Povera Alice! Non potè far altro che sedersi in terra, poggiandosi di fianco per guardare il giardino con la coda dell'occhio; ma entrarvi era più difficile che mai: si sedè di nuovo dunque e si rimise a piangere.
— Ti dovresti vergognare, — si disse Alice, — figurarsi, una ragazzona come te (e davvero lo poteva dire allora) mettersi a piangere. Smetti, ti dico! — Pure continuò a versar lagrime a fiotti, tanto che riuscì a formare uno stagno intorno a sè di più d'un decimetro di altezza, e largo più di metà della sala.
Qualche minuto dopo sentì in lontananza come uno scalpiccio; e si asciugò in fretta gli occhi, per vedere chi fosse. Era il Coniglio bianco di ritorno, splendidamente vestito, con un paio di guanti bianchi in una mano, e un gran ventaglio nell'altra: trotterellava frettolosamente e mormorava: “Oh! la Duchessa, la Duchessa! Monterà certamente in bestia. L'ho fatta tanto attendere!” Alice era così disperata, che avrebbe chiesto aiuto a chiunque le fosse capitato: così quando il Coniglio le passò accanto, gli disse con voce tremula e sommessa: — “Di grazia, signore...” Il Coniglio sussultò, lasciò cadere a terra i guanti e il ventaglio, e in mezzo a quel buio si mise a correre di sghembo precipitosamente.
Alice raccolse il ventaglio e i guanti, e perchè la sala sembrava una serra si rinfrescò facendosi vento e parlando fra sè: — Povera me! Come ogni cosa è strana oggi! Pure ieri le cose andavano secondo il loro solito. Non mi meraviglierei se stanotte fossi stata cambiata! Vediamo: non son stata io, io in persona a levarmi questa mattina? Mi pare di ricordarmi che mi son trovata un po' diversa. Ma se non sono la stessa dovrò domandarmi: Chi sono dunque? Questo è il problema. — E ripensò a tutte le bambine che conosceva, della sua stessa età, per veder se non fosse per caso una di loro.
— Certo non sono Ada, — disse, — perchè i suoi capelli sono ricci e i miei no. Non sono Isabella, perchè io so tante belle cose e quella poverina è tanto ignorante! e poi Isabella è Isabella e io sono io. Povera me! in che imbroglio sono! Proviamo se mi ricordo tutte le cose che sapevo una volta: quattro volte cinque fanno dodici, e quattro volte sei fanno tredici, e quattro volte sette fanno... Oimè! Se vado di questo passo non giungerò mai a venti! Del resto la tavola pitagorica non significa niente: proviamo la geografia: Londra è la capitale di Parigi, e Parigi è la capitale di Roma, e Roma... no, sbaglio tutto! Davvero che debbo essere Isabella! Proverò a recitare “La vispa Teresa”; incrociò le mani sul petto, come se stesse per ripetere una lezione, e cominciò a recitare quella poesiola, ma la sua voce sonava strana e roca, e le parole non le uscivano dalle labbra come una volta:
La vispa Teresa
avea su una fetta
di pane sorpresa
gentile cornetta;
e tutta giuliva
a chiunque l'udiva
gridava a distesa:
— L'ho intesa, l'ho intesa! —
— Mi pare che le vere parole della poesia non siano queste, — disse la povera Alice, e le tornarono i lagrimoni. — Insomma, — continuò a dire, — forse sono Isabella, dovrò andare ad abitare in quella stamberga, e non aver più balocchi, e tante lezioni da imparare! Ma se sono Isabella, caschi il mondo, resterò qui! Inutilmente, cari miei, caccerete il capo dal soffitto per dirmi: “Carina, vieni su!” Leverò soltanto gli occhi e dirò: “Chi sono io? Ditemi prima chi sono. Se sarò quella che voi cercate, verrò su; se no, resterò qui inchiodata finchè non sarò qualche altra.” “Ma oimè! — esclamò Alice con un torrente di lagrime: — Vorrei che qualcuno s'affacciasse lassù! Son tanto stanca di esser qui sola!”
E si guardò le mani, e si stupì vedendo che s'era infilato uno dei guanti lasciati cadere dal Coniglio. — Come mai, — disse, — sono ridiventata piccina?
Si levò, s'avvicinò al tavolo per misurarvisi; e osservò che s'era ridotta a circa sessanta centimetri di altezza e che andava rapidamente rimpicciolendosi: indovinò che la cagione di quella nuova trasformazione era il ventaglio che aveva in mano. Lo buttò subito a terra. Era tempo; se no, si sarebbe assottigliata tanto che sarebbe interamente scomparsa.
— L'ho scampata bella! — disse Alice tutta sgomenta di quell'improvviso cambiamento, ma lieta di esistere ancora. — E ora andiamo in giardino! — Si diresse subito verso l'usciolino; ma ahi! l'usciolino era chiuso, e la chiavettina d'oro era sul tavolo come prima. “Si va male, — pensò la bambina disperata, — non sono stata mai così piccina! E dichiaro che tutto questo non mi piace, non mi piace, non mi piace!”
Mentre diceva così, sdrucciolò e punfete! affondò fino al mento nell'acqua salsa. Sulle prime credè di essere caduta in mare e: “In tal caso, potrò tornare a casa in ferrovia” — disse fra sè. (Alice era stata ai bagni e d'allora immaginava che dovunque s'andasse verso la spiaggia si trovassero capanni sulla sabbia, ragazzi che scavassero l'arena, e una fila di villini, e di dietro una stazione di strada ferrata). Ma subito si avvide che era caduta nello stagno delle lagrime versate da lei quando aveva due e settanta di altezza.
Peccato ch'io abbia pianto tanto! — disse Alice, nuotando e cercando di giungere a riva. — Ora sì che sarò punita, naufragando nelle mie stesse lagrime! Sarà proprio una cosa straordinaria! Ma tutto è straordinario oggi!
E sentendo qualche cosa sguazzare nello stagno, si volse e le parve vedere un vitello marino o un ippopotamo, ma si ricordò d'essere in quel momento assai piccina, e s'accorse che l'ippopotamo non era altro che un topo, cascato come lei nello stagno.
Pensava Alice: “Sarebbe bene, forse, parlare a questo topo. Ogni cosa è strana quaggiù che non mi stupirei se mi rispondesse.
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