La prodigiosa somiglianza di famiglia, propria di ogni filosofare indiano, greco, tedesco, si spiega in modo abbastanza semplice.
Proprio laddove si presenta un’affinità di linguaggio è del tutto inevitabile che, grazie alla comune filosofia della grammatica -
grazie, voglio dire, al dominio e alla guida inconsapevoli, realizzati da analoghe funzioni grammaticali - tutto sia predisposto, sin dall’inizio, per uno sviluppo e una successione omogenea dei sistemi filosofici: così come pare quasi sbarrata la via a certe diverse possibilità d’interpretazione del mondo.
Filosofi dell’area linguistica uralo-altaica (nella quale il concetto di soggetto ha avuto un assai scarso sviluppo) avranno con grande probabilità un diverso sguardo «sul mondo» e si dovranno trovare su sentieri diversi da quelli degli Indogermani o dei Musulmani: l’incantesimo di determinate funzioni grammaticali è in definitiva l’incantesimo di “fisiologici” apprezzamenti di valore e di condizionamenti razziali. - Tanto andava detto per respingere la superficialità lockiana in ordine all’origine delle idee.
21. La “causa sui” è la maggiore autocontraddizione che sia stata concepita fino a oggi, una specie di stupro e d’innaturalità della logica: ma lo sfrenato orgoglio dell’uomo l’ha portato al punto di irretirsi profondamente e orribilmente proprio in quest’assurdità.
Il desiderio del «libero volere», in quel metafisico intelletto superlativo, quale purtroppo continua sempre a signoreggiare nelle teste dei semidotti, il desiderio di portare in se stessi l’intera e ultima responsabilità per le proprie azioni e di esimere da essa Dio, mondo, progenitori, caso, società, equivale infatti ad essere appunto nientemeno che quella “causa sui” e a tirare per i capelli se stessi dalla palude del nulla all’esistenza con una temerità più che alla Münchhausen. Posto che qualcuno, in tale modo, venisse a scoprire la rozza scempiaggine di questo famoso concetto del libero volere e lo cancellasse dalla sua mente, ormai lo pregherei di fare ancora un altro passo avanti e di cancellare dalla sua mente anche il rovescio di quel concetto di «libero volere»: voglio dire il «non libero volere», che procede da un abuso di causa ed effetto. Non bisogna erroneamente “reificare”
«causa» ed «effetto», come fanno i naturalisti (e chi, analogamente a loro, naturalizza teoreticamente), in conformità alla meccanicistica buaggine dominante, secondo la quale la causa preme e spinge fino a «determinare l’effetto»; occorre servirsi appunto della «causa» e dell’«effetto» soltanto come di meri
“concetti”, cioè di finzioni convenzionali destinate alla connotazione, alla intellezione, “non” già alla spiegazione.
Nell’«in sé» non esistono «collegamenti causali», «necessità»,
«non libertà psicologiche», poiché in questo campo «l’effetto»
“non” consegue «dalla causa» e non vige alcuna «legge». Siamo
“noi” soltanto ad avere immaginosamente plasmato le cause, la successione e la funzionalità di una cosa rispetto all’altra, la relatività, la costrizione, il numero, la norma, la libertà, il motivo, lo scopo; e se foggiamo e infondiamo nelle cose questo mondo di segni come un «in sé», operiamo in ciò ancora una volta come abbiamo sempre operato, cioè in “maniera mitologica”. Il
«volere non libero» è mitologia: nella vita reale si tratta soltanto di “forte” e “debole” volere. E’ già quasi sempre un indizio del difetto di questo stesso volere il fatto che un pensatore in ogni «connessione causale» e «necessità psicologica»
avverta ormai una specie di costrizione, di angustia, di inevitabile condizionamento, d’oppressione, di non libertà: proprio sentire in questo modo è qualcosa di rivelatore, la persona si tradisce. E se le mie osservazioni sono giuste, in generale la «non libertà del volere» viene intesa come problema da due parti radicalmente opposte, anche se sempre in una guisa profondamente “personale”: gli uni non vogliono a nessun costo abbandonare la loro «responsabilità», la fede in “se stessi”, il loro personale diritto al “proprio” merito (appartengono a questa parte le razze boriose ); gli altri, viceversa, non vogliono alcuna responsabilità, né aver colpa di nulla e desiderano, traendo questo loro atteggiamento da un intimo disprezzo per se stessi, di poter “togliere di mezzo” se stessi in una direzione purchessia. Questi ultimi, quando scrivono libri, sono soliti oggi assumersi la difesa dei delinquenti; una specie di compassione socialista è il loro travestimento più gradito. E in realtà il fatalismo dei volitivamente deboli si abbellisce sorprendentemente quando sa insinuarsi come «la religion de la souffrance humaine»: è questo il suo «buon gusto».
22. Mi si faccia venia, come vecchio filologo che non può esimersi dalla malizia di riveder le bucce a certe cattive arti interpretative: ma quella «normatività della natura», di cui voi fisici parlate con tanta prosopopea come se - - esistesse soltanto grazie alle vostre spiegazioni e alla vostra cattiva «filologia», non è un dato di fatto, un «testo», ma piuttosto soltanto un riassetto e una distorsione di senso ingenuamente umanitari, con cui venite abbastanza incontro agl’istinti democratici dell’anima moderna! «Ovunque uguaglianza di fronte alla legge - in ciò la natura non si trova in condizioni diverse o migliori delle nostre»: un grazioso espediente mentale con cui si maschera, ancora una volta, a guisa di un secondo e più sottile ateismo, l’ostilità dei plebei per tutto quanto è privilegiato e sovrano.
«Ni Dieu ni maître» lo volete anche voi: e allora «evviva la legge di natura!» non è vero? Ma, come già si è detto, questa è interpretazione, non testo; e potrebbe venire qualcuno che con un’intenzione e un’arte interpretativa diametralmente opposte sapesse desumere dalla lettura della stessa natura e in relazione agli stessi fenomeni proprio una affermazione, dispoticamente spregiudicata e spietata, di rivendicazioni di potenza, - un interprete che vi mettesse sotto gli occhi la perentorietà e l’assolutezza insite in ogni «volontà di potenza», in modo tale che quasi ogni parola e persino quella di «tirannide» apparirebbe in conclusione inutilizzabile oppure già una pallida e blanda metafora una parola troppo umana; e che tuttavia finirebbe per affermare su questo mondo la stessa cosa che affermate voi, cioè che esso ha un suo corso «necessario» e «calcolabile», ma “non già” perché in esso imperano norme, bensì perché le norme
“mancano” assolutamente e ogni potenza in ogni momento trae la sua estrema conseguenza. Posto poi che anche questa fosse soltanto un’interpretazione - e voi sareste abbastanza solleciti da obiettarmi ciò - ebbene, tanto meglio.
23. Tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a pregiudizi e apprensioni morali: essa non ha osato scendere nel profondo. Concepirla come morfologia e “teoria evolutiva della volontà di potenza”, come io la concepisco: questo non è stato da nessuno neppure sfiorato col pensiero: stando al fatto, cioè, che ci è consentito di riconoscere, in quel che finora è stato scritto, un indizio di quel che finora è stato taciuto. Il potere dei pregiudizi morali è penetrato a fondo nel mondo più intellettuale, in apparenza più freddo e più scevro di presupposti e, come è facile comprendere, in maniera nociva, inibitoria, accecante e distorcente. Una peculiare fisio-psicologia deve lottare con resistenze incoscienti poste nell’animo dell’indagatore, essa ha il «cuore» contro di sé: già una dottrina del vicendevole condizionamento dei «buoni» e dei «cattivi»
istinti provoca, come più sottile immoralità, in una coscienza vigorosa e impavida, pena e disgusto, - più ancora una dottrina della derivabilità di tutti gli istinti buoni da quelli cattivi.
Posto invece che qualcuno assuma addirittura le passioni dell’odio, dell’invidia, della cupidigia, della brama di dominio come qualcosa di fondamentalmente e originariamente indispensabile alla complessiva economia della vita, qualcosa che deve quindi ulteriormente potenziarsi ove la vita debba essere ulteriormente potenziata - in questo caso egli soffrirebbe di un simile orientamento del suo giudizio come di un mal di mare. Eppure anche quest’ipotesi non è di gran lunga la più penosa e la più bizzarra in questo sterminato regno, quasi ancora nuovo, di pericolose conoscenze: - ed esistono, in realtà, cento buone ragioni perché ognuno se ne resti lontano, se… “può”! D’altro canto: se ci si è spinti fin qui con la nostra nave, ebbene! avanti! stringendo ora i denti da prodi! gli occhi ben aperti! la mano salda sul timone!
- navighiamo, lasciandoci risolutamente “dietro” la morale, calpestiamo, schiacciamo forse, così facendo, i nostri stessi residui di moralità, mentre compiamo e osiamo il nostro viaggio laggiù - ma che c’importa di “noi”! Mai sino ad oggi un “più profondo” mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e avventurieri temerari, e lo psicologo in tal modo «compie il sacrificio» - “non” il “sacrifizio dell’intelletto” (11), al contrario! potrà per lo meno pretendere che la psicologia sia nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e alla preparazione della quale è destinata l’esistenza delle altre scienze. La psicologia infatti è ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali.
CAPITOLO SECONDO.
LO SPIRITO LIBERO.
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