Scoppiarono risate in tutti i toni.
«Bella, bellissima, arcibellissima» esclamò indispettito il dottor Grigiolo, «ma, caro cappellano benedetto, non vedo poi la necessità di rompere i timpani al prossimo. Capisce bene, di là ci sono tante signore e proprio la contessa pregherebbe...»
«Le femmine?» rispose don Bortolo. «Perché non ne sanno fare del chiasso, le femmine!»
«Zitto, zitto, andiamo, state quieto, cappellano» dissero i colleghi.
«Bravi, mi raccomando; anche per il conte Lao, che sta poco bene.»
Il dottor Grigiolo guardò il più vecchio di quei sacerdoti, l’arciprete, con una faccia tra seria e compunta.
«Venga qua» esclamò l’incorreggibile don Bortolo, «venga qua, dottore, non stia a combattere colle femmine e beva una tazzetta con noi. Cosa mi conta del conte Lao? Non La capisce che la sua camera è dall’altra parte? Non La sa che il conte Lao sta meglio di Lei e di me? Non La sa che è matto?»
«Fate tacere a don Bartolo!» gridò il senatore dalla sala.
«Oh, hanno capito?» sussurrò il dottor Grigiolo con gli occhi fuori della testa. «L’Etna, corpo! Capace di venir qua con la stecca, perdia!»
«Campanile!» fece il cappellano.
La sua uscita e il suo comico sgomento misero nella brigata una così clamorosa, irrefrenabile ilarità, che Grigiolo scappò via con le mani nei capelli, mentre don Bortolo, rinfrancato, si accingeva a leggere la chiusa del poema, quest’apostrofe agli elettori:
E sè no sì na massa de marson,
Spetèi sti fioi de pipe a le elezion,
A n’an che i ve vien solo parei fora,
E mandèi tuti oto a la malora.
«Fiasco, Grigioli!» gridò da lontano la contessa Tarquinia. Un’altra voce partì dal gruppo dei cospiratori:
«Viene, dottor Grigiolo?»
Egli rispose «un momento; vengo subito» e tirava via; ma il senatore barone di Santa Giulia gli piantò sullo stomaco una mano da San Cristoforo e lo fermò di botto.
«Rispondi!» diss’egli con il suo vocione tonante. «Sei Grigioli o Grigiolo?»
Lo smilzo e garbato giovinetto trasalì, diede un passo indietro e guardò il senatore come avrebbe guardato Attila.
«Grigioli, veramente» rispose, «ma il popolo...»
«Il popolo L’aspetta se La si degna» disse colui che l’aveva chiamato prima.
«Ah, il popolo! Ho capito» disse il barone.
«Voi non avete saputo far tacere a Bartolo.»
«Impossibile, senatore. Impossibile, contessa. Il Suo vin bianco è troppo generoso. Ci vorrebbe una pompa e dell’acqua. A momenti ne vien giusto giù un diluvio.»
«Credete, sì?»
«Oh sì, contessa.»
«Non vi pare che si alzi un poco, il tempo?»
«Non vedo, contessa.»
«Avete guardato bene?»
«Contessa sì.»
«E non vedete?»
«Contessa no.»
«Santo diavolo, che contessamento in questo paese!» borbottò fra i denti il senatore, curvo sul biliardo, provando e riprovando il colpo, con gli occhi alla palla avversaria.
«L’uso, barone» osservò sommessamente Perlotti, ritto in faccia a lui.
«Via, che gli elettori vi aspettano» disse piano la contessa Tarquinia a Grigiolo, e lo spinse via con le mani, perché quegli, seccato, non ci voleva andare, preferiva la compagnia delle signore alla sua missione elettorale. Poi la contessa si volse al gruppo e disse:
«Scommetto che questo tempo non fa nulla...»
E subito le voci ossequiose: «Direi anch’io, contessa. – Pare di no, contessa. – Non fa niente, nopo.»
Nello stesso tempo il fragor del tuono empì la sala, tutti i vetri suonarono.
«Ohe!» esclamò il senatore, buttando la stecca sul biliardo.
«Gesummaria!» disse la contessa. «Le finestre! Le finestre di sopra!»
E corse al campanello.
Una signorina, che prima non aveva mai aperto bocca, si mise a gemere.
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