Il mio cammino é sempre stato, in tutto e per tutto, un tentativo e un interrogativo - in verità, bisogna anche “imparare” a rispondere a questo interrogare! Ma questo é - il mio gusto:
- non un buon gusto, né cattivo, bensì il “mio” gusto, di cui non mi vergogno più e che più non celo.
- Questa, insomma, é la “mia” strada, - dov’é la vostra? - , così rispondo a quelli che da me vogliono sapere ‘la strada’. “Questa”
strada, infatti, non esiste!
Così parlò Zarathustra.
DI ANTICHE TAVOLE E NUOVE.
1.
Qui sto seduto e attendo, vecchie tavole spezzate (204) intorno a me e anche tavole nuove, scritte solo a metà. Quando verrà la mia ora?
- l’ora del mio declino, tramonto: giacché per una volta ancora voglio andare agli uomini.
E questo ora attendo: infatti bisogna che a me giungano i segni che la
“mia” ora é giunta - questi sono: il leone che ride accompagnato da uno stormo di colombi.
Per intanto parlo come uno che ha tempo, parlo a me stesso. Nessuno mi racconta cose nuove: e allora io mi racconto a me stesso.
2.
Quando venni dagli uomini, li trovai assisi su di un’alterigia antica: si credevano tutti di sapere da lungo tempo che cosa fosse bene e che cosa male per l’uomo.
Ogni discorso intorno alla virtù pareva loro una cosa decrepita e stracca; e chi voleva dormire di un buon sonno, prima d’andare a letto discorreva ancora di ‘bene’ e ‘male’ (205).
Io disturbai queste abitudini sonnacchiose, quando mi misi a insegnare: che cosa sia buono, che cosa cattivo, “non lo sa nessuno”:
- a meno che non sia uno che crea!
- Costui però é colui che crea la meta dell’uomo e che dà alla terra il suo senso e il suo futuro: solo costui fa sì, “creando”, che qualcosa sia buono e cattivo.
E io ordinai loro di rovesciare le loro vecchie cattedre, e tutto quanto aveva servito a quell’alterigia antica per stare assisa; ordinai loro di ridere dei loro grandi maestri di virtù e santi e poeti e redentori del mondo.
Ordinai loro di ridere dei loro saggi pieni di tetraggine e di tutti gli spauracchi neri che mai si fossero assisi sull’albero della vita a dare ammonimenti.
Mi sedetti lungo la loro grande strada dei sepolcri e persino accanto alle carogne e agli avvoltoi (206) - e risi di tutto quanto il loro passato e della gloria sua, fracida e cadente.
In verità, come i predicatori di penitenza e i pazzi, invocai collera e vendetta contro tutte le loro cose, le grandi e le piccole - perché ciò che hanno di meglio é così meschino! Perché il loro peggio é così meschino! - così io ridevo.
Così da me gridava e rideva la mia nostalgia saggia, nata sui monti, invero una saggezza selvaggia! (207) - la mia grande nostalgia dal volo tempestoso.
E talvolta accadeva che in mezzo al riso essa mi trascinasse via e in alto: ecco che volavo, rabbrividendo, un dardo tra estasi ebbre di sole:
- laggiù in futuri remoti non visti ancora da sogno alcuno, in meridioni più ardenti di quanti siano mai stati sognati dagli artisti: laggiù, dove gli déi danzano e si vergognano delle vesti (208). -
- ch’io parli in similitudini e, come i poeti, zoppichi e balbetti: e, davvero, io mi vergogno di dover essere ancora poeta! -
Dove il divenire tutto mi sembrò una danza e un ilare scherzo di déi, e il mondo sciolto e sfrenato e rifluente in se stesso:
- come l’eterno sfuggirsi e ricercarsi di molti déi, come beato contraddirsi, udirsi di nuovo, di nuovo appartenersi di molti déi: -
Dove il tempo tutto mi sembrò un’irrisione beata di secondi, dove la necessità era la libertà in persona, che beata si baloccava col pungiglione della libertà (209): -
Dove ritrovai anche il mio vecchio demonio e arcinemico, lo spirito di gravità e tutto quanto esso aveva creato: costrizione, canone, penuria e conseguenza e scopo e volontà e bene e male: -
Infatti, non fa d’uopo che esista ciò “su” cui e oltre a cui si possa danzare? Forse che i nani grevi, scavanti come talpe, non hanno da esserci perché ci siano i leggeri, leggerissimi? - -
3.
Là fu, anche, dove io raccolsi per strada la parola ‘superuomo’ e che l’uomo é qualcosa che deve essere superato,
- che l’uomo é un ponte e non uno scopo: che si chiama beato per il suo meriggio e la sua sera, come via verso nuove aurore (210):
- la parola di Zarathustra sul grande meriggio, e tutto quanto io ho sospeso sugli uomini, simile a purpurei vesperi secondi.
In verità io feci vedere loro nuovi astri e anche notti nuove; e al di sopra delle nuvole e del giorno e della notte io tesi anche, tenda multicolore, la mia risata (211).
A loro insegnai tutti quanti i “miei” disegni e pensieri (212): serrare in uno e raccogliere insieme ciò che nell’uomo é frammento ed enigma e orrida casualità, -
- in quanto poeta, solutore di enigmi e redentore della casualità, insegnai loro a creare nell’avvenire e a redimere nella creazione tutte le cose che “furono”.
Redimere il passato nell’uomo e ricreare ogni ‘così fu’, finché la volontà dica: - Ma così volli che fosse! Così vorrò che sia - - .
- Questo, per loro, io chiamai redenzione, e questo soltanto insegnai a chiamare redenzione. - -
Adesso attendo la “mia” redenzione -, che io vada a loro per l’ultima volta.
Giacché per una volta ancora io voglio andare dagli uomini: “tra” loro voglio tramontare, morendo voglio donare loro il più ricco dei miei doni!
Questo l’ho imparato dal sole, che di ricchezza sovrabbonda, quando va giù: attingendo da tesori inesauribili ricolma d’oro il mare, -
- così che anche il più povero dei pescatori rema con remi “d’oro”!
Questo io vidi, infatti, una volta, né mi saziai di lacrime al vederlo (213). - -
Anche Zarathustra vuol tramontare, come il sole: ed ecco sta qui seduto e attende, antiche tavole infrante intorno a sé, e anche tavole nuove - scritte a metà.
4.
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