Sgombrare, via!

 

CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende,

va’ ad ingozzarti con i loro avanzi.

 

(Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina)

 

TERZO SERVO - Che! Non vuoi?

(Al Secondo Servo)

Per favore, di’ al padrone

che strano convitato ha dentro casa.

 

SECONDO SERVO - Vado subito.

 

(Esce)

 

TERZO SERVO - (A Coriolano)

Dove stai di casa?

 

CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165).

 

TERZO SERVO - Il baldacchino?

 

CORIOLANO - Sì.

 

TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino?

 

CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi(166).

 

TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi?

Che razza di somaro è mai costui!

Allora alloggi pure con le taccole(167)?

 

CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio

del tuo padrone.

 

TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare?

Vuoi avere a che far col mio padrone?

 

CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio

dell’aver a che far con la tua ganza.

Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola

col tuo tagliere. Lèvati di mezzo!

 

(Lo caccia via percuotendolo)

 

Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO

 

AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo?

 

SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano)

È qui, padrone.

L’avrei cacciato a calci come un cane;

non l’ho fatto per non recar disturbo

alle lor signorie che son di là.

 

(Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte)

 

AUFIDIO - (A Coriolano)

Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?...

Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei.

 

CORIOLANO - (Scoprendosi il volto)

Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto,

e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi

per quel che sono, ti dirò il mio nome.

 

AUFIDIO - Cioè?

 

CORIOLANO - Un nome che non suona musica

agli orecchi dei Volsci, e soprattutto

deve suonar ben aspro a quelli tuoi.

 

AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera

e impresso in faccia il segno del comando.

Anche se il tuo sartiame va a brandelli,

la struttura completa dello scafo

rivela nobiltà. Qual è il tuo nome?

 

CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi.

Ancora dunque non mi riconosci?

 

AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome.

 

CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo

che ha procurato a te in particolare

e a tutti i Volsci assai malanni e lutti.

N’è testimone questo soprannome:

Coriolano, che m’hanno dato a Roma(168).

Il gravoso servizio militare,

i pericoli estremi da me corsi

e le gocce di sangue che ho versato

per l’irriconoscente patria mia

m’hanno fruttato, quale ricompensa,

nulla di più che questo soprannome:

un bel ricordo, una testimonianza

per te di tutto l’odio ed il rancore

che dovresti portarmi. Questo nome

è però tutto ciò che mi rimane:

le crudeltà, l’invidia della plebe

secondata da nobili vigliacchi

che m’han lasciato a lottare da solo,

si sono divorate tutto il resto

ed han permesso ch’io fossi cacciato

da Roma per i voti degli schiavi.

È stato questo estremo di sventura

che m’ha portato qui, al tuo focolare;

non già con la speranza - non fraintendermi -

d’aver salva la vita,

ché, se avessi paura della morte,

e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi,

quello sei tu, ma per puro dispetto,

e per rifarmi in pieno con coloro

che m’han bandito. E son davanti a te.

Se tu covi nel cuore una rivincita

che ti ripaghi dei torti subiti,

se brami cancellare la vergogna

delle mutilazioni che si vedono

in ogni angolo del tuo paese,

non esitare a trarre beneficio

dalla mia situazione di disgrazia:

usala in modo da trarre un vantaggio

da quanto io possa far per vendicarmi.

Perch’io ti dico che combatterò

contro l’incancrenito mio paese

con la rabbia dei diavoli d’inferno.

Ma se di tanto osare non ti senti,

e stanco sei di tentar nuove sorti,

anch’io sono stanchissimo di vivere,

e pronto a presentare la mia gola

a te ed all’antico tuo rancore.

E se ti rifiutassi di tagliarla,

ti mostreresti soltanto uno stolto,

perché il mio odio t’ha sempre inseguito,

ha fatto correre botti di sangue

dalla tua terra, ed io non potrei vivere

se non che a tuo completo disonore,

salvo che non vivessi per servirti.

 

AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira)

Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola

di queste tue m’ha strappato dal cuore

una radice dell’antico odio!

Se Giove stesso su da quella nuvola

mi rivelasse divini misteri,

e mi dicesse: “Questa è verità!”

a lui non crederei più che ora a te,

nobilissimo Marcio! Ch’io recinga

in un abbraccio codesto tuo corpo

contro il quale la mia forcuta lancia

si spezzò cento volte, e le sue schegge

sfregiarono la faccia della luna!

E adesso invece stringo fra le braccia

la stessa incudine della mia spada,

e caldamente quanto nobilmente

gareggio col tuo ardore,

come prima, con ambiziosa forza,

col tuo valore. Sappi solo questo:

ho amato molto colei che ho sposato;

mai uomo sospirò più lealmente.

Ma ora, nel vederti avanti a me,

nobilissimo uomo, con più gioia

mi sobbalza rapito il cuore in petto

di quando vidi per la prima volta

la mia sposa varcare la mia soglia.

Ebbene, dico a te, come al dio Marte,

che abbiamo già un esercito allestito,

pronto all’azione, ed ancora una volta

m’ero proposto di falciarti via

con la mia spada lo scudo dal braccio,

o di perdere il mio;

dodici volte, l’una dopo l’altra,

tu m’hai piegato, e da allora ogni notte

non sogno che di scontri tra noi due:

ci vedo tutti e due avvinti a terra,

e lì, dopo esserci slacciati gli elmi,

afferrarci l’un l’altro per la gola...

per poi svegliarmi tutto tramortito,

e perché?, per un nulla, solo un sogno.

Degno Marcio, se pur altra querela

non avessimo che la tua cacciata

con Roma, chiameremmo tutti gli uomini

alle armi, dai dodici ai settanta,

e, rovesciando rivoli di guerra

nelle viscere dell’ingrata Roma,

strariperemmo su tutto il suo corpo

con la violenza d’un torrente in piena.

Ma entra, vieni a stringere la mano

ai senatori amici qui venuti

a salutarmi, poi che mi preparo

ad attaccare i vostri territori,

se non proprio la stessa Roma.

 

CORIOLANO - O dèi,

questa è una vostra benedizione!

 

AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico,

prender la guida della tua vendetta,

prenditi la metà delle mie forze

e decidi il da fare, a tuo talento

come ti detta meglio l’esperienza;

ché tu conosci più di chiunque altro

del tuo paese forza e debolezza,

se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto

alle porte di Roma, o se investirli

con violenza nella periferia,

per spaventarli prima di distruggerli.

Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa

ti presenti a coloro cui compete

di secondare i tuoi desiderata.

Sii dunque mille volte benvenuto,

più amico oggi che nemico ieri

(e lo sei stato, Marcio, e che nemico!).

Qua la mano. Sii molto benvenuto.

 

(Escono)

 

Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169)

 

PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi!

 

SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato,

ti giuro, di cacciarlo a bastonate...

Però dentro di me lo sentivo

che il suo abito non diceva il vero...

 

PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro

con la presa del pollice e del medio,

come se avesse avviato una trottola.

 

SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso

che c’era in lui qualcosa; una tal faccia

che mi pareva... non so come dire.

 

PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse...

Eh, m’impicchino se non ho capito

che quello lì ci aveva qualche cosa

in più di quanto potessi pensare.

 

SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare.

Senz’altro è l’uomo più straordinario

che ho visto al mondo.

 

PRIMO SERVO - Penso anch’io così.

Però, come soldato, c’è qualcuno

di lui più grande, e tu lo sai chi è.

 

SECONDO SERVO - Chi, il padrone?

 

PRIMO SERVO - Non c’è discussione.

 

SECONDO SERVO - Ne vale sei.

 

PRIMO SERVO - No, non esageriamo.

Però lo reputo miglior soldato.

 

SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla:

nella difesa d’una roccaforte

il nostro generale è ineguagliabile.

 

PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco.

 

Entra il TERZO SERVO

 

TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi,

e che notizie, figli di puttana!

 

I DUE - Quali, quali, su, spùtale!

 

TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra,

non vorrei essere proprio un romano:

sarebbe come una condanna a morte.

 

I DUE - Perché, perché?

 

TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio

che le ha suonate non so quante volte

al nostro generale, è qui con noi.

 

PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto?

 

TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via,

però gli ha dato del filo da torcere.

 

SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi,

per lui è stato sempre un osso duro.

L’ho udito spesso dirlo da lui stesso.

 

PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui,

a dire il vero: davanti a Corioli

l’ha tagliuzzato come una braciola.

 

SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale

se lo sarebbe pur cotto e mangiato.

 

PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie?

 

TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti

che pare il figlio e l’erede di Marte:

l’hanno fatto sedere a capotavola;

e i senatori, per fargli domande,

s’alzano in piedi e si scoprono il capo.

Il nostro generale, poi, lo tratta

come fosse la sua cara morosa:

lo sfiora con la mano come un santo,

e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi.

Ma il vero succo sapete qual è?

Che il nostro generale è dimezzato

rispetto a ieri, perché l’altro mezzo

se l’è preso quell’altro, col consenso

e le preghiere di tutta la tavola.

Andrà, egli dice, a tirare le orecchie

a chi sta a guardia delle porte di Roma,

che falcerà ogni cosa avanti a sé,

per far pulito e sgombro il suo passaggio.

 

SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo,

quant’altri al mondo.

 

TERZO SERVO - Farlo, lo farà;

perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici,

ma anche tanti amici; i quali amici

non hanno avuto, diciamo, il coraggio,

di mostrarsi, diciamo, amici suoi

mentre lui è in discapito(170)...

 

PRIMO SERVO - “Discapito”?

E che cos’è?

 

TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno

con la cresta rialzata e bene in sangue

salteran fuori dalle loro tane

come conigli dopo l’acquazzone

e tutti insieme a fargli grande festa.

 

PRIMO SERVO - Ma quando ciò?

 

TERZO SERVO - Domani, oggi, subito.

Potresti sentir battere il tamburo

addirittura questo pomeriggio,

come se fosse l’ultima portata

del lor banchetto, da tradurre in atto

prima ch’essi s’asciughino la bocca.

 

SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi

un po’ di movimento. Questa pace

serve solo ad arrugginire il ferro,

ad accrescere il numero dei sarti

e partorire autori di ballate.

 

PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra!

È meglio cento volte della pace,

come il giorno è migliore della notte;

la guerra è cosa viva, movimento,

è vispa, ha voce, è piena di sorprese.

La pace è apoplessia, è letargia:

spenta, sorda, insensibile, assonnata,

e fa mettere al mondo più bastardi

che non uccida uomini la guerra.

 

SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire,

per un verso, una grande scopatrice,

così come la pace

una grande fattrice di cornuti.

 

PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro.

 

TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace,

hanno meno bisogno l’un dell’altro.

Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio(171)!

E spero che vedremo qui Romani

a pochi soldi l’uno, come i Volsci.

Si alzano da tavola! Si alzano!

 

PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!

 

(Escono entrando nella sala da pranzo)

 

 

SCENA VI - Roma, una piazza

 

Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO

 

SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare,

né c’è luogo a temerne: le sue armi

sono spuntate(172)... Il popolo sta quieto

e in pace, la selvaggia agitazione

è finita. Che tutto ora vada bene

a Roma, grazie a noi,

fa arrossire di rabbia i suoi amici,

che avrebbero di certo preferito,

a costo di soffrirne loro stessi,

vedere moltitudini in rivolta

per le strade di Roma anziché udire

cantare i nostri nelle lor botteghe,

serenamente intenti ai lor mestieri.

 

BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto.

 

Entra MENENIO

 

Non è Menenio, questo?

 

SICINIO - È lui, è lui,

s’è fatto gentilissimo con noi,

da qualche tempo in qua. Salute, amico.

 

MENENIO - Salute a voi.

 

SICINIO - Il vostro Coriolano

non sembra essere molto rimpianto,

tranne che nella cerchia degli amici.

La repubblica regge bene in piedi

senza di lui, e reggerebbe sempre,

foss’egli ancor più in collera con lei.

 

MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio

però, se avesse saputo aspettare.

 

SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova?

 

MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie

sono anch’esse sprovviste di notizie.

 

Entrano alcuni POPOLANI

 

I POPOLANI - (In coro)

Gli dèi v’assistano sempre, tribuni!

 

SICINIO - Buona sera a voi tutti.

 

BRUTO - Buona sera!

 

PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre inginocchiati,

noi, con le nostre mogli e i nostri figli,

a pregare gli dèi per voi due!

 

SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente!

 

BRUTO - Addio, buona salute, cari amici!

Avesse avuto per voi Coriolano

la premura che vi portiamo noi!

 

I POPOLANI - (In coro)

Il cielo vi protegga!

 

I DUE TRIBUNI - State bene.

(Escono i popolani)

 

SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici

questi, rispetto a quando questa gente

si riversava in massa per le strade

urlando e seminando la rivolta.

 

BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente

un bravo condottiero, ma altezzoso,

ambiziosissimo, pieno di sé...

 

SICINIO - ... e quanto mai smanioso

di diventare il padrone assoluto

della repubblica, senza collega(173).

 

MENENIO - No, questo non lo credo.

 

SICINIO - Eh, a quest’ora

ce lo saremmo ritrovato tale,

a nostro gran rimpianto,

s’egli fosse salito al consolato.

 

BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna;

e Roma, lui assente,

può viver tranquilla e in sicurezza.

 

Entra un EDILE

 

EDILE - Onorandi tribuni, c’è uno schiavo

che abbiam messo in prigione, ch’era in giro

spargendo dappertutto la notizia

che i Volsci, da due parti, con due eserciti,

son penetrati nei nostri confini

in armi, e van con furia micidiale,

distruggendo ogni cosa che si para

sulla loro avanzata.

 

MENENIO - Questo è Aufidio,

che, avendo appreso del bando di Marcio,

tira fuori di nuovo ora le corna

che ha mantenuto sempre dentro il guscio

senza osar di mostrarle,

finché per Roma combatteva Marcio.

 

SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio!

(All’Edile)

Va’, fallo fustigare l’allarmista!

Non può esser che i Volsci osino tanto

da romperla con noi!

 

MENENIO - Ah, può ben essere!

Abbiamo precedenti che può essere.

Però interrogatelo quest’uomo

prima di castigarlo:

che dica da che fonte ha la notizia,

se non volete andar incontro al rischio

di frustare la vostra informazione

e bastonare chi vi mette in guardia

contro qualcosa ch’è da far paura.

 

SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere.

 

BRUTO - No, no, non è possibile.

 

Entra un MESSO

 

MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione,

stanno andando al Senato.

Ci son notizie che li hanno sconvolti.

 

SICINIO - È tutto questo schiavo...

(All’Edile)

Va’, fallo fustigare avanti a tutti.

L’allarme è suo; nient’altro che fandonie.

 

MESSO - No, onorevole tribuno, no!

Il suo racconto è tutto confermato.

E c’è dell’altro, ancora più terribile!

 

SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa?

 

MESSO - È tutto un dire, da bocche diverse

- quanto ci sia di vero non lo so -

che Caio Marcio, unito a Tullo Aufidio,

vien marciando alla testa d’un esercito

contro Roma, e giurando una vendetta

generale, così indiscriminata

da includere i più giovani e i più vecchi.

 

SICINIO - Per chi ci crede!

 

BRUTO - Voci sparse ad arte,

per ravvivar negli animi più fiacchi

l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa.

 

SICINIO - Già, questo è il loro gioco.

 

MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui

son due che possono andare d’accordo

non più di quanto può l’acqua col fuoco.

 

Entra un altro MESSO

 

SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato.