«Devo andare, mamma, se no verrò punito», balbettò, «…e scrivimi, mamma, e Giulia, lo sai, e Belly.» Ancora un bacio e se ne andò.
«Vai con Dio.» Non la ascoltava più.
Al portone si voltò ancora una volta. Vide la piccola figura nera laggiù tra gli alberi scuri – e represse a fatica le lacrime… Ma si sentiva proprio molto male. Entrò barcollando nell’ampio cortile… era così stanco…
«Dumont!», gridò una voce brutale.
Il sottufficiale di guardia stava davanti a lui.
«Dumont! Porco demonio, non lo sa che si deve presentare al corpo di guardia?…»
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La cucitrice
… Era il mese d’aprile dell’anno 188… Ero costretto a cambiare appartamento. Il padrone di casa aveva venduto l’edificio e il nuovo padrone aveva deciso di affittare il piano in cui si trovava la mia modesta cameretta ad un’unica persona. Ne cercai a lungo un altro, ma invano. Stanco di cercare presi finalmente una cameretta, quasi senza vederla, al terzo piano di un edificio, il cui lato più lungo occupava una parte non piccola del minuscolo vicolo laterale.
La mia camera mi sembrò comoda fin dal primo giorno. Dalle due piccole finestre, i cui vetri a reticolo lasciavano trasparire l’età della casa, potevo vedere, al di là dei tetti rossi e grigi, al di là dei fumaioli pieni di fuliggine, le montagne azzurre e potevo contemplare il sorgere del sole che si sporgeva come una palla infuocata ai lati delle colline evanescenti. I mobili di mia proprietà, che avevo fatto costruire appositamente, rendevano il poco spazio ancora più abitabile di quanto avessi sperato all’inizio, e il servizio di pulizia, che aveva assunto la portiera, non lasciava a desiderare. Le scale non erano troppo ripide e si potevano salire senza fatica, sì, se le facevo sovrappensiero mi sentivo indotto ad arrampicarmi sino al tetto. In breve ero contento, e infine nel cortile scuro non giocavano bambini né suonavano pianole.
Sono passati anni da allora. Il tempo di cui parlo si perde per me nelle nebbie del passato, e i colori vivaci degli avvenimenti sono sbiaditi e confusi. È come se parlassi di un evento che non ha coinvolto me, ma un’altra persona, forse un caro amico. Ma non per questo ho motivo di temere che il mio amor proprio mi induca a mentire: scrivo in modo aperto, chiaro e corrispondente al vero.
Non stavo molto spesso a casa, allora. La mattina presto, alle sette e mezzo, andavo in ufficio, pranzavo a mezzogiorno in una trattoria poco cara e, finché era possibile, trascorrevo il pomeriggio a casa della mia fidanzata. Sì, ero fidanzato, allora. Edwige – la chiamerò così – era giovane, amabile, colta e – ciò che contava di più agli occhi dei miei compagni – ricca. Proveniva da un’antica famiglia di commercianti, che, attraverso risparmio e lavoro, erano finalmente riusciti a condurre una casa, che era frequentata anche da giovani cavalieri, giacché vi regnava, nel rispetto della buona educazione, una gaiezza senza formalismi, che non offriva agli ospiti noia insieme alle tazze da tè. La più giovane delle figlie di questa famiglia, Edwige, era al centro dell’attenzione, perché univa alla cultura una certa amabile leggerezza, che rendeva interessante e stimolante la conversazione più banale.
Possedeva più cuore e spirito delle altre due sorelle più grandi, era schietta, allegra, e
– è insomma certo che l’amavo.
Posso parlare apertamente. Più tardi, un anno dopo che il nostro fidanzamento era stato rotto, sposò un giovane ufficiale di nobile famiglia, ma morì dopo aver dato alla luce il primo figlio, una bambina dai riccioli d’oro.
Nella casa dei suoi genitori, dove ogni giorno si poteva incontrare un bel gruppo di gente, rimanevo normalmente fin verso le sei, poi facevo la mia passeggiata, andavo 22
a teatro e di notte, verso le dieci, tornavo a casa per riprendere poi il giorno dopo lo stesso ritmo di vita.
La mattina presto, quando scendevo lentamente le mie tre rampe di scale, spesso incontravo nel pianerottolo del primo piano il portiere, che puliva le bianche mattonelle.
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