Alta e scarna, col viso egizio inquadrato dal fazzoletto nero con le cocche ripiegate alla sommità del capo, la vecchia filava seduta sullo scalino della sua catapecchia di pietre nerastre. Una fila di coralli le circondava il lungo collo giallo rugoso, due pendenti d'oro tremolavano alle sue orecchie come gocce luminose che non si decidevano a staccarsi. Pareva che invecchiando ella avesse dimenticato di togliersi quei gioielli di giovinetta.
“Ave Maria, zia Pottoi; come ve la passate? Il ragazzo è rimasto lassù, ma stasera sarà di ritorno.”
Ella lo fissava coi suoi occhi vitrei.
“Ah, sei Efix? Dio ti aiuti. Ebbene, la lettera di chi era? Di don Giacintino? Se egli arriva accoglietelo bene. Dopo tutto torna a casa sua. È l'anima di don Zame, perché le anime dei vecchi rivivono nei giovani. Vedi Grixenda mia nipote! È nata sedici anni fa, per la festa del Cristo, mentre la madre moriva. Ebbene, guardala: non è sua madre rinata? Eccola...”
Ecco infatti Grixenda che torna su dal fiume con un cestino di panni sul capo, alta, le sottane sollevate sulle gambe lucide e dritte di cerbiatta. E di cerbiatta aveva anche gli occhi lunghi, umidi nel viso pallido di medaglia antica: un nastro rosso le attraversava il petto, da un lembo all'altro del corsettino aperto sulla camicia, sostenendole il seno acerbo.
“Zio Efix!”, gridò carezzevole e crudele, mettendogli il cestino sul capo e frugandogli le saccocce.
“Anima mia bella! Sempre penso a voi, e voi non avete nulla da darmi... Neanche una mandorla!”
Efix lasciava fare, rallegrato dalla grazia di lei. Ma la vecchia, col viso immobile e gli occhi vitrei, disse con dolcezza:
“Don Zame bonanima ritorna”.
Allora Grixenda s'irrigidì, e il suo bel viso e i suoi begli occhi rassomigliavano vagamente a quelli della nonna.
“Ritorna?”
“Lasciate queste storie!”, disse Efix deponendo il cestino ai piedi della fanciulla, ma ella ascoltava come incantata le parole della nonna, e anche lui discendendo la strada credeva di rivedere il passato in ogni angolo di muro. Ecco, laggiù, seduto sulla panchina di pietra addossata alla casa grigia del Milese un grosso uomo vestito di velluto la cui tinta marrone fa spiccare meglio il colore del viso rosso e della barba nera.
Non è don Zame? Come lui sporge il petto, coi pollici nei taschini del corpetto, le altre dita rosse intrecciate alla catena d'oro dell'orologio. Egli sta lì tutto il giorno a guardare i passanti e a beffarsi di loro: molti cambiano strada per paura di lui, e altrettanto fa Efix per raggiungere non visto la casa dell'usuraia.
Una siepe di fichi d'India recingeva come una muraglia pesante il cortile di zia Kallina: anche lei filava, piccola, con le scarpette ricamate, senza calze, col visetto bianco e gli occhi dorati di uccello da preda lucidi all'ombra del fazzoletto ripiegato sul capo.
“Efix, fratello caro! Come stai? E le tue padroncine? E questa visita? Siedi, siedi, indugiati.”
Galline sonnolente che si beccavano sotto le ali, gattini allegri che correvano appresso ad alcuni porcellini rosei, colombi bianchi e azzurrognoli, un asino legato a un piuolo e le rondini per aria davano al recinto l'aspetto dell'arca di Noè: la casetta sorgeva sullo sfondo della vecchia casa riattata del Milese, alta, quest'ultima, col tetto nuovo, ma qua e là scrostata e come graffiata dal tempo indispettito contro chi voleva togliergli la sua preda.
“Il podere?”, disse Efix appoggiandosi al muro accanto alla donna. “Va bene. Quest'anno avremo più mandorle che foglie. Così ti pagherò tutto, Kallì! Non stare in pensiero...”
Ella aggrottò le sopracciglia nude, seguendo con gli occhi il filo del suo fuso.
“Non ci pensavo neanche, vedi! Tutti fossero come te, e i sette scudi che tu mi devi fossero cento!”
“Saetta che ti sfiori!”, pensava Efix. “M'hai dato quattro scudi, a Natale, e ora son già sette!”
“Ebbene, Kallì”, aggiunse a bassa voce, curvando la testa come parlasse ai porcellini che gli fiutavano con insistenza i piedi. “Kallì, dammi un altro scudo! Così fan otto, e a luglio, come è vero il sole, ti restituirò fino all'ultimo centesimo...”
L'usuraia non rispose; ma lo guardò a lungo da capo a piedi e tese il pugno verso di lui facendo le fiche.
Efix sobbalzò e le afferrò il polso, mentre i porcellini scappavano seguiti dai gattini e a tanto subbuglio le galline starnazzavano.
“Kallì, saetta che ti sfiori, se non ci fossero gli uomini come me, tu invece di praticar l'usura andresti a pescar sanguisughe...”
“Meglio pescar sanguisughe che farsi succhiare il sangue come te, malaugurato! Sì, Maccabeo, te lo do lo scudo; dieci e cento te ne do, se li vuoi, come li do a gente più ragguardevole di te, alle tue padroncine, ai nobili e ai parenti dei Baroni, ma le fiche te le farò sempre finché sarai uno stupido, cioè fino alla tua morte... Te li darò...”
E andò a prendere cinque lire d'argento.
Efix se ne andò, con la moneta nel pugno, seguito dai saluti ironici della donna.
“Di' alle tue padroncine che si conservino bene.”
Ma egli era deciso a sopportare ogni pena pur di far bella figura all'arrivo di don Giacintino. Voleva comprarsi una berretta nuova per riceverlo, e scese quindi alla bottega del Milese, rassegnandosi anche a salutare l'uomo seduto sulla panchina. Era don Predu, il parente ricco delle sue padroncine.
Don Predu rispose con un cenno sprezzante del capo, da sotto in su, ma non sdegnò di tender l'orecchio per sentire cosa il servo comprava.
“Dammi una berretta, Antoni Franzì, ma che sia lunga e che non sia tarlata...”
“Non l'ho presa in casa delle tue padrone”, rispose il Milese che aveva la lingua lunga. E fuori don Predu raschiò in segno di approvazione, mentre il negoziante si arrampicava su una scaletta a piuoli.
“Tutto invecchia e tutto può rinnovarsi, come l'anno”, replicò Efix, seguendo con gli occhi la figura smilza del Milese ancora vestito con la lunga sopravveste di pelli del suo paese.
La botteguccia era piccola ma piena zeppa come un uovo: sulle scansie rosseggiavano le pezze dello scarlatto e accanto brillava il verde delle bottiglie di menta; i sacchi di farina sporgevano le loro pance bianche contro le gobbe nere delle botti d'aringhe, e nella piccola vetrina le donne nude delle cartoline illustrate sorridevano ai vasi di confetti stantii ed ai rotoli di nastri scoloriti.
Mentre il Milese traeva da una scatola le lunghe berrette di panno nero, ed Efix ne misurava con la mano aperta la circonferenza, qualcuno apri la porticina che dava sul cortile; e nello sfondo inghirlandato di viti apparve, seduta su una lunga scranna, una donna imponente che filava placida come una regina antica.
“Ecco mia suocera: domanda a lei se queste berrette non costano a me nove pezzas ”, disse il Milese, mentre Efix se ne misurava una tirandone giù sulla fronte il cerchio e ripiegandone la punta alla sommità della testa. “Hai scelto la migliore; non sei semplice come dicono! Non vedi che è una berretta da sposo?”
“È stretta.”
“Perché è nuova, figlio di Dio, prendila. Nove pezzas: è come che sia buttata nella strada.”
Efix se la tolse e la lisciò, pensieroso; finalmente mise sul banco la moneta dell'usuraia.
Don Predu sporgeva il viso dalla porta, e il fatto che Efix comprava una berretta così di lusso richiamò anche l'attenzione della suocera del Milese. Ella chiamò il servo con un cenno del capo, e gli domandò con solennità come stavan le sue padrone. Dopo tutto erano donne nobili e meritavano il rispetto delle persone per bene: solo i giramondo arricchiti, come il Milese suo genero, potevano mancar loro di rispetto.
“Salutale tanto e di' a donna Ruth che presto andrò a farle una visita. Siamo sempre state buone amiche, con donna Ruth, sebbene io non sia nobile.”
“Voi avete la nobiltà nell'anima”, rispose galantemente Efix, ma ella roteò lieve il fuso come per dire “lasciamo andare!”.
“Anche mio fratello il Rettore ha molta stima per le tue padrone. Egli mi domanda sempre: "quando si va ancora assieme con le dame alla festa del Rimedio?".”
“Sì”, ella proseguì con accento di nostalgia, “da giovani si andava tutti assieme alla festa: ci si divertiva con niente. Adesso la gente pare abbia vergogna a ridere.”
Efix piegava accuratamente la sua berretta.
“Dio volendo quest'anno le mie padrone andranno alla festa... per pregare, non per divertirsi...”
“Questo mi fa piacere.
1 comment