Il volto era smunto nella sua compostezza; gli occhi grigi, fiochi e tranquilli. Non una grinza gli increspava il viso. Se ci fosse stato un sintomo anche minimo di disagio, di rabbia, di insofferenza, di impertinenza, in altre parole se ci fosse stato in lui qualcosa di normalmente umano, lo avrei cacciato con brutalità dal mio ufficio. Ma così come stavano le cose, tanto valeva che decidessi di buttar fuori della porta il pallido busto in gesso di Cicerone. Restai a fissarlo per qualche tempo, mentre continuava a scrivere, quindi mi rimisi alla scrivania. «È ben strano», pensai. «Che fare?». Ma il lavoro incalzava: conclusi di dimenticare intanto la faccenda riservandola a un attimo di calma in futuro Chiamai quindi Pince-Nez che venne dall’altra stanza, e rapidamente controllammo il documento.

Alcuni giorni più tardi Bartleby terminò quattro lunghi atti, altrettante copie di una settimana di testimonianze prestate davanti a me nell’Alta Corte di Equità. Si rese necessario controllarli. Si trattava di una causa importante che imponeva la massima accuratezza. Sistemato tutto, chiamai Tacchino, Pince-Nez, Zenzero, che erano nella stanza attigua, con l’intenzione di dare a ciascuno dei miei quattro impiegati una copia del documento, mentre io avrei letto l’originale.

Obbedendo al mio ordine, Tacchino, Pince-Nez, Zenzero si erano seduti in fila, l’uno accanto all’altro, ciascuno con la sua copia in mano, quando chiamai Bartleby a raggiungere questo interessante gruppetto.

«Bartleby! Si sbrighi, aspetto».

Percepii il lento stridio delle gambe della sedia contro il pavimento nudo, e subito dopo apparve in piedi all’imbocco del suo eremo.

«Che cosa le serve?», chiese mite.

«Le copie, le copie», risposi in fretta. «Stiamo per confrontarle. Ecco...», e gli porsi il quarto esemplare.

«Preferirei di no», disse e lievemente scomparve dietro il paravento.

Rimasi di sale per qualche istante, lì, in piedi, alla testa della colonna degli impiegati seduti. Riavendomi, avanzai verso il paravento e gli chiesi ragione di una condotta tanto inconsueta.

«Perché rifiuta?»

«Preferirei di no».

Con chiunque altro sarei esploso, e, senza sprecare altro fiato, l’avrei cacciato con ignominia dal mio cospetto. Ma c’era in Bartleby qualcosa che non soltanto stranamente mi disarmava, ma anche, in modo curioso, mi toccava e sconcertava. Cominciai a ragionare con lui.

«Sono le sue copie che ci accingiamo a controllare. Le risparmia fatica, perché un unico controllo serve per tutte e quattro. Si fa sempre così. I copisti sono tenuti a controllare le loro copie. Non è così? Non intende dire niente? Risponda!»

«Preferisco di no», rispose con voce flautata. Mi parve che, mentre mi rivolgevo a lui, egli soppesasse con attenzione ogni mia frase, ne comprendesse pienamente il significato, non potesse confutare l’ineluttabile conclusione, ma che, nello stesso tempo, una qualche suprema considerazione lo costringesse a rispondere in quel modo.

«Lei è deciso allora a non adeguarsi alla mia richiesta, una richiesta conforme all’uso comune e al comune buon senso?»

Mi fece brevemente capire che su quel punto la mia valutazione era corretta. Sì, la sua decisione era irrevocabile.

Non è infrequente che un uomo, urtato in modo inconsueto e violentemente irragionevole, cominci a dubitare delle proprie convinzioni fondamentali. Comincia, per così dire, a congetturare in modo vago che, per quanto strano, la ragione e il diritto stiano forse dall’altra parte. Di conseguenza, se sono presenti persone neutrali, si rivolge a costoro in cerca di un sostegno per la mente che vacilla.

«Tacchino», dissi, «che ne pensa? Non ho ragione?»

«Con rispetto, signore», rispose Tacchino nel suo tono più blando, «penso di sì».

«Pince-Nez, che cosa se ne pensa lei?»

«Penso che lo butterei fuori a calci».

(Il lettore attento e sensibile intuirà che, essendo mattina, la risposta di Tacchino è formulata con espressioni cortesi e pacate, ma che Pince-Nez replica con malumore. Ovvero, per ripetere una frase detta in precedenza, il cattivo umore di Pince-Nez era in servizio, mentre quello di Tacchino era in licenza.)

«Zenzero», dissi desideroso di raccogliere il consenso anche più insignificante, «che cosa ne pensi tu?»

«Penso, signore, che sia un po’ sfasato», rispose Zenzero con un sogghigno.

«Ha sentito quello che dicono», chiesi volgendomi verso il paravento. «Su, venga qui e faccia il suo dovere».

Non si degnò di rispondere. Rimasi a ponderare per un attimo, risentito e perplesso, ma ancora una volta, incalzato dal lavoro, decisi di rimandare a un momento di calma la valutazione del dilemma. Con qualche difficoltà riuscimmo a venirne a capo di quel lavoro di controllo, sebbene, ogni una o due pagine, Tacchino con deferenza esprimesse l’opinione che si trattava di procedura assai inconsueta, mentre Pince-Nez, agitandosi sulla sedia con nervosismo dispeptico, digrignava a denti stretti e sibilava di tanto in tanto improperi contro il cocciuto idiota dietro il paravento. E da parte sua (di Pince-Nez) quella era la prima e l’ultima volta che avrebbe fatto il lavoro di un altro senza essere pagato.

Bartleby, nel frattempo, se ne stava nel suo eremo, dimentico di tutto tranne che del documento davanti a sé.

Trascorsero alcuni giorni che videro lo scrivano impegnato in un altro lunghissimo lavoro. La stranezza del suo comportamento da un po’ di tempo a quella parte mi portò a osservare da vicino i suoi modi.