Dimmi in tua coscienza, Efix, che intenzioni ha? Fammi questa carità, per l'anima del tuo padrone.”

Efix diventò pensieroso.

“Sì, una sera, alla festa, egli mi disse: la sposerò... In mia coscienza credo però che egli non possa.”

“Perché? Egli non è nobile.”

“Non può, ripeto, donna!”, disse Efix con più forza.

“Per denari ne ha, questo si vede. Spende senza contare. E il tuo padrone morto diceva, mi ricordo, quando anche lui veniva a sedersi a casa mia ed era giovane e viveva mia nonna: l'amore è quello che lega l'uomo alla donna, e il denaro quello che lega la donna all'uomo.”

“Lui? Diceva così? A chi?”

“A me, sei sordo? Sì a me. Ma io avevo quindici anni ed ero senza malizia. Mia nonna cacciò via di casa don Zame e mi fece sposare Priamu Piras. E Priamu mio era un valent'uomo: aveva un pungolo con una lesina in cima e mi diceva, avvicinandomelo agli occhi: vedi? ti porto via la pupilla viva se guardi don Zame quando ti guarda. Così passò il tempo. Ma i morti ritornano: eccoli, quando don Giacintino sta seduto sullo sgabello e Grixenda sulla soglia della porta, mi par di essere io e il beato morto...”

Quando ella incominciava a divagare così non la finiva mai, ed Efix che lo sapeva la mandò via infastidito.

“Andate in pace! Cercate anche voi un uomo con un buon pungolo, per nipote vostra!”

E la vecchia contenta di sapere che il ragazzo una sera alla festa aveva detto: “la sposerò” andò via senz'altro. Efix rimase solo in faccia alla luna rossa che saliva tra i vapori cinerei della sera, ma si sentiva inquieto: nel sopore in cui tutta la valle era immersa, il mormorio dell'acqua gli pareva il ronzio della febbre, e che i grilli stessi col loro canto si lamentassero senza tregua.

No, la vita che Giacinto conduceva non era quella di un giovane onesto e timorato di Dio: giorno per giorno le grandi speranze fondate su lui cadevano lasciando posto a vere inquietudini. Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il pozzo più profondo, pensava Efix, ad attingervi troppo si secca.

Qualche sera Giacinto scendeva al poderetto per portare in paese le frutta e gli ortaggi che le zie poi vendevano a casa di nascosto come roba rubata, poiché non è da donne nobili far le erbivendole, e tutto questo era quanto di più utile egli faceva: il resto del tempo lo passava oziando di qua e di là per il paese. Ma eccolo che vien su per il sentiero trascinandosi a fianco come un cane la bicicletta polverosa: arriva ansante quasi venga dall'altro capo del mondo e dopo aver gettato da lontano un involto al servo si butta per terra lungo disteso come morto.

E di un morto aveva il viso pallido, le labbra grigie; ma un tremito gli agitava la spalla sinistra, tanto che Efix spaventato trasse di tasca un tubetto di vetro, fece cadere sulla palma della mano due pastiglie di chinino e gliele mise in bocca.

“Mandale giù. Hai la febbre!”

Giacinto ingoiò le pastiglie e senza sollevarsi si strinse la testa fra le mani.

“Come sono stanco, Efix! Sì, ho la febbre: l'ho presa, sì! Come si fa a non prenderla, in questo maledetto paese? Che paese!”, aggiunse come parlando fra sé, stanco. “Si muore: si muore...”

“Alzati”, disse Efix, curvo su lui. “Non star lì: l'aria della sera fa male.”

“Lasciami crepare, Efix! Lasciami! Che caldo! Non ho mai conosciuto un caldo simile: almeno da noi si facevano i bagni...”

Che dirgli, per confortarlo? “Perché non sei rimasto là ?” Efix sentiva troppa pietà di tanta miseria prostrata davanti a lui, per parlare così.

“Che hai fatto oggi?”, domandò sottovoce.

“E cosa vuoi che faccia? Non ce niente da fare! Scender qui a portarti il pane, tornar là a portare l'erba! E loro che vivono come tre mummie! Zia Noemi oggi però s'e inquietata un poco, perché zia Ester mi diceva che non riesce a metter su i denari per l'imposta. Si capisce! Spendono per me, e da me non vogliono niente! Io dissi a zia Ester: non preoccupatevi, andrò io dall'esattore. - Una furia, zia Noemi! Aveva gli occhi come un gatto arrabbiato. Non la credevo così collerica. Ebbene, mi disse persino: coi tuoi denari, se ne hai, compra un'altra fisarmonica a Grixenda. Che male c'è, Efix, s'io vado da quella ragazza? Dove si va, se no? Zio Pietro mi porta alla bettola, e a me non piace il vino, lo sai; il Milese vuole che io giochi (così s'è fatto la fortuna, lui!) ed a me non piace giocare. Vado là, dalla ragazza, perché è buona, e la vecchia dice cose divertenti. Che male c'è, dimmi. Dimmi?”

Lo guardava di sotto in su, supplichevole, con gli occhi dolci lucidi alla luna. Efix aveva preso l'involto del pane, ma non poteva mangiare; sentiva la gola stretta da un'angoscia profonda.

“Nessun male! Ma la ragazza, benché buona, è povera e non è degna di te.”

“L'amore non conosce né povertà né nobiltà. Quanti signori non han sposato ragazze povere? Che ne sai tu? Più di un lord inglese, più di un milionario d'America han sposato serve, maestre, cantanti... perché? Perché amavano. E quelli son ricchi: sono i re del petrolio, del rame, delle conserve! Chi sono io, al loro confronto? E le donne? Le principesse russe, le americane, chi sposano? Non s'innamorano di poveri artisti e persino dei loro cocchieri e dei loro servi? Ma tu che cosa puoi sapere?”

Efix stringeva fra le mani un pezzo di pane e gli sembrava di stringere il suo cuore tormentato dai ricordi.

“Eppoi dicono di credere in Dio, loro! Perché non mi lasciano sposare la donna che amo?”

“Taci, Giacinto! Non parlare così di loro! Esse vogliono il tuo bene.”

“Allora mi lascino formare la mia famiglia. Io, magari, porterò Grixenda in casa loro ed essa le aiuterà. Ormai esse sono vecchie. Io lavorerò.