Non era perciò irragionevole temere che si riaccendessero i disordini, in modo sporadico o generalizzato. Ecco un esempio di tali timori. Nello stesso anno in cui ebbe luogo questa storia, Nelson, allora il contrammiraglio Sir Horatio, mentre con la sua flotta si trovava al largo della costa spagnola, ricevette dall’ammiraglio l’ordine di trasferire le insegne dalla Capitano alla Teseo per questa ragione: si temevano pericoli a causa dell’umore degli uomini su quest’ultima nave, allora appena giunta dalla patria, dove aveva preso parte al grande ammutinamento, e si riteneva che un ufficiale come Nelson fosse adatto non già a soggiogarli con il terrore, ma a conquistarli con la semplice presenza e l’eroica personalità, a una lealtà se non entusiastica come la sua, almeno altrettanto sincera.

Accadeva così che su molti ponti di comando serpeggiasse l’ansia. In mare si intensificarono la vigilanza e le precauzioni contro la ripresa delle sommosse. Da un istante all’altro poteva esplodere uno scontro. Quando succedeva, gli ufficiali assegnati alle batterie erano costretti, in certi casi, a stare con le spade sguainate dietro agli uomini addetti ai cannoni.

 

 

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Ma a bordo della settantaquattro dove ora Billy aveva appeso la sua amaca, ben poco nei modi degli uomini, e nulla nel comportamento esteriore degli ufficiali, avrebbe indicato al profano che il grande ammutinamento era un fatto recente. Su una grossa nave da guerra gli ufficiali modellano, in generale, la loro condotta e i loro atteggiamenti sul comandante, sempre che questi abbia l’ascendente che dovrebbe avere.

Il capitano – l’onorevole Edward Fairfax Vere per chiamarlo con l’intero titolo – era uno scapolo sui quarant’anni, un marinaio che si distingueva perfino in tempi prolifici di famosi uomini di mare. Sebbene imparentato con l’alta nobiltà, la sua carriera non dipendeva del tutto da pressioni legate a tale circostanza. Aveva molti anni di servizio, si era impegnato in molte battaglie, dimostrandosi sempre un ufficiale attento al benessere dei suoi uomini, senza però tollerare nessuna infrazione alla disciplina; molto preparato nella scienza della sua professione, intrepido fino al limite della temerarietà, ma non avventato. Per l’audacia dimostrata nei mari delle Indie Occidentali quale aiutante di bandiera di Rodney nella gloriosa vittoria riportata da questi su De Grasse, era stato nominato capitano.

A terra, in panni civili, quasi nessuno lo avrebbe preso per un uomo di mare, tanto più che non adornava mai di termini nautici i suoi discorsi non professionali, e, di modi gravi, dimostrava scarso apprezzamento per l’umorismo in sé. Non era in contrasto con questi tratti del suo carattere il fatto che nelle traversate dove non erano necessari interventi clamorosi si dimostrasse il più schivo degli uomini. Osservando quel signore di statura non imponente e privo di appariscenti insegue, che dalla cabina saliva sul ponte, e notando gli ufficiali che, in silenzio deferente, si ritiravano sottovento, l’uomo della strada lo avrebbe preso per un ospite del Re, un civile a bordo della nave del Re, un inviato discreto ma di grande prestigio in procinto di assumere una carica importante. Quei modi schivi derivavano forse da una certa autentica modestia virile, compagna a volte delle nature risolute, una modestia che trapelava non appena non si imponessero azioni decise e che, in qualunque momento della vita si riveli, indica sempre una virtù di tipo aristocratico.

Al pari di altri, impegnati nei vari campi delle più eroiche attività del mondo, capitan Vere, pur essendo abbastanza positivo all’occorrenza, a volte tradiva un certo umore sognante. Ritto da solo sul cassero, sopravvento, con una mano stretta intorno alle sartie, fissava con sguardo assente la distesa uniforme del mare. Se in quel momento gli si sottoponeva una questione futile, che veniva a interrompere il filo dei suoi pensieri, reagiva con maggiore o minore irascibilità che, tuttavia, subito controllava.

In marina era conosciuto da tutti con l’appellativo di “stellato Vere”. Ecco come tale epiteto venne assegnato a un uomo che, pur possedendo qualità autentiche, non ne aveva di brillanti: Lord Denton, un suo parente prediletto, uomo di gran cuore, era stato il primo ad andargli incontro per congratularsi con lui al suo ritorno in Inghilterra dalla crociera nelle Indie Occidentali, e proprio il giorno prima, sfogliando una copia delle poesie di Andrew Marvell, si era imbattuto, e non per la prima volta, nei versi intitolati Appleton House, nome di una delle residenze di un comune antenato, eroe delle guerre germaniche del Seicento, e precisamente nella strofa: «Ecco cosa vuol dire nascere in un paradiso domestico, sotto la severa disciplina di Fairfax e dello stellato Vere».

Così abbracciando il cugino reduce dalla grande vittoria di Rodney dove si era comportato con tanto coraggio, traboccando di legittimo orgoglio per il marinaio della famiglia, aveva esclamato con trasporto:

— Evviva a te, Ed; evviva a te, mio stellato Vere!

L’espressione girò di bocca in bocca e rimase permanentemente attaccata al suo cognome, tanto più che serviva a distinguere il capitano della Bellipotent da un altro Vere, più vecchio di lui, lontano parente, ufficiale di pari grado in marina.

 

 

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In vista della parte che il comandante della Bellipotent avrà nella storia che segue, forse è opportuno completare il ritratto abbozzato nel capitolo precedente.

A parte le sue qualità di ufficiale di marina, il capitano Vere era un uomo eccezionale. A differenza di non pochi famosi marinai inglesi, il lungo e arduo servizio reso con esemplare abnegazione non aveva finito per assorbirlo e salarlo del tutto. Aveva una particolare inclinazione verso ciò che è intellettuale. Amava i libri e non si metteva mai in mare senza aver rinnovato la biblioteca, contenuta ma sceltissima Gli intervalli di ozio e isolamento, talvolta così uggiosi, che di tanto in tanto si abbattono sui comandanti perfino durante le imprese di guerra, non furono mai tediosi per capitan Vere. Privo di quel gusto letterario che si cura meno della sostanza che della forma, prediligeva i libri verso i quali per natura si volgono gli animi seri e superiori, che nel mondo occupano posti attivi e di autorità: libri che trattano di uomini ed eventi reali, non importa di quale epoca – storia, biografie, autori non convenzionali come Montaigne, che, scevri da ipocrisia e conformismo, in modo onesto e con buon senso, riflettono sulla realtà.

Attenendosi a questo tipo di letture, trovava conferma ai suoi intimi pensieri – conferma che invano aveva cercato nelle conversazioni sociali, al punto che, su alcuni temi fondamentali, si erano radicate in lui certe salde convinzioni che presentiva non sarebbero mutate, finché fossero rimaste integre le sue facoltà intellettive. Considerando in quali tempi travagliati si trovasse a vivere, questo fu per lui un vantaggio. Le sue ferme convinzioni fungevano da argine contro le acque travolgenti delle nuove idee sociali, politiche e di altro tipo, che in quei giorni devastavano come un torrente non pochi animi, alcuni per natura non inferiori al suo. Mentre altri membri dell’aristocrazia, alla quale apparteneva per nascita, erano fieramente avversi agli innovatori, soprattutto perché le loro teorie erano ostili alle classi privilegiate, capitan Vere vi si opponeva in modo disinteressato, non soltanto perché gli sembravano incapaci di dare vita a istituzioni durature, ma anche perché erano incompatibili con la pace del mondo e l’autentico benessere dell’umanità.

Meno informati di lui e meno seri, certi ufficiali del suo grado, che a volte era costretto a frequentare, lo trovavano poco socievole, un signore, a loro avviso, arido e libresco. E quando per caso lasciava la loro compagnia, non mancava mai qualcuno che dicesse:

— Vere è un animo nobile. Lo stellato Vere. Malgrado quello che dicono le cronache, Sir Horatio — (significando colui che divenne Lord Nelson) — non è in fondo un combattente migliore o un miglior uomo di mare. Ma, detto fra noi in questo momento, non vi pare che ci sia in lui una vena bizzarra di pedanteria? Sì, come la filigrana del Re in un rotolo di gomene?

C’erano, in apparenza, motivi per questo tipo di critiche confidenziali, perché non soltanto i discorsi del capitano non scendevano mai verso toni scherzosi e familiari, ma nell’illustrare un qualsiasi punto che non toccasse i protagonisti e i grandi eventi dell’epoca, era capace di citare personaggi ed episodi dell’antichità proprio come citava i moderni. Pareva incurante del fatto che ai suoi cordiali compagni – uomini le cui letture si limitavano per lo più ai diari di bordo – quelle remote allusioni, per quanto appropriate, fossero del tutto estranee. Ma una sensibilità di questo tipo non riesce naturale a caratteri come capitan Vere. L’onestà impone loro la franchezza, talvolta ad ampio raggio, simile a quella di un uccello migratore che in volo non si cura di quando attraversa una frontiera.

 

 

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Non è necessario descrivere qui nei particolari i tenenti e gli altri ufficiali intorno a capitan Vere, né occorre accennare a nessuno dei capocarichi.