Allarme d’assalto

 

Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO

 

MARCIO - Con te e con nessun altro

voglio battermi, ché ti porto un odio

quale nemmeno al peggiore spergiuro.

 

AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa

ch’io aborrisca più della tua fama

e della tua rivalità. Difenditi(49)!

 

MARCIO - Il primo che fa un solo passo indietro

muoia schiavo dell’altro,

e poi gli dèi lo dannino in eterno.

 

AUFIDIO - Se mi vedi fuggire,

urlami dietro, Marcio, come un cane

corre abbaiando dietro ad una lepre.

 

MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io,

da solo ho combattuto contro tutti

dentro le mura della tua Corioli,

facendo tutto quello che ho voluto.

Lo vedi questo sangue

di cui sono imbrattato? Non è mio.

Chiama a raccolta tutte le tue forze,

adesso, se vuoi farne tu vendetta.

 

AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia

che della tua altezzosa progenie

fu la frusta(50), stavolta non mi scappi.

 

(Si battono. Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro)

 

(Ai suoi soldati)

Gente zelante, ma non valorosa,

con questo vostro maledetto aiuto

m’avete sol coperto di vergogna!

 

(Escono)

 

 

SCENA IX - Il campo romano

 

Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata(51)

 

Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo

 

COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te

quel che t’ho visto fare oggi in battaglia,

tu stesso non mi presteresti fede.

Ma lo riferirò

dove saranno a udirlo senatori

che mesceranno lacrime a sospiri

ad ascoltarlo: dove grandi nobili

ascolteranno, prima spallucciando

tra loro increduli, infine ammirati;

dove matrone, dapprima atterrite,

poi trepidanti d’intimo piacere,

vorranno udirmi raccontare ancora;

dove gli ottusi, stupidi tribuni,

che insieme alla lor plebe puzzolente

t’hanno in odio, dovranno a malincuore

pur esclamare: “Sien grazie agli dèi

che Roma ha un tal soldato!”.

Senza dire che tu, ad un tal banchetto

sei venuto per dare solo un morso,

avendo già mangiato a sazietà(52).

 

Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta

 

LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio)

Generale, il cavallo di battaglia

è lui, noi siamo la sua bardatura.

Lo avessi visto!...

 

MARCIO - Evvia, basta, ti prego!

Anche mia madre, che pure ha il diritto

di vantar con orgoglio il proprio sangue,

se si mette ad elogiarmi, mi fa male.

Ho fatto ciò che avete fatto tutti,

cioè quanto ho potuto, come voi

animato da un solo sentimento,

l’amor della mia patria.

Chiunque abbia operato con nient’altro

che con la propria buona volontà,

ha fatto esattamente come me.

 

COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53).

Roma deve sapere quanto vali.

Tener nascoste al mondo le tue gesta,

sarebbe compiere un trafugamento

peggior d’un furto; ammantar di silenzio

qualcosa che quand’anche proclamata

sui vertici più alti dell’elogio

apparirebbe ancor ben più modesta

della realtà, non è minor delitto

d’una calunnia. Perciò ti scongiuro:

per quello che tu sei,

e non in premio di quello ch’hai fatto,

ascoltami davanti al nostro esercito.

 

MARCIO - Le ferite ch’ho addosso

mi dolgono a sentirsi ricordare.

 

COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo,

esulcerate dall’ingratitudine,

curarsi da se stesse con la morte.

Di tutti quei cavalli

- e ne abbiam catturati d’assai buoni

ed in gran numero - e del bottino

conquistato sul campo ed in città,

noi ti assegniamo la decima parte,

che potrai scegliere liberamente

prima che sia spartito tutto il resto.

 

MARCIO - No, generale, grazie,

ma non potrei convincere il mio cuore

ad accettare un dono sottobanco(54)

per pagar la mia spada. Lo rifiuto,

e reclamo per me semplicemente

la parte che hanno avuto tutti gli altri

ch’hanno partecipato alla battaglia.

 

(Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto)

 

Questi strumenti che voi profanate(56)

non risuonino più così a sproposito!

Quando tamburi e trombe

son ridotti, sul campo di battaglia,

a strumenti per adulare, allora

si riempian le corti e le città

di genti dalle facce false e ipocrite.

Quando l’acciaio si fa così morbido

come la seta addosso al parassita,

s’elevi questo a simbolo di guerra(57)!

Basta, basta, vi dico!

Sol perch’io non mi son lavato il naso

che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto

qualche misero scarto di natura

- ciò che molti altri han fatto come me

senza la minima nota di elogio -

ecco che voi mi portate alle stelle

con iperboliche acclamazioni,

come s’io fossi un uomo

che tenesse a vedere la pochezza

ch’ei sa di essere alimentata

dalle lodi con salsa di menzogne.

 

COMINIO - Tu sei troppo modesto,

e più spietato contro la tua fama

che grato a noi che te la tributiamo

con tutto il cuore. Con tua buona pace,

però, se sei irritato con te stesso,

ti metteremo le manette ai polsi

come ad uno deciso a farsi male,

così potremo ragionare insieme

senza incorrere in chi sa quali rischi(58).

Perciò sia proclamato a tutto il mondo,

come a noi tutti qui, che Caio Marcio

di questa guerra è il vero vincitore(59),

ed io per questa sua benemerenza

gli faccio dono del mio bel corsiero,

animale famoso in tutto il campo,

e della relativa bardatura.

E d’ora in poi per quanto egli ha compiuto

di valoroso davanti a Corioli,

con unanime applauso ed un sol grido,

si chiami Caio Marcio “Coriolano”.

(A Coriolano(60) )

Di questo titolo sii sempre degno!

 

TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi)

Sia gloria a Caio Marcio Coriolano!

 

CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso

poi che l’avrò pulito, osserverete

se me l’avrete fatto o no arrossire.

Comunque vi ringrazio.

(A Cominio)

Intendo cavalcare il tuo destriero,

ed il bel soprannome che m’hai dato

porterò sempre, e nel modo più degno,

in cima al mio cimiero.

 

COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda:

io, nella mia, prima di riposare,

scriverò a Roma del nostro successo.

Tu, però, Tito Larzio,

è necessario che torni a Corioli,

e mandi a Roma i loro più autorevoli,

coi quali, per il bene loro e nostro,

si possa negoziare.

 

LARZIO - Lo farò.

 

CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco:

ho appena rifiutato d’accettare

doni degni d’un principe,

ed eccomi costretto a mendicare

qualcosa dal mio comandante in capo.

 

COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta?

 

CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta

fui ospite di un certo pover’uomo

che mi si dimostrò molto cortese.

L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri,

che mi gridava aiuto; in quell’istante

però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio,

e l’ira ha sopraffatto la pietà.

Ecco, ti chiedo di lasciare libero

quel mio buon ospite.

 

COMINIO - E bene hai chiesto!

Fosse pur l’assassino di mio figlio,

libero se n’andrebbe, come l’aria.

(A Larzio)

Rilàsciaglielo, Tito.

 

LARZIO - Il nome, Marcio?

 

CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato!

Sono stanco, ho la mente affaticata(61)...

Non avreste del vino?

 

COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni.

Il sangue sulla faccia ti si secca.

Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni.

 

(Escono)

 

 

SCENA X - Il campo dei Volsci

 

Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue, con dei soldati

 

AUFIDIO - La città è presa.

 

PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno

a buone condizioni.

 

AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere,

ché da volsco non sono più me stesso!

Condizioni!... Che buone condizioni

può portare una resa a discrezione

alla parte ch’è alla mercé dell’altra?

O Marcio, ho combattuto cinque volte

con te, e cinque volte tu m’hai vinto;

e faresti altrettanto, son sicuro,

c’incontrassimo pure tante volte

quante ogni giorno ci sediamo a mensa.

Ma, pel cielo e la terra!,

se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta

faccia a faccia con lui, o io o lui!

Il mio spirito di rivalità

ha perduto ogni scrupolo d’onore;

ché, se prima pensavo di schiacciarlo

ad armi pari, spada contro spada,

ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia,

non più, qualsiasi mezzo sarà buono

a spacciarlo.

 

PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona.

 

AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo.

Il mio valore è come avvelenato

solo a soffrire d’essere oscurato

per colpa sua; e per causa di lui

sarà costretto a fuggir da se stesso(62).

Non ci sarà né sonno né santuario(63),

sia nudo o infermo, non ci sarà tempio

né Campidoglio, non sacre preghiere

né cerimonia d’offerta agli dèi,

- tutti freni al furore scatenato -

ad arginare l’odio mio per Marcio

in forza del lor marcio privilegio

e dell’usanza che ancor li sostiene.

Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi,

foss’anche a casa mia, pure là,

l’avesse pur mio fratello in custodia,

contro ogni legge d’ospitalità,

laverò la mia mano inferocita

nel suo cuore... Tu ora va’ in città(64),

informati in che modo è presidiata

e chi son quelli ch’essi hanno prescelto

per inviarli a Roma come ostaggi.

 

PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi(65)?

 

AUFIDIO - Sì, sono aspettato

al bosco dei cipressi. Là, ti prego

(è a sud della città, dopo i mulini)

fammi sapere come stan le cose,

ch’io possa regolarmi

su quale corso muovere i miei passi.

 

PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante.

 

(Escono)

 

 

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA I - Roma, una piazza

 

Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi

 

MENENIO - L’augure dice che per questa sera

avremo novità.

 

BRUTO - Buone o cattive?

 

MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo,

che non vuol bene a Marcio.

 

SICINIO - Natura insegna pure agli animali

a conoscere chi è loro amico.

 

MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo?

 

SICINIO - All’agnello.

 

MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo;

come vorrebbero fare con Marcio

gli affamati plebei.

 

BRUTO - Quello è un agnello

però che bela come un orso.

 

MENENIO - Un orso,

che vive tuttavia come un agnello.

Beh, voi siete due uomini maturi,

ditemi solo questo.

 

I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa?

 

MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio,

che voi due non abbiate in abbondanza(66)?

 

BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti,

si può dir che possieda ampia provvista.

 

SICINIO - Specialmente di boria.

 

BRUTO - E di alterigia come nessun altro.

 

MENENIO - Ah, questo sì che è buffo!

Lo sapete voi due come vi giudicano

in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi

della fila di destra(67)? Lo sapete?

 

I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati?

 

MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia...

se ve lo dico non andrete in collera?

 

I DUE TRIBUNI - Bene, allora?...

 

MENENIO - Del resto, poco male,

tanto si sa che a voi basta un’inezia

per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì,

lasciate pur andar la briglia sciolta

sul collo ai vostri permalosi umori,

e andate in collera quanto vi pare,

se ci provate gusto!... Proprio voi,

accusar d’alterigia Caio Marcio?

 

BRUTO - Non siamo i soli.

 

MENENIO - Ah, questo lo so bene!

Da soli voi sapete far ben poco;

ed è perché son tanti ad aiutarvi

che riuscite a fare anche quel poco:

troppo infantili sono i vostri mezzi

perché riusciate a far molto da soli.

E venite a parlare d’alterigia!

Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro,

nei meandri dei vostri cervicali

e fare un bell’esame di coscienza!

Magari lo poteste!

 

BRUTO - Ebbene, allora?

 

MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata

di magistrati scialbi, senza meriti,

e tuttavia boriosi, prepotenti,

lunatici, bizzosi, e insomma stolidi,

come non ce n’è a Roma nessun altro.

 

SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto...

 

MENENIO - Sì, lo so, sono noto

per essere un patrizio un poco estroso,

al quale piace un buon bicchier di vino(69)

non annacquato nell’acqua del Tevere;

uno di cui si dice che ha il difetto

di dar ragione al primo che reclama;

uno che prende fuoco facilmente;

uno che bazzica più volentieri

il nero deretano della notte

che non la chiara fronte del mattino.

Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca

e la malizia m’esce via col fiato.

Se mi trovo con due politici

(che non posso dir certo due Licurghi(70) )

come voi, e volete darmi a bere

qualcosa ch’è sgradito al mio palato,

fo boccacce. Non posso certo dire

che le signorie vostre han detto bene

una cosa, se in ogni vostra sillaba

io trovo tutto un concentrato d’asino(71).

E se sopporto con rassegnazione

chi mi dice che siete uomini seri

e rispettabili, dico ch’è un bugiardo

chiunque dica che le vostre facce.

son facce oneste. E ammesso che voi due

riusciate a legger questo sulla mappa

del microcosmo della mia persona,

ne segue forse che possiate dire

di conoscermi bene? E se pur fosse,

qual difetto riescono a discernere

le vostre miopi facoltà visive

in questa mia natura?

 

BRUTO - Via, Menenio,

pensiamo di conoscerti abbastanza!

 

MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio,

né voi stessi, né niente! Siete solo

ambiziosi di scappellate e inchini

dalla parte di misere canaglie.

Siete capaci di buttare ai cani

il tempo d’una intera mattinata

ad ascoltare la banale bega

tra un’ortolana(72) e un venditor di zaffi,

per rinviare poi ad altra udienza

quella controversiuccia da tre soldi.

E se, mentre sedete ad ascoltare

in una lite l’una e l’altra parte(73),

v’accade d’esser colti dalla strizza

d’andar di corpo, fate mille smorfie,

da somigliare a delle marionette,

innalzate bandiera rosso-sangue(74)

contro chiunque non voglia aspettare(75),

e, bofonchiando in cerca d’un pitale,

lasciate lì la causa nel bel mezzo,

a sanguinar più imbrogliata di prima(76);

col risultato che la conclusione

che sarete riusciti ad apportare

alla vertenza sarà stata in tutto

l’aver chiamato entrambi i litiganti

“farabutti”. Che bella coppia, siete!

 

BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei meglio noto

come un brillante pigliaingiro a tavola

che come un altrettanto indispensabile

occupante d’un seggio in Campidoglio(77)!

 

MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti

devono diventar delle linguacce

se son costretti ad aver a che fare

con tipi della vostra bassa tacca(78).

Quel che sapete dire di più acconcio

non vale l’agitarsi che nel dirlo

fanno le vostre barbe; quelle barbe

che non meritan fine più onorata

che d’andare a servir da imbottitura

al cuscino di qualche tappezziere

o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79).

E tuttavia dovete andar dicendo

a destra e a manca che Marcio è superbo;

lui, che a stimarlo poco,

val più di tutti i vostri antecessori

presi insieme, da Deucalione in giù(80);

anche se casualmente, tra coloro,

ci sia stato qualcuno, tra i migliori,

col mestiere di boia ereditario.

Ma buona sera alle eccellenze vostre;

ché a star ancora a discuter con voi,

mandriani del plebeo bestiale armento,

c’è rischio d’infettarsi le cervella.

 

Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro

 

Oh, le mie belle e nobili matrone!

Non sarebbe più nobile la Luna,

se mai fosse terrena creatura.

Dov’è che indirizzate in tanta fretta

i vostri passi?

 

VOLUMNIA - Nobile Menenio,

sta per giungere qui mio figlio Marcio.

Lasciaci andare, per Giove e Giunone!

 

MENENIO - Ah, Marcio torna a casa?

 

VOLUMNIA - Sì, Menenio,

e accompagnato dal più vivo applauso,

e dai migliori auspici.

 

MENENIO - (Gettando in aria il berretto in segno di gioia)

Oh allora, Giove,

prenditi il mio berretto, e ti ringrazio!

Dunque, Marcio ritorna?

 

VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio.

 

VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera;

un’altra l’ha il Senato, una sua moglie;

e ce n’è un’altra, credo, anche per te,

a casa tua.

 

MENENIO - Per me? Una sua lettera?...

Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi,

mi metto a far ballar tutta la casa!

 

VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te.

L’ho vista con i miei occhi.

 

MENENIO - Una sua lettera!

Mi regala sette anni di salute!

Per sette anni farò boccacce al medico!

A fronte d’una tale medicina,

la ricetta più eccelsa di Galeno(81)

è uno specifico da ciarlatano(82)!

Peggio d’un beverone da cavallo!

Non è mica ferito?... Perché sempre

tornò a casa ferito le altre volte.

 

VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no!

 

VOLUMNIA - Ferito, sì,

ed io di ciò rendo grazie agli dèi.

 

MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave...

Le ferite stan bene

a chi si porta la vittoria in tasca.

 

VOLUMNIA - Lui se la porta in fronte, la vittoria,

ed è la terza volta che mi torna

col capo cinto di foglie di quercia!

 

MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere?

 

VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio,

si son scontrati, ma quello è scappato.

 

MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro!

Ché se fosse rimasto, io, al suo posto,

non mi sarei voluto “aufidizzare”

per tutto l’oro che sta custodito

dentro le casseforti di Corioli.

Il Senato è informato?

 

VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria)

Andiamo, donne.

 

VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie.

 

MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83),

garantito!

 

VIRGINIA - Così voglion gli dèi!

 

VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa!

 

MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo.

Dov’è ferito?...

 

(S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni)

Vostre signorie,

che Dio(84) le salvi, Marcio sta tornando,

ed ha ancor più ragioni, questa volta,

d’esser superbo.

(Alle due donne)

Dov’è ch’è ferito?

 

VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra.

Ce ne saran di belle cicatrici

da scodellare al popolo

quando concorrerà per la sua carica!

Sette ne ha ricevute per il corpo

nel cacciare Tarquinio(85).

 

MENENIO - Un’altra al collo,

altre due alla coscia, e fanno nove,

ch’io conosca.

 

VOLUMNIA - Ne aveva venticinque

quando è iniziata questa spedizione.

 

MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette:

e ogni tacca la tomba d’un nemico.

 

(Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo)

 

Ecco le trombe.

 

VOLUMNIA - Sono i suoi araldi.

Egli si porta innanzi a sé i clamori,

dietro si lascia lacrime.