Glielo suggerì la circostanza che, a suo parere, quel soldato era una persona giudiziosa, riflessiva, non del tutto sprovveduta nel tirarsi d’impaccio in una situazione difficile, priva di precedenti nella sua passata esperienza. Eppure anche nei suoi confronti il capitano nutriva un’apprensione latente: si trattava infatti di un uomo bonario, amante della buona tavola, capace di abbandonarsi a un sonno profondo, incline all’obesità, un uomo che, sempre coraggioso in battaglia, chissà se si sarebbe dimostrato altrettanto fermo davanti a un dilemma morale dai risvolti tragici. Quanto al primo tenente e all’ufficiale di rotta, il capitano Vere era ben consapevole che, fossero pure individui onesti e di provato coraggio quando lo richiedevano le circostanze, avevano delle cose una comprensione limitata per lo più ai problemi concreti della vita a bordo e alle esigenze belliche della professione.
La corte si riunì nella stessa cabina in cui era accaduto lo sfortunato episodio. Questa cabina, che era del comandante, occupava l’intera zona sotto il casseretto. A poppa, su entrambi i lati c’erano due cabine, una adibita temporaneamente a prigione, l’altra a obitorio, e un vano ancora più piccolo, che lasciava in mezzo uno spazio che si estendeva a prora e in oblungo coincideva con il baglio della nave. In alto c’era un lucernaio di modiche dimensioni, e alle estremità dello spazio oblungo c’erano due portelli con telai a ghigliottina, facilmente convertibili in feritoie per carronate brevi.
Tutto fu pronto in breve tempo, e Billy Budd fu messo in stato di accusa. Il capitano Vere, unico testimone del caso, in quanto tale lasciò temporaneamente il suo grado, pur conservandolo in un particolare futile all’apparenza: testimoniava, cioè, a sopravvento della nave, costringendo la corte a sedere sottovento. In modo conciso riferì tutto quanto aveva condotto alla catastrofe, non trascurando nulla dell’accusa di Claggart e rilasciando una deposizione su come il prigioniero l’avesse accolta. A questa testimonianza i tre ufficiali gettarono occhiate, con non poca sorpresa, a Billy Budd, l’ultimo uomo che avrebbero sospettato sia del presunto piano di ammutinamento addotto da Claggart, sia dell’inconfutabile fatto commesso. Il primo ufficiale, presiedendo il processo e volgendosi verso il prigioniero, disse:
— Il capitano Vere ha esposto i fatti. Sono o non sono come afferma il capitano Vere?
In risposta giunsero sillabe non intralciate dal balbettio, come si sarebbe potuto prevedere. Eccole:
— Il capitano Vere dice la verità. È come dice il capitano Vere, ma non è come diceva il maestro d’armi. Ho mangiato il pane del Re e sono fedele al Re.
— Ti credo, ragazzo mio, — disse il testimone, mentre la voce esprimeva un’emozione repressa da null’altro tradita.
— Dio vi benedica per questo, vostro onore! — disse Billy quasi sopraffatto, non senza balbettare. Ma subito fu richiamato all’autocontrollo da un’altra domanda, alla quale rispose con la stessa difficoltà emotiva:
— No, non c’era ostilità fra noi. Non ho mai provato ostilità verso il maestro d’armi. Mi dispiace che sia morto. Non intendevo ucciderlo.
Se fossi riuscito a usare la lingua, non lo avrei colpito. Ma spudoratamente mi ha spiattellato in faccia vili menzogne alla presenza del mio capitano; dovevo dire qualcosa e potevo dirlo soltanto con un pugno. Dio mi aiuti!
Nella maniera leale, impulsiva di quell’uomo schietto i giudici videro confermato quanto era implicito nelle parole che poco prima li avevano lasciati perplessi, visto che venivano dal testimone della tragedia e prontamente seguivano la smentita appassionata di intenzioni rivoltose da parte di Billy – le parole del capitano Vere:
— Ti credo, ragazzo mio.
Gli fu quindi chiesto se sapesse o sospettasse qualcosa che avesse il sentore di un’incipiente irrequietezza (riferendosi all’ammutinamento, sebbene venisse evitato il termine esplicito) serpeggiante in qualche settore dell’equipaggio.
Ci fu un indugio nella risposta. La corte naturalmente l’attribuì alla stessa difficoltà vocale, che aveva ritardato od ostacolato le precedenti risposte. Ma le cose erano sostanzialmente diverse, in quanto la domanda aveva richiamato all’improvviso il ricordo dell’incontro alle catene di prua con l’uomo della guardia di poppa. Ma l’innata ripugnanza a svolgere un ruolo anche lontanamente simile a quello dell’informatore ai danni di un compagno – lo stesso senso errato di un onore rustico che gli aveva impedito di riferire la cosa a suo tempo, sebbene fosse tenuto a farlo in quanto leale marinaio di una nave da guerra, e l’omissione, qualora ne fosse stato accusato e fosse stata dimostrata, lo esponesse all’estrema condanna, tutto questo, insieme alla cieca sensazione che non si fosse complottato niente, prevalse in lui.
Quando venne, la risposta fu negativa.
— Ancora una domanda, — disse il capitano della fanteria di marina, che prendeva per la prima volta la parola con fervore sconcertato. — Tu affermi che quanto il maestro d’armi ha detto contro di te era una menzogna. Perché avrebbe mentito – mentito con tanta perfidia – se fra voi non c’era ostilità?
A questa domanda, che senza volere toccava una sfera spirituale del tutto oscura ai suoi pensieri, Billy, sgomento, rivelò una confusione che, come è facile immaginare, alcuni osservatori avrebbero interpretato alla stregua dell’involontaria ammissione di una colpa segreta. Fece tuttavia lo sforzo per rispondere, ma all’improvviso abbandonò il vano tentativo, rivolgendo nello stesso tempo un’occhiata implorante al capitano Vere, quasi lo considerasse il suo migliore amico e sostenitore. Capitan Vere, rimasto seduto per un po’, si alzò in piedi, rivolgendosi all’interrogatore.
— La domanda che rivolgete è abbastanza naturale. Ma come può rispondervi in modo soddisfacente? Chi potrebbe darvela se non l’uomo che giace lì dentro? — e indicò la cabina dove si trovava il cadavere. — Ma l’uomo che giace lì dentro non si presenterà al nostro appello. In realtà il punto che sollevate non mi sembra determinante.
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