Come fare?”

Ma Efix gli parlava sottovoce, curvo su lui delirante:

“Va' figlio di Dio, va'! Io avrei voluto che tu non andassi, ma se io stesso ti dico d'andartene è perché non c'è altra salvezza. Ricordati le cose belle che dicevi, l'altra sera. Dicevi: voglio che le zie stian bene, voglio che la casa risorga... Queste cose le pensavo anch'io, quando tu dovevi venire. E invece! Invece, se tu non paghi, l'usuraia metterà all'asta il poderetto o ti caccerà in carcere per le firme false; e loro dovranno domandare l'elemosina... Questo hai fatto tu, questo! So che non l'hai fatto per male. Tu che promettevi, l'altra sera, tante cose belle, tu, figlio di Dio...”.

La spalla di Giacinto ricominciò a tremare. Sollevò il viso, sotto il viso reclinato di Efix, e si guardarono disperati.

“Non l'ho fatto per male. Volevo guadagnare. Ma come si fa, in questo paese? Tu lo sai, tu che sei rimasto così... così... miserabile...”

“Le zie non rimetteranno un soldo”, riprese, dopo un momento di silenzio ansioso. “C'è, sì, anche la firma di zia Ester; l'ho dovuta far io perché... l'usuraia non mi dava credito. Ma io pagherò, vedrai: e se no, andrò in carcere. Non importa. ”

“Tu, dunque, Efix, hai denari?”

“Se ne avessi non sarei qui spezzato! Avrei già ritirato le cambiali...”

“Che fare, Efix, allora? Che fare?”

“Ebbene, senti: tu andrai ancora dall'usuraia e ti farai dare cento lire per recarti a Nuoro. Là cercherai il posto. L'importante è di cambiar strada, adesso; di sollevarti una buona volta. Intendi?”

Ma Giacinto, che fino all'ultimo momento aveva sperato nell'aiuto del servo, non rispose, non parlò più. Ripiegato su se stesso come una bestia malata, sentiva le cavallette volare crepitando tra le foglie secche e seguiva con uno sguardo stupido lo sbattersi delle loro ali iridate. Due gli caddero sulla mano, intrecciate, verdi e dure come di metallo. Egli trasalì. Pensò a Grixenda, pensò che doveva partire e non rivederla più, così povero da rinunziare anche a una creatura così povera. E affondò il viso tra l'erba, singhiozzando senza piangere, con le spalle agitate da un tremito convulso.

 

 

Capitolo ottavo

 

Era un giovedì sera e l'usuraia non filava per timore della Giobiana , la donna del giovedì , che si mostra appunto alle filatrici notturne e può loro cagionare del male.

Pregava, invece, seduta sullo scalino della porta sotto la ghirlanda della vite argentea e nera, alla luna: e ogni volta che guardava intorno le sembrava ancora di vedere, qua e là sulla muraglia dei fichi d'India, gli occhi di Efix verdi scintillanti d'ira. Eran le lucciole.

Eran le lucciole: ma anche lei credeva alle cose fantastiche, alla vita soprannaturale degli esseri notturni e ricordava che da ragazzetta, quando era povera e andava a chieder l'elemosina ed a raccogliere sterpi sotto le rovine del castello, e la fame e la febbre di malaria la perseguitavano come cani arrabbiati, una volta mentre scendeva fra i ciottoli, acuti come coltelli, in faccia al sole cremis fermo sopra i monti violetti di Dorgali, un signore l'aveva raggiunta, silenzioso, toccandola per la spalla. Era vestito di colore del sole e dei monti, e il viso si rassomigliava a quello di un figlio di don Zame Pintor morto giovane.

Ella lo aveva subito riconosciuto: era il Barone, uno dei tanti antichi Baroni i cui spiriti vivevano ancora tra le rovine del Castello, nei sotterranei scavati entro la collina e che finivano nel mare.

“Ragazza”, le disse con voce straniera, “corri dalla Maestra di parto , e pregala di venir su stanotte al Castello, perché mia moglie, la Barona, ha i dolori. Corri, salva un'anima. Tieni il segreto. Prendi questo.”

Ma Kallina tremava sostenendosi al suo fascio di legna che contro il sole cremis le pareva una nuvola nera; non poté quindi stendere la manina e le monete d'oro che il Barone porgeva caddero per terra.

Egli sparve.