— Parla! Difenditi! — Ma l’appello provocò in Billy soltanto uno strano gesto muto e un gorgoglio; lo stupore davanti a quella accusa che balzava all’improvviso sulla sua giovinezza inesperta; questo e forse l’orrore degli occhi dell’accusatore servirono a far emergere il suo difetto latente, intensificandolo in questa circostanza fino a trasformarlo in un blocco spasmodico, mentre la testa e l’intero corpo tesi nell’agonia dell’inutile sforzo di obbedire all’ordine di parlare e difendersi, davano al volto un’espressione simile a quella di una vestale condannata, nel supremo momento di essere sepolta viva e nella prima lotta contro il soffocamento.

Sebbene allora fosse all’oscuro del difetto vocale di Billy, il capitano Vere lo capì all’istante, perché con grande vivezza l’aspetto di Billy richiamò alla memoria quello di un brillante compagno di scuola, che aveva visto colpito dallo stesso sgomento impotente nell’atto di alzarsi con zelo in classe per essere il primo a rispondere a una domanda posta dall’insegnante. Avvicinandosi al giovane marinaio e appoggiando una mano rassicurante sulla spalla, disse:

— Non c’è fretta, ragazzo mio. Fa’ con calma, fa’ con calma. — Contrariamente all’effetto voluto, quelle parole dal tono tanto paterno, che di certo toccarono il cuore di Billy nel profondo, lo indussero a sforzi ancora più violenti per parlare, sforzi che finirono presto per confermare la paralisi, dando al suo volto l’espressione di un uomo crocefisso. Un attimo dopo, rapido come la fiammata di un cannone che esplode nella notte, il braccio destro scattò e Claggart crollò a terra. Forse intenzionalmente, forse perché il giovane atleta era più alto, il colpo aveva colto il maestro d’armi sulla fronte così bella e dall’aria tanto intellettuale, sicché il corpo cadde lungo disteso, come una trave pesante che, eretta, venga inclinata. Un rantolo o due, e giacque immobile.

— Funesto destino! — ansimò il capitano Vere così a bassa voce che parve un sussurro. — Che cosa hai fatto! Su, aiutami!

I due sollevarono il caduto per i fianchi, mettendolo in posizione seduta. Il corpo scarno assecondò con flessibilità, ma con inerzia. Era come maneggiare un serpente morto. Lo riadagiarono. Rimettendosi eretto, capitan Vere, coprendosi il volto con una mano, rimase all’apparenza impassibile come l’oggetto ai suoi piedi. Era assorto a valutare le conseguenze di quell’evento e quanto si dovesse fare non soltanto lì sul momento, ma anche in seguito.

Lentamente si scoprì il viso, e l’effetto fu come se la luna, emergendo da un’eclisse, riapparisse con un volto del tutto diverso da quello che si era nascosto. Il padre che fino in quel momento era stato verso Billy fu sostituito dal militare inflessibile. In tono ufficiale ordinò al gabbiere di ritirarsi in una cabina di poppa (che gli indicò) e di rimanere lì fino a quando non fosse stato convocato. Billy eseguì meccanicamente quell’ordine, in silenzio. Poi andando alla porta della cabina che si apriva sul ponte di comando, capitan Vere disse alla sentinella di fuori:

— Di’ a qualcuno di mandare qui Albert. — Quando il ragazzo apparve, il padrone si adoperò per non fargli scorgere l’uomo a terra. — Albert, — gli disse, — avverti il medico che desidero vederlo. Non occorre che tu ritorni fino a quando non sarai chiamato.

Quando entrò il medico – un uomo posato, così grave ed esperto, da non poter quasi mai essere colto di sorpresa – capitan Vere si fece avanti per andargli incontro, impedendogli così inconsapevolmente di scorgere Claggart e, interrompendo il consueto cerimonioso saluto dell’altro, disse:

— No. Ditemi come sta l’uomo laggiù, — richiamando la sua attenzione sul corpo a terra.

Il chirurgo guardò e, pur con tutto il suo autocontrollo, ebbe un lieve sobbalzo alla brusca rivelazione. Sul volto sempre pallido di Claggart, colava ora dalla narice e dall’orecchio un denso sangue nero. All’occhio professionale dell’osservatore era inequivocabilmente un uomo morto quello che vedeva.

— Allora è così? — disse il Capitano Vere osservandolo intento. — Lo immaginavo. Ma accertatevene». Subito le consuete prove confermarono la prima impressione del chirurgo che, ora levando lo sguardo con palese ansia, gettò al suo superiore un’occhiata pregna di interrogativi. Ma capitan Vere, con una mano sulla fronte, se ne stava immobile.

All’improvviso afferrando il braccio del chirurgo con gesto convulso, esclamò indicando il corpo a terra:

— È il divino giudizio di Anania! Guardate!

Turbato dai modi concitati che non aveva mai prima notato nel capitano della Bellipotent e ancora ignaro della vicenda, il prudente chirurgo mantenne tuttavia la calma, limitandosi a chiedere con lo sguardo che cosa avesse potuto provocare la tragedia.

Ma il capitano Vere era di nuovo immobile, assorto nei suoi pensieri. Con un altro sussulto esclamò con veemenza:

— Colpito a morte da un angelo di Dio! Eppure l’angelo deve essere impiccato!

Davanti a quelle esclamazioni appassionate, del tutto incongrue per l’ascoltatore ancora all’oscuro degli antecedenti, il chirurgo fu profondamente turbato. Ma in quel momento, quasi ricomponendosi, il capitano, in tono meno appassionato, espose in breve le circostanze che avevano portato a quell’evento.

— Ma venite; dobbiamo sbrigarci, — aggiunse. — Aiutatemi a portarlo via, — (rife­rendosi al corpo), — in quella cabina, — indicandone una di fronte a quella in cui era confinato il gabbiere.