I. Hennemann Barale, All’ombra di Nietzsche. George, Hofmannstahl, Rilke, Lucca 1931, pp.
141-143. ( N.d.C. )
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figura della madre, ossessionata dalla sua smania di essere insignita di un titolo nobiliare, e ridicolizza la sua propensione per l’arcano e per il misterioso. Questo definitivo distacco dalla madre va di pari passo con il rifiuto del nazionalismo: questione autobiografica e questione culturale si intersecano indissolubilmente. I due protagonisti di questo racconto, su cui si sbizzarrisce il sarcasmo dell’autore, vengono però associati al suo stesso destino di “senza casa”. L’ironia è il mezzo per ottenere il definitivo distacco dalla “patria” e dai sogni maniacali dei genitori, per raggiungere quello “spiazzamento”, che lo porta, sì, ad essere “senza casa”, ma lo proietta nella dimensione esistenziale moderna di cittadino del mondo.
Rilke ebbe modo di conoscere e apprezzare nei circoli letterari di Praga numerosi scrittori di lingua ceca, da cui fu influenzato nelle sue poesie. Anzi proprio dalla cultura ceca Rilke ha tratto gli stilemi e i temi (arcani ed orfici) per superare lo stagnante naturalismo in voga in quegli anni nella cultura tedesca. La constatazione della ricchezza delle altre culture che si affacciavano sulla “soglia” della città praghese, unite alla “scoperta” della lingua e della cultura russa, tramite Lou Andreas Salomé, sono state le cause dell’abbandono da parte di Rilke di quegli schematismi nazionalistici, di quelle barriere “di classe”, che per vie diverse, gli avevano inculcato i suoi genitori. Dopo la sua partenza da Praga Rilke si sentì e divenne un poeta europeo, non solo perché scrisse dei versi in russo, in francese e persino in italiano, non solo perché abitò a Parigi, a Duino, a Muzot e viaggiò continuamente per tutta la sua vita, ma perché concepì la sua stessa opera aperta a tutte le interferenze e assolutamente slegata da qualsiasi luogo che non fosse un luogo poetico. Come nota Mittner7, Rilke è il primo esempio di poeta “senza casa”, nel senso che non ebbe mai una vera e propria residenza non solo per ragioni economiche, ma anche perché era cosciente che il “mondo di ieri” era destinato a scomparire e che quindi la Heimat, la casa paterna (in questo caso sarebbe meglio dire “materna”) non era una vera casa, ma era dissolta sotto le sue contraddizioni. Questo senso di decadenza della casa paterna non va decifrato solo alla luce delle sue vicende biografiche, del suo sentirsi rifiutato dalla madre, della dissoluzione storica del focolare domestico di suo padre; ma va inteso in senso più generale come coscienza della fine di quel clima tenero e protettivo, dolce e avvinghiante di maticka Praha, che non riusciva a superare i limiti del regionalismo, nonostante le sue magmatiche e straordinarie capacità di esplorare l’arcano e il fantastico. Abbandonare Praga è stato per Rilke una liberazione. E questi racconti rappresentano, sia in senso tematico che in senso linguistico, l’affannosa ricerca di questa liberazione, ed esprimono nel contempo tutti i disagi, le paure, le ossessioni e le sofferenze dei giovani che sono immersi in questo clima «dagli artigli aguzzi». È infatti la morte il tema centrale di questi racconti. E, al di là degli stilemi di moda alla fine secolo, la morte come viene qui dipinta, a tinte forti e espressive, dal giovane Rilke, assume il significato di morte di tutta un’epoca. Se si abbandona la maticka si diviene “senza patria” e senza casa: in questo Rilke è stato coerente: non è 7 Cfr. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla sperimentazione (1820-1970), Torino 1971, pp. 1119 ss.; cfr anche L. Mittner, «Rilke, ultimo superstite del mondo di ieri», in La
letteratura tedesca del Novecento, Torino 1960. pp. 202-210. ( N.d.C. ) 9
più tornato in patria e non ha avuto più nemmeno una casa, proiettato com’era alla ricerca sempre e comunque del nuovo.
Dai diari e dai vari carteggi di Rilke, risulta che il poeta tra il 1897 e il 1899 avesse fatto più progetti di raccolte di racconti.
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