Non trascorse molto tempo prima che avvenisse il ricongiungimento. Quale unità di quella flotta, la settantaquattro partecipava alle manovre, sebbene, grazie alle sue superbe qualità veliche, in mancanza di fregate, a volte fosse assegnata a compiti specifici come vedetta, a volte impiegata in servizi meno temporanei. Ma con tutto ciò la nostra storia ha poco a che vedere, limitata com’è alla vita interna di una particolare nave e alle vicende di un singolo marinaio.
Era l’estate del 1797. Nell’aprile di quell’anno si erano avuti i moti di Spithead, seguiti in maggio da una seconda, ancora più grave, rivolta della flotta al Nore. Quest’ultimo episodio è conosciuto – senza nessuna esagerazione nell’epiteto – come il “grande ammutinamento”. Era in verità una minaccia per l’Inghilterra più pericolosa di quanto non lo fossero allora i proclami del Direttorio francese con i suoi eserciti vittoriosi ed il suo proselitismo. Per l’Impero britannico l’ammutinamento del Nore fu quello che sarebbe uno sciopero dei vigili del fuoco in una Londra minacciata da un incendio globale. In tale momento di crisi – nel quale il regno avrebbe ben potuto anticipare la famosa parola d’ordine che, pochi anni più tardi, avrebbe annunciato lungo il fronte delle navi da guerra quanto in quella circostanza l’Inghilterra si aspettava dagli inglesi – sui pennoni delle navi a tre ponti e delle settantaquattro all’àncora nella rada – una flotta che costituiva il braccio destro dell’unica potenza allora libera e conservatrice del Vecchio Mondo – i marinai a migliaia innalzarono con grida di evviva i colori britannici sui quali erano stati cancellati la croce e il simbolo dell’unione: una cancellazione che trasmutava la bandiera del diritto riconosciuto e della libertà sancita nell’avversa rossa meteora della rivolta senza freni né limiti. Il giusto scontento, nato da reali motivi di lagnanza nella flotta, era divampato in un incendio irrazionale, scatenatosi dalle scintille vive che dalla Francia in fiamme erano state portate dai venti al di là della Manica.
Per qualche tempo l’avvenimento servì a dare sapore ironico agli inni esaltati di Didbin – come bardo fu di non poco aiuto al governo inglese in quella congiuntura europea – inni che fra l’altro magnificavano la dedizione patriottica del marinaio britannico: «Quanto alla mia vita, essa appartiene al Re!
È un episodio nella gloriosa storia navale dell’isola, sul quale naturalmente gli storici navali sorvolano: uno di loro (William James) candidamente riconosce che di buon grado tralascerebbe di parlarne, se «l’imparzialità non vietasse di essere schizzinosi». Eppure l’accenno che ne fa è un’allusione più che un’esposizione, privo com’è di particolari. Né questi si possono rintracciare nelle biblioteche. Come altri eventi che si verificano in ogni tempo ed in ogni dove (compresa l’America), il grande ammutinamento fu di tale natura che volentieri l’avrebbero sottaciuto l’orgoglio nazionale e le considerazioni politiche, relegandolo sullo sfondo del contesto storico. Sono avvenimenti che non si possono ignorare, ma esiste un modo equo per trattarne. Se l’individuo equilibrato rifugge dall’esibire le tare e la maledizione della propria famiglia, altrettanto discreta può essere una nazione in analoghe circostanze, senza incorrere nel biasimo.
Sebbene, dopo vari abboccamenti fra i capi rivoltosi e il governo e dopo alcune concessioni davanti agli abusi palesi, fosse stata sedata, seppure con difficoltà, la prima insurrezione – quella di Spithead – e la situazione per il momento appianata, al Nore tuttavia l’imprevisto riaccendersi della sommossa, che esplose su scala ancora più ampia e trovò una cassa di risonanza negli incontri resi necessari da pretese considerate dalle autorità non soltanto inammissibili, ma aggressivamente insolenti, indicava – se non lo aveva già fatto in misura sufficiente la Bandiera Rossa – quale spirito animasse gli uomini.
Repressione definitiva tuttavia ci fu: attuabile forse soltanto grazie alla lealtà della fanteria di marina e al volontario ritorno alla lealtà di larghi ed influenti strati degli equipaggi.
L’ammutinamento del Nore può, in certa misura, essere paragonato allo scoppio squilibrante di una febbre contagiosa in un organismo costituzionalmente sano, che riesce a sbarazzarsene di lì a poco.
In ogni caso, fra le migliaia di ammutinati c’erano alcuni marinai che, non molto tempo dopo – chissà se spinti dal patriottismo, dall’istinto bellicoso o da entrambi – aiutarono Nelson a conquistarsi un blasone sul Nilo e la massima onorificenza a Trafalgar. Per gli ammutinati queste battaglie – Trafalgar soprattutto – furono un’assoluzione plenaria, una gloriosa assoluzione: in tutto ciò che contribuisce al grandioso spettacolo dello spiegamento navale e dell’eroica magnificenza marziale, tali battaglie, in particolare Trafalgar, rimangono insuperate nella storia dell’umanità.
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In una faccenda come lo scrivere, per quanto si possa essere risoluti a restare sulla strada maestra, esistono sentieri laterali dotati di un fascino al quale non è facile resistere. E lungo questi viottoli mi propongo di vagare. Se il lettore vorrà tenermi compagnia, ne sarò felice. Possiamo per lo meno riprometterci il piacere che si dice annidarsi nel peccato: peccato letterario, infatti, sarà la divagazione.
Molto probabilmente non è un’osservazione nuova affermare che le invenzioni del nostro tempo hanno introdotto nella guerra navale mutamenti di portata pari alla rivoluzione prodotta nella guerra in generale dall’impiego della polvere da sparo, giunta dalla Cina in Europa. Le prime armi da fuoco europee, rozzi congegni, furono – come ben si sa – disdegnate da non pochi cavalieri che le consideravano volgari strumenti, buoni forse per tessitori, gente troppo codarda per opporsi con fierezza al nemico incrociando lealmente le spade in singolar tenzone. Ma come a terra la virtù cavalleresca, seppur tosata del suo blasone, non si esaurì con i cavalieri, così sui mari – oggi, tuttavia, negli scontri che vi avvengono è caduta in disuso una certa ostentazione di ardimento in quanto inapplicabile nelle mutate circostanze – le più nobili qualità di certi grandi uomini, come don Giovanni d’Austria, Doria, Van Tromp, Jean Bart, la lunga schiera di ammiragli britannici e i Decatur americani del 1812, non divennero obsolete insieme alle murate di legno.
A chi tuttavia sappia apprezzare il presente al suo giusto valore senza spregiare il passato si può perdonare se ritiene che a Portsmouth il solitario vecchio scafo di Nelson, il Vittoria, vi galleggi non soltanto come il monumento in disgregazione di una fama incorruttibile, ma anche come un rimprovero poetico, attenuato dal suo carattere pittoresco, ai vari Monitor e agli scafi ancora più potenti delle corazzate europee. E questo non soltanto perché tali navi sono sgraziate a vedersi, irrimediabilmente prive della simmetria e delle nobili linee dei vecchi vascelli da guerra, ma anche per altre ragioni.
Ci sono forse alcuni che, pur non del tutto insensibili a quel rimprovero poetico cui si è appena alluso, sono disposti in nome dell’ordine nuovo a schivarlo fino ai limiti dell’iconoclastia, se necessario. Può accadere, ad esempio, che, pungolati dalla vista della stella infissa sul cassero a indicare il punto dove cadde il Grande Marinaio, questi marziali utilitaristi insinuino come Nelson, esibendosi in battaglia di persona, ornato di tutti i suoi galloni, non soltanto abbia compiuto un gesto superfluo, ma anche militarmente inopportuno, un gesto anzi dal sapore temerario e vanitoso.
Possono arrivare a dire per giunta che a Trafalgar in realtà si trattò addirittura di una sfida alla morte; e la morte giunse; e che se non fosse stato per le sue bravate, l’ammiraglio vittorioso sarebbe forse sopravvissuto alla battaglia con la conseguenza che i suoi avveduti ordini non sarebbero stati revocati dall’immediato successore, ma egli stesso, ormai deciso l’esito dello scontro, avrebbe potuto portare all’ancora la flotta sbandata, evitando le deplorevoli perdite di vite umane nel naufragio causato dallo scatenarsi degli elementi naturali, dopo che si erano scatenati quelli marziali.
Se accantonassimo la questione, oltremodo opinabile, se per varie ragioni sarebbe stato possibile condurre all’ancora la flotta, allora, abbastanza plausibilmente, i benthamiti della guerra potrebbero sostenere il punto di vista esposto. Ma i se e i chissà sono un terreno insidioso per poterci costruire sopra. È un fatto che nel prevedere le possibili conseguenze di uno scontro e nei febbrili preparativi – segnando con boe la rotta pericolosa e dando il tracciato come a Copenhagen – pochi comandanti sono stati coscienziosamente cauti come questo incauto che non esitava a esporsi in battaglia.
La prudenza personale, perfino quando è dettata da considerazioni tutt’altro che egoistiche, non è certamente una preclara virtù in un soldato, mentre è la prima virtù la sfrenata ambizione, che accende quello slancio meno travolgente che è l’onesto senso del dovere. Se il nome Wellington non ha la risonanza trionfale del più semplice Nelson, forse se ne può trovare la ragione in quanto detto prima. Nell’ode funebre al vincitore di Waterloo, Alfred non si spinge fino a chiamarlo il più grande soldato di tutti i tempi, mentre nella stessa ode invoca Nelson come «il più grande marinaio dall’inizio del mondo».
A Trafalgar, nell’imminenza della battaglia, Nelson si sedette e scrisse le sue ultime brevi volontà e il testamento. Se, presentendo che la sua vittoria più fulgida sarebbe stata coronata dalla sua stessa gloriosa morte, si sia indotto per un qualche motivo rituale a indossare i paramenti scintillanti delle sue luminose gesta; se l’essersi adornato per l’altare e il sacrificio sia stato davvero vanità, allora affettati e ampollosi sono i versi eroici dei grandi poemi epici e dei drammi, poiché in tali versi il poeta si limita a dare forma a quello slancio del sentimento che uno spirito come Nelson, quando ne abbia l’occasione, traduce in gesto.
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Sì, la rivolta del Nore fu sedata. Ma non a tutti i torti si pose rimedio. Se gli appaltatori, per esempio, non ebbero più la possibilità di darsi da fare con certe pratiche tipiche della loro gentaglia a ogni latitudine – quella di fornire vestiario scadente, razioni non buone o scarse nel peso – nondimeno l’arruolamento coatto, per dirne una, continuò.
Sanzionato dalla consuetudine e sancito legalmente da un Lord cancelliere recente come Mansfleld, tale sistema di equipaggiare la flotta – sistema ora in pratica caduto in disuso, ma formalmente non abolito – in quegli anni non era eliminabile. La sua abrogazione avrebbe messo in ginocchio l’indispensabile flotta, tutta a vela, senza vapore, con le sue innumerevoli vele e migliaia di cannoni, tutto insomma azionato a forza di braccia, una flotta sempre più insaziabile nel suo bisogno di uomini, perché allora moltiplicava il numero delle sue navi, navi di ogni tipo, a fronte delle congiunture presenti e future del convulso Continente.
Lo scontento, che aveva annunciato i due ammutinamenti, sopravviveva covando sotto le ceneri.
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