito sulla terra.
55. Esiste una grande scala, con molti piuoli, della crudeltà religiosa; ma tre di essi sono i più importanti. Un tempo si sacrificava al proprio Dio esseri umani, forse proprio quelli che si amava di più - a questo caso appartengono i sacrifici dei primi nati, caratteristici di tutte le religioni preistoriche, e anche il sacrificio dell’imperatore Tiberio nella grotta di Mitra sull’isola di Capri, il più orribile di tutti gli anacronismi romani. In seguito, nell’epoca morale dell’umanità, si sacrificò al proprio Dio gli istinti più forti che si possedeva, la propria
«natura»; è “questa” gioia di festa a lampeggiare nell’occhio crudele dell’asceta, dell’uomo fanaticamente «contronatura». E
infine, che cosa restava ancora da sacrificare? Non si doveva finalmente sacrificare una buona volta tutto ciò che v’è di confortante, di sacro, di risanante, ogni speranza, ogni fede in una occulta armonia, in beatitudini e giustizie di là da venire?
Non si doveva sacrificare Dio stesso e, per crudeltà contro se stessi, adorare la pietra, la stupidità, la pesantezza, il destino, il nulla? Sacrificare Dio per il nulla - questo paradossale mistero dell’estrema crudeltà fu riservato alla generazione che proprio ora sta sorgendo: noi tutti ne sappiamo già qualcosa. -
56. Chi, come me, si è sforzato a lungo, in una specie di enigmatica bramosia, di pensare sino in fondo il pessimismo e di liberarlo dalla ristrettezza e dall’ingenuità, metà cristiana e metà tedesca, con cui esso si è recentemente presentato a questo secolo, vale a dire nella forma della filosofia schopenhaueriana; chi realmente, con un occhio asiatico e oltreasiatico, ha scrutato una volta ben addentro e a fondo in questo modo di pensare che è quello, tra tutti i modi possibili, più annientante riguardo al mondo - al di là del bene e del male, e non più, come Buddha e Schopenhauer, sotto l’illusorio incantesimo della morale -, costui ha forse, senza propriamente volerlo, aperto proprio con ciò gli occhi sull’ideale opposto: l’ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l’eternità, tutto questo “così come esso è stato ed è”, gridando insaziabilmente: “da capo” non soltanto a se stesso, ma all’intero dramma e spettacolo, e non soltanto a uno spettacolo, ma fondamentalmente a colui che proprio di questo spettacolo ha bisogno e lo rende necessario: poiché egli ha sempre di nuovo bisogno di se stesso - e si rende necessario - - Come? E non sarebbe questo - “circulus vitiosus deus”?
57. Con la forza del suo sguardo spirituale e della sua penetrazione visiva cresce la distanza e per così dire lo spazio intorno all’uomo: il suo mondo diventa più profondo e diventano visibili sempre nuove stelle, sempre nuovi enigmi e immagini.
Forse tutto ciò su cui l’occhio dello spirito ha esercitato il suo acume e la sua perspicacia era soltanto un’occasione per il suo esercizio, un oggetto di giuoco, qualcosa per fanciulli e per anime di fanciulli. Un giorno, forse, i concetti più solenni, per i quali si è in particolar modo combattuto e sofferto, i concetti di «Dio» e di «peccato», non ci appariranno più importanti di quanto lo sia un giocattolo infantile e un infantile dolore per l’uomo avanzato in età - e forse allora «l’uomo vecchio» sentirà il bisogno ancora di un altro giocattolo e di un altro dolore, sempre ancora abbastanza fanciullo, un eterno fanciullo!
58. Si è mai osservato come per una vita propriamente religiosa (e tanto per il suo prediletto lavoro di autosservazione al microscopio, quanto per quella dolce imperturbabilità che si chiama «preghiera» e che rappresenta un costante disporsi all’«avvento di Dio» ) sia necessario l’ozio esteriore ovvero una condizione semioziosa, voglio dire quell’ozio con tranquilla coscienza, dalle origini immemorabili e connaturato al temperamento, al quale non è del tutto estraneo il senso aristocratico che il lavoro “rechi disonore” - vale a dire involgarisca l’anima e il corpo? E che, conseguentemente, l’operosità moderna, rumorosa, che impiega bene il suo tempo, fiera di sé, stupidamente fiera di sé, educhi e prepari, più di ogni altra cosa, proprio all’«incredulità»? Tra coloro che, a esempio, vivono oggi, in Germania, lontani dalla religione, trovo uomini il cui «libero pensiero» ha varie specie ed origini, ma soprattutto un gran numero di persone nelle quali l’operosità ha spento, di generazione in generazione, gli istinti religiosi: cosicché esse non sanno più quale sia l’utilità delle religioni e prendono, per così dire, atto della loro presenza nel mondo con una specie di ottuso stupore. Questa brava gente si sente già largamente assorbita sia dai propri affari che dai propri piaceri, per non parlare della «patria» e dei giornali e dei «doveri della famiglia»: pare che non resti loro tempo alcuno per la religione e che sia specialmente poco chiaro per essi se si tratta, in questo caso, di un nuovo affare o di un nuovo piacere - giacché è impossibile - si dicono - che si vada in chiesa soltanto per farsi venire il malumore. Costoro non sono nemici degli usi religiosi; se in certi casi, per esempio da parte dello Stato, si esige che prendano parte a tali usi, essi fanno quel che viene preteso, come si fanno tante altre cose -, con una paziente e modesta gravità e senza molta curiosità e disagio - essi vivono, appunto, troppo in disparte e al di fuori per trovare necessario in se stessi anche soltanto un pro e un contro in questioni del genere. A questi indifferenti appartiene oggi la gran massa dei protestanti tedeschi dei ceti medi, particolarmente nei grandi centri attivi del commercio e del traffico; così pure quella dei dotti operosi e tutti quanti gli annessi e connessi delle università (a eccezione dei teologi, la cui esistenza e possibilità, in questi luoghi, costituisce per lo psicologo un enigma sempre più grande e sempre più sottile da sciogliere). Di rado uomini religiosi o anche soltanto di chiesa possono farsi un’idea di “quanta” buona volontà, si potrebbe dire volontà spontanea, si richieda oggi perché un dotto tedesco prenda sul serio il problema della religione; tutta la sua professione (e, come si è detto, l’attività professionale alla quale lo obbliga la sua coscienza di uomo moderno) lo predispone a una superiore giovialità, quasi benevola, nei riguardi della religione, alla quale talvolta si mescola un leggero disprezzo per quella «sordidezza» dello spirito, che egli presuppone esista ovunque ci si continui a dichiarare per la Chiesa. Soltanto con l’aiuto della storia (dunque non già partendo dalla propria esperienza personale), il dotto riesce ad assumere di fronte alla religione una riverente gravità e un certo timido rispetto; ma anche se il suo sentimento si fosse elevato persino alla riconoscenza verso di essa, non si avvicinerebbe con la sua persona neppure di un solo passo a quel che ancora sussiste come Chiesa o religiosa devozione: forse tutto il contrario. L’indifferenza pratica per le cose religiose, in seno alla quale egli è nato ed è stato educato, suole sublimarsi, in lui, nella circospezione e nella pulitezza, che schiva il contatto con uomini e cose religiosi; e può darsi che sia proprio la profondità della sua tolleranza e umanità a farlo arretrare dinanzi a quel sottile stato di angustia interiore che il tollerare, di per se stesso, comporta. - Ogni epoca ha la sua propria divina specie di ingenuità, la scoperta della quale può ben essere invidiata da altre epoche - e quanta ingenuità, un’ingenuità rispettabile, infantile e sconfinatamente goffa, c’è in questa convinzione di superiorità del dotto, nella tranquilla coscienza della sua tolleranza, nella schietta sicurezza, priva del minimo sospetto, con cui il suo istinto tratta l’uomo religioso come un tipo umano inferiore e di bassa lega, oltre al quale, via dal quale e più “in alto” del quale egli si è sviluppato lui, questo piccolo nano e plebeo presuntuoso, questo lavoratore, lesto e zelante, del braccio e della mente nel campo delle «idee», le «idee moderne»!
59. Chi ha guardato il mondo in profondità indovina quale saggezza ci sia nel fatto che gli uomini sono superficiali. E’ l’istinto di conservazione che insegna loro a essere volubili, leggeri e falsi.
Si ritrova qua e là una adorazione appassionata ed eccessiva delle
«forme pure», nei filosofi come negli artisti: senza dubbio chi ritiene “necessario” in tal modo il culto della superficie, può aver toccato una qualche volta un tasto infelice “sotto” di essa.
E forse persino a riguardo di questi fanciulli bruciati, di questi artisti nati, che trovano ancora il gusto della vita soltanto nel proposito di “falsificarne” l’immagine (per così dire in un’ostinata vendetta contro la vita), esiste ancora un ordine gerarchico: si potrebbe desumere il grado di disgusto al quale, in loro, è giunta la vita, dalla misura in cui essi desiderano vedere falsificata, assottigliata, trascendentizzata, divinizzata la sua immagine, - si potrebbe annoverare gli “homines religiosi” tra gli artisti, come il loro ordine più “elevato”. E’ il timore profondamente sospettoso di un pessimismo immedicabile che costringe interi secoli ad attaccarsi coi denti a una interpretazione religiosa dell’esistenza; la paura di quell’istinto, il quale presagisce che si potrebbe essere “troppo presto” in possesso della verità, prima che l’uomo sia divenuto abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista… La religiosità, la «vita di Dio», considerate da questo punto di vista, apparirebbero il più raffinato e ultimo prodotto del
“timore” della verità, l’adorazione e l’ebbrezza dell’artista di fronte alla più conseguente di tutte le falsificazioni, la volontà di capovolgere il vero, la volontà di non verità a qualsiasi prezzo. Può darsi che non ci sia stato fino a oggi nessun mezzo più efficace per abbellire l’uomo in se stesso, se non appunto questa religiosità: per mezzo di essa l’uomo può divenire a tal punto arte, superficie, giuoco di colori, dolcezza di modi, che la sua vista non è più insopportabile. -
60. Amare l’uomo “per amore di Dio” - fu questo, fino a oggi, il sentimento più nobile e più remoto che sia stato raggiunto tra gli uomini.
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